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Un’irlandese a Roma e altre storie

In Abitare stanca, La casa: un racconto politico, effequ, Firenze 2022, Sarah Gainsforth riorganizza i temi consueti della sua analisi urbanistica e abitativa sotto l’inedito profilo di un romanzo familiare

Quasi 120 anni dopo, un’altra voce esule irlandese risuona a Roma e si volge alla narrazione in mezzo ai frequenti cambi di casa. E di case si occupa – guardandole da fuori curiosa e investigando le loro vicende di mercato.

A dire il vero, nella sua fase di giornalismo urbanistico Sarah Gainsforth si era perfettamente mimetizzata in vesti da sempre italiane, tanto che oggi – nello svelare in forma mista saggistico- narrativa il suo romanzo familiare irlandese (e anche inglese e statunitense) – deve denunciare esplicitamente che «in pieno calo demografico l’Italia continua a negare il diritto di cittadinanza a tante persone nate e cresciute in Italia, come me» (p. 279 del suo ultimo libro, Abitare stanca).

Nel suo caso particolare, questo scandalo burocratico del diniego dello ius soli concorda simbolicamente con uno stato di pluri-appartenenza culturale di una famiglia nomade nel corso di generazioni, come il libro ricostruisce. Un nonno operaio, nipote di irlandesi immigrati in Nebraska e una nonna di famiglia contadina tedesca, abbastanza agiati fino al Dust Bowl del 1930 che dissecca la terra, porta i coltivatori al fallimento e scatena l’esodo biblico narrato in Furore.

Fatto sta che, anche dopo la Grande Depressione, il Nebraska so flat del Boss non attira il padre, che finisce in un carcere minorile, vi soggiorna un anno e appena uscito se ne va di corsa e inizia a girare il mondo, senza preoccuparsi di risparmiare soldi. Va prima a S. Francisco e nel selvaggio Oregon da una sorella, non termina l’università e taglia le radici: «Libero, alla soglia della vita adulta, voleva vedere il mondo. L’ultima cosa che mio padre desiderava era un lavoro fisso e un mutuo per un pezzo di proprietà a inchiodarlo nel posto dove era nato» (p. 38). Con il che l’imprinting familiare è dato.  

Segue la formazione on the road, 1963, senza soldi ma con una Jaguar bianca con sedili in pelle rossa, ben presto rivenduta per una sistemazione più pratica, lui e il suo compagno di viaggio. Las Vegas, Messico, Guatemala, Panama, la scoperta dell’imperialismo americano, vendita definitiva della macchina e imbarco per l’Europa, come camerieri sullo yacht… di John Wayne (la classe non è acqua).

L’avventura piratesca si snoda ora sul vecchio continente: Spagna, Francia, Svizzera (dove si separa dall’amico), Austria (dove vede le Olimpiadi invernali e fa un secondo incontro decisivo per aprirgli gli occhi sugli Usa), di nuovo a Parigi, finisce i soldi e accetta l’invito di un altro amico a trasferirsi nella meno costosa Roma, dove insegnerà inglese e si fidanza fuggevolmente con Shirley, con cui va ad abitare a Campo de’ Fiori. Anche l’altro esule irlandese amava di Roma quasi soltanto Campo de’ fiori e idolatrava, oltre al vino, Giordano Bruno, sotto la cui statua è ritratto durante una manifestazione anarchica nel febbraio del 1907.

La biografia del padre, tappa per tappa, consente di trattare con ampie digressioni le vicende della Grande Depressione e del New Deal negli States, in particolare le politiche abitative (i due Housing Acts del 1934 e 1937, con l’emendamento detto Fannie Mae del 1938) e la formazione di un mercato dei mutui, remota radice della bolla del 2007, sull’altra sponda dell’Atlantico lo “sventramento” mussoliniano del centro storico romano e l’espulsione degli abitanti nelle borgate, dove saranno raggiunti dagli immigrati clandestini meridionali, l’edilizia popolare dell’Ina-Casa e il boom dei palazzinari e della rendita negli anni ’60, l’abusivismo di necessità dei “borghetti” e le lotte per la casa e contro la legislazione sull’urbanesimo, fino al grande risanamento delle borgate sotto la sindacatura Petroselli del Pci.

La “bizzarra” (per un italiano medio) ostinazione civica del padre a denunciare alle (sorde) autorità gli abusi edilizia in debita forma fa scivolare il discorso verso la contemporaneità. Le occupazioni delle case e le lotte dei nuovi immigrati, non più meridionali ma extra-comunitari, proprio a partire dallo sgombero di via Curtatone nel 2017 – con i cui antefatti Gainsforth figlia esordisce da giornalista di inchiesta proprio sulla nostra Dinamo.

Il ritorno del padre negli States nel 1973 è l’occasione per un aggiornamento sulle nuove politiche neoliberali generali e delle abitazioni, con la scelta (adottata poi anche in Italia) di finanziare le locazioni private sul mercato piuttosto che mantenere i programmi di edilizia pubblica e finanziarne la costosa manutenzione; di qui l’enfasi meritocratica e l’idea che solo uno spirito proprietario potesse indurre gli usufruttuari a mantenere l’efficienza e il decoro dell’abitazione e tutelare gli spazi comuni.

Di qui alla criminalizzazione del broken window c’era soltanto un passo – e fu ben presto fatto con il fanatico e corrotto Giuliani. La battaglia newyorkese di Jane Jacobs contro Robert Moses è dimenticata e il patrimonio comune è affidato panopticamente ai sorveglianti e alle telecamere – nonché alla facile uccisione dei “sospetti”, per strada e dentro casa. Dove la “cura” non riesce, si ricorre alla demolizione –è il caso famoso del complesso Pruitt-Igoe a St Louis nel 1972, procedura poi replicata in Gran Bretagna colpendo i grandi complessi “brutalisti” costruiti in epoca laburista e che avevano offerto un’efficiente risposta collettiva ai bisogni edilizi della classi popolari dopo le distruzioni belliche, quando l’edilizia popolare delle council house aveva, oltre tutto, caratteristiche decisamente interclassiste e non settoriali, di rifugia della povertà e del degrado.

Nel frattempo il padre, forse senza tetto, dorme spesso di notte nella Public Library di New York e si tatua, riconoscente, uno dei leoni rossi dell’ingresso principale sull’avambraccio. Potrebbe essere un episodio di Ex libris, il bellissimo documentario che F. Wiseman ha dedicato alla funzione sociale di quella meritoria istituzione cittadina.

La descrizione dei fenomeni sociali procede in parallelo con la genealogia familiare, come se nel Dna dell’autrice confluissero i vari rami dell’accumulazione capitalistica e delle resistenze popolari.

I bisnonni materni provengono pure dall’Irlanda di fine Ottocento, fittavoli poverissimi, perseguitati dalla giustizia e costretti a emigrare in Inghilterra, a St. Helen, sobborgo di Liverpool, dopo il decennio della grande carestia iniziata nel 1844, e lavorano nelle fabbriche chimiche e nelle miniere di carbone. Qui nasce nel 1948 la madre dell’autrice – cui il libro è dedicato.

Ma solo con il trasferimento a Liverpool della madre, resasi indipendente dalla famiglia grazie a una borsa di studio universitaria, diventa determinante un altro contesto urbanistico – la storia delle case popolari inglesi.

Dopo una breve parentesi nel 1967 nella già mitica Penny Lane, sceglie di abitare, per economicità di affitto, nel degradato Toxteth, quartiere afrocaraibico e di studenti poveri e politicizzati, dove impara peraltro ad apprezzare quell’edilizia comunale che già, come abbiamo visto, iniziava a essere vittima del nuovo orientamento neoliberale di provenienza Usa.

Negli anni ’80, in apertura dell’èra Thatcher, è esemplare la serie televisiva Free to Choose con cui Milton Friedman, padre della Scuola di Chicago (e fra gli ispiratori del golpe cileno del 1973) ricorre all’amplificazione mediatica per propagandare le tesi del suo libro omonimo girandone un episodio proprio nel complesso popolare londinese di Hulme Crescent.

Dalla felicità (per un proletario) di abitate in una casa popolare, si passa allo stigma pauperistico che chi deve accontentarsene. L’ideologia del Right to Buy, ovvero al riscatto delle case popolari da parte degli assegnatari, è il tipico strumento giuridico neoliberale per sancire il mito della casa individuale e la concorrenza per distinguersi (il cavallo di Troia in Europa dell’imprenditore di se stesso nordamericano): «Si capì che la promozione della proprietà (e del relativo indebitamento) avrebbe fatto rigare dritto le persone».

Dal 1979 a oggi si è scesi da 6,5 milioni di case comunali a 2 milioni, dal 39 al 20% del patrimonio edilizio totale. La spesa sociale si è spostata dagli investimenti costruttivi ai sussidi ai proprietari, spesso diventati piccoli landlord a canoni elevati, mentre il mercato immobiliare e dei mutui è diventato l’elemento propulsore della finanziarizzazione dell’economia.  

Esito ultimo è la Big Society: «Se con Thatcher lo stato sociale viene scaricato a livello dell’individuo, con Cameron viene scaricato a livello della comunità, del volontariato, degli enti di beneficenza e delle imprese private. La funzione del governo dovrebbe essere limitata ad aiutare i cittadini a provvedere a sé stessi. Almeno in teoria, perché di fatto la funzione del governo è quella di aprire sempre più settori sociali all’assalto del mercato» (p. 209).

L’evoluzione del mercato italiano segue con qualche ritardo la stessa linea evolutiva, con la dismissione e/o l’abbandono del patrimonio pubblico e la rinuncia a qualsiasi pianificazione urbanistica a favore dei liberi scambi volumetrici dei diritti edificatori e dello sprawl selvaggio –vedi PRG romano del 2008, grazie Uolter!

Alla fine degli anni ‘70 i due lignaggi si sono misteriosamente congiunti dando vita alla nuova tribù dei Gainsforth 2.0 e Sarah torna a parlare in soggettiva, dal punto di vista delle sue domus transitoriae e dei quartieri che ha attraversato e vissuto e che la speculazione edilizia ha deformato.

L’area del Velabro, dove si erano stabiliti i genitori e aveva imparato ad andare in bicicletta, oggi sequestrata dalla Fondazione Fendi, con le sue pretenziose illuminazioni e il ristorante panoramico Rhinoceros con menu aperti da un’“idea di parmigiana” (15 euri), ma soprattutto San Lorenzo in corso di gentrificazione.

Lei domina Sanlo dall’alto di alcuni vani ricavati nelle Mura Aureliane, proprio sopra la porta da cui parte la via Tiburtina inoltrandosi poi verso la periferia e la campagna.  Procedendo lungo la consolare incontra alcuni degli episodi urbanistici e sociali recenti più rilevanti che sono stato oggetto delle ricerche e delle polemiche dell’autrice: il mito nefasto del “decoro”, i murales e la loro cancellazione per opera dei retaker, gli sgomberi delle occupazioni politiche e abitative, l’epopea del Cinema Palazzo e dei suoi pericolosi alberelli per fortuna spiantati all’amministrazione comunale e riconsegnati alla nobile destinazione Bingo,  lo studentato di lusso progettato a via dello Scalo di San Lorenzo e la grottesca futuribile Soho House a via De Lollis, le frange del nefasto estrattivismo turistico, la vertenza dell’Atletico San Lorenzo con i Cavalieri di Colombo, le speculazioni sulla tragedia di via dei Lucani, la “riqualificazione” della Stazione Tiburtina, con i suo boulevard sospeso scomodo e deserto con le sue estensioni speculative nel plesso integrato Parnasi-BNL e l’immancabile risvolto della cacciata dal piazzale sottostante dei migranti in transito di Baobab e, infine, al di là della tangenziale, il trionfo dei compro-oro e dei casinò e sale slot (i primi per procurarsi i soldi da dissipare nelle seconde), il tessuto dinamico dello sfruttamento della miseria, la proletarizzazione dell’azzardo.

Qui Sarah torna all’inizio, al suo guardare l’interno delle case dalle finestre, le palestre e i ristoranti dalle vetrate, le baracche sulla riva del Tevere, scruta cosa gli altri fanno, come si muovono, come la vita si rapporta all’abitare e come entrambe sfiniscano.

Adottare la forma-narrazione, attraverso il filtro del romanzo familiare aggiunge qualcosa all’analisi sociologica, alle stime quantitative sul patrimonio edilizio, allo smascheramento della gentrificazione hipster e delle operazioni dei sofisticati “sviluppatori” che sono succeduti ai rozzi palazzinari e ai “mercanti di campagna” di una volta?

Con una mossa improvvisa e tirando fuori tutto il suo spirito irish Gainsforth, convoca qui un fratello, come ha fatto per altri membri della famiglia, e rievoca la Pasqua del 1916.

In quel giorno, malgrado non avessero ricevuto un previsto carico di armi, un gruppo di sciamannati intellettuali, difensori del declinante gaelico, attivisti teatrali e giornalisti occupò un edificio postale a Dublino, O’Connel street, con una messinscena simbolica e proclamò l’indipendenza irlandese e il suo governo provvisorio.

L’unico politico in qualche modo professionale era James Connolly, marxista, IWW, ammiratissimo da Lenin. Assediati dalle truppe britanniche con gli esordienti carri armati, decisero di resistere, malgrado la sostanziale indifferenza e perfino l’ostilità della popolazione preoccupata per la violenta reazione britannica.

Finirono tutti malissimo, una vera missione suicida, ma la ferocia della repressione finì per innestare una simpatia popolare che lentamente fece crescere e vincere quel movimento. Un lungo percorso, culminato nella promettente vittoria del Sinn Féin perfino nel residuo bastione unionista del Nord Irlanda.

«Retrospettivamente attribuiamo un carattere di inevitabilità a quell’evento e alla storia successiva. Ma se oggi fossimo presenti lì, in quel momento, probabilmente non la vedremmo così. Probabilmente quell’azione, che segna uno spartiacque nella storia irlandese, ci sembrerebbe una follia. Semplicemente, stavano ragionando su un altro piano, quello del linguaggio simbolico e metaforico. Volevano creare una nuova storia, e ci sono riusciti» (p. 284).

Sarah Gainsforth, condividendo queste storie di famiglia e di resistenza urbana ha voluto mostrare che dalla miseria si può uscire nel presente come ci si è riusciti nel passato: non solo con analisi e statistiche, ma «ribellandoci e raccontando nuove storie». Uscendo di casa.

Immagine di copertina Creative Commons