EUROPA

La Libia, tra stato d’emergenza e produzione del confine

Tregua in Libia dopo giorni di scontri: mentre il governo italiano discute del dossier immigrazione e prepara la conferenza sulla Libia, il recente passato dei rapporti italo- libici riesumano le responsabilità italiane ed europee nel tortuoso sistema di governo della frontiera mediterranea di oggi

Lo scenario libico attuale

Per comprendere lo scenario libico occorre considerarne le dinamiche sociali, economiche e politiche, su un piano, in primo luogo, locale, caratterizzato da rivalità tra città, gruppi etnici, bande criminali e milizie, a cui si accompagna la competizione costante tra antiregime ed ex regime, laici e islamici, nazionalismi e federalismi e minoranze etniche.

All’origine della crisi libica vi sono quindi frammentazione sociale e disordine politico, di cui una delle manifestazioni più evidenti è la contrapposizione tra azlām al-niẓām (ex appartenenti al regime) e ṯuwwār (rivoluzionari), rispettivamente schierati con il blocco di Tobruk e il governo di Tripoli. Le dinamiche caratteristiche di questo scontro, riguardano anche le ostilità tra le élite più laiche, sia legate al vecchio regime, sia da esso indipendenti, e le élite nate con la rivoluzione del 2011. Nelle maglie di questo intricato conflitto autoctono, compare anche la contrapposizione tra i difensori di un islam più moderato e i fautori di una maggiore ingerenza religiosa nel contesto sociale e politico.

 

Un momento determinante risale al 2011: una rivolta armata interna metteva in crisi il regime di Mu’ammar Gheddafi, che venne infine rovesciato da un’azione congiunta della NATO e della Lega Araba. Da quel momento, il potere in Libia venne decentralizzato, mantenendo però la sua natura autoritaria, e si costituirono, all’inizio del 2012, una miriade di milizie locali, integrate in diversi settori statali, con cui l’Italia scelse di negoziare soluzioni di contrasto alla migrazione, in contemporanea agli accordi con il governo centrale di Tripoli.

 

Sempre nel 2012, i gruppi armati che avevano combattuto contro il Colonnello vennero integrati nel sistema statale, prendendo i nomi di: Ministero dell’Interno, Ministero della Difesa e Guardia Costiera. Queste milizie “formalizzate” hanno mantenuto il loro modus operandi, attraverso attività di contrabbando.

Gli episodi degli ultimi giorni, hanno visto una situazione di per sé fortemente caotica e conflittuale, sfociare in scontri violenti tra milizie rivali, che hanno interessato dal 27 agosto scorso l’intersezione di Wadi Al-Rabee, a sud-est di Tripoli e poi quelle di Al-Khaila e il campo di Yarmouk a sud. Diverse sono state le voci dei media locali che hanno paventato un tentativo di far precipitare la regione in un nuovo conflitto armato. Dal Nord europeo il presidente francese Macron si è fatto sentire determinato a far rispettare l’accordo di Parigi del maggio scorso sulla Libia, con le elezioni previste a dicembre. È degli ultimi giorni la dichiarazione dello “stato d’emergenza” da parte del governo di Fayez al-Sarraj e la chiamata alla milizia di Misurata in soccorso di Tripoli. Dall’Italia, arrivano le indicazioni di non-intervento bellico e le accuse più o meno velate al “rivale” Macron da parte di Matteo Salvini, che indicano il presidente francese come responsabile del caos libico. La rappresentanza diplomatica in Libia ha affidato a un tweet la propria vicinanza “all’amato popolo libico”. Ma come è noto, l’amore spesso si fa “litigarello”. Nel caso del rapporto italo-libico, questo conflitto emozionale ha seguito la parabola del matrimonio “senza-amore”, per cui, a un certo punto, si sta insieme per abitudine, con qualche “scappatella” occasionale e negando all’inverosimile di covare anche qualche rancore pregresso.

 

Italia-Libia, a geopolitical love story

Tra le potenze del quadrante euro-mediterraneo, l’Italia è quella che ha storicamente mantenuto, nei confronti della Libia, un legame di “indispensabilità”, il quale ha determinato la mancanza di sostanziali interruzioni relazionali nel corso degli anni.

Il rapporto ambivalente tra l’Italia e l’ex colonia si sostanzia in una serie di scelte, successive alla presa del potere di Gheddafi, con il colpo di Stato del 1969 contro re Idris I, a cui seguì l’instaurazione di un’organizzazione statale fortemente centralizzata, insieme all’apertura di una serie di querelle contro l’Italia, volte a legittimare un potere sostanzialmente privo di prestigio di carattere nazionale. Al Colonnello sembrò infatti che la riscossa contro l’ex potenza coloniale italiana potesse convogliare in una direzione comune le volontà dei numerosi gruppi rivali che popolavano la Libia. L’individuazione di un nemico comune, non a caso l’Italia in quanto stato occidentale con il quale erano intercorsi intensi rapporti coloniali e geograficamente prossimo, divenne infatti la fonte di legittimazione interna del nuovo regime. Uno dei primi provvedimenti fu il decreto del 21 luglio del 1970, promulgato dal Consiglio del Comando della Rivoluzione, che decretava la confisca dei beni degli italiani residenti in Libia e che spinse gran parte della comunità (17 mila persone circa) ad abbandonare il paese. L’esproprio dei beni italiani venne messo in atto in spregio al trattato italo-libico del 1956 che, in virtù della risoluzione Onu del 15 dicembre 1950, garantiva i diritti e gli interessi delle minoranze nel paese.  L’intervento della Farnesina si mosse sulla via del negoziato, ottenendo una parziale compensazione con la salvaguardia delle concessioni fatte all’Eni durante il regno di Idris. A questo primo provvedimento ne sono seguiti altri che toccavano tanto il piano simbolico, quanto quello economico: prima venne istituita la “giornata della vendetta”, con cui veniva commemorata annualmente l’espulsione degli italiani, poi la rivendicazione dei risarcimenti per i danni arrecati dall’Italia alla Libia nel periodo coloniale. Cacciati gli italiani, vennero “accolti” gli egiziani, nelle figure di funzionari che presero in mano le redini del paese, proiettandolo così nella sfera d’influenza del Cairo (in epoca nasseriana) e ingrossando le fila del movimento panarabista.

La fase di riavvicinamento tra Italia e Libia può dirsi iniziata nel maggio del 1971 con la visita a Tripoli del ministro degli Esteri Aldo Moro e con il processo di intese stipulate nel 1972 dall’allora presidente Andreotti, che determinarono un momento significativo per una collaborazione militare e industriale.

Sopravvissuti ai fatti del 1973, caratterizzati dall’allineamento libico con l’Unione Sovietica e i paesi arabi in chiave anti-israeliana e con l’ipotetica collaborazione del paese nordafricano con il commando di Settembre Nero (organizzazione armata palestinese), l’anno successivo i rapporti italo-libici videro una nuova svolta con l’Accordo di cooperazione economica, tecnica e scientifica e con l’acquisto nel 1976 del pacchetto azionario della Fiat da parte libica.

Con la caduta dell’Unione Sovietica e la fine del bipolarismo, la Libia si apprestò ad uscire dall’isolamento stringendosi ulteriormente all’Italia, al tempo suo unico interlocutore.

 

I migranti nel gioco degli accordi

Parlare della storia dei rapporti geopolitici italo-libici corrisponde a parlare del regime italiano ed europeo di controllo delle frontiere, intessuto in una rete di rapporti diplomatici, politici e strategici di vecchia data. Il rafforzamento dei legami tra Italia e Libia è stato in passato sostenuto dai principali Paesi europei, che hanno affidato a Roma il compito di interlocutore con il paese nordafricano nell’interesse comune, sintetizzabile nei termini di contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina e di difesa del mercato energetico, per rendere lo spazio euro-mediterraneo una fortezza inespugnabile.

Dopo la caduta di Gheddafi, voluta dalla Francia in  funzione anti-Eni e anti-italiana, è stato difficile per l’Italia trovare un unico interlocutore nello scenario libico con cui avviare trattative. Nonostante tutto, le difficoltà sono state aggirate evitando di scegliere tra i pretendenti, ma stipulando accordi con il governo centrale e con altri soggetti locali.

Negli anni successivi alla legge Bossi-Fini, approvata nel 2002, era stato introdotto il criterio restrittivo del contratto di lavoro, prima della partenza dal paese d’origine, ai fini del permesso di soggiorno in Italia. Ciò si scontrava con il sistema di reclutamento delle piccole e medie imprese che difficilmente avrebbero regolarizzato lavoratori dai paesi d’origine delle migrazioni. Prima del 2008 le minacce dal versante libico si concentravano su questioni geopolitiche, in aggiunta alla dichiarazione del sostegno al terrorismo e all’importanza delle operazioni di estrazione del petrolio condotte dall’ENI in Libia; in ultimo, per il potenziale del governo libico nell’ostacolare i flussi migratori dal Nord-Africa. Un antecedente del Trattato di Bengasi è il Comunicato Congiunto del 1998, durante il primo governo Prodi, che prevedeva, tra le altre cose, la realizzazione di alcuni progetti in Libia per opera di una società a capitale misto. Con il Trattato del governo Berlusconi, conosciuto appunto come Trattato di Bengasi, l’Italia assecondò infine le volontà del Rais con una serie di concessioni economiche. Il Trattato si concludeva con un accordo di collaborazione nel campo della lotta al terrorismo e dell’immigrazione clandestina, secondo il quale veniva messo in atto un sistema di controllo delle frontiere terrestri della Libia affidato a società italiane con le dovute competenze tecnologiche. Nel quadro del Trattato con Gheddafi, l’Italia ottenne che la Libia riprendesse le barche di migranti, riportate indietro dalla Marina italiana, atto illegale secondo il diritto internazionale.

 

 

Torniamo all’oggi. Il caso prima ricordato della commistione tra Stato e milizie è rappresentato dagli ormai famigerati “lager libici”, ovvero i luoghi dove i migranti vengono rinchiusi, in linea con gli accordi di contrasto all’immigrazione clandestina, sancita con i vari governi italiani. Queste prigioni sono controllate dalle milizie, che, a loro volta si finanziano tramite il contrabbando di esseri umani. In aggiunta, i migranti che vengono portati nei centri di detenzione, vengono intercettati dalla Guardia Costiera che è, a sua volta, un organo in mano alle milizie.

Sul versante legislativo, Sarraj, capo del Consiglio presidenziale creato tramite l’Accordo politico libico del 2015, ha mantenuto intatto il quadro legislativo sull’immigrazione risalente al 2008, a seguito dell’Accordo Gheddafi-Berlusconi, che definisce reato ogni forma di migrazione.

È del 2015 la proposta del Migration Compact di Matteo Renzi e Carlo Calenda, che promuoveva investimenti nell’Africa subsahariana per bloccare i flussi all’origine. Attraverso questa partnership venivano messi a disposizione dei paesi di origine e di transito fondi per lo sviluppo ed equipaggiamento per la polizia di frontiera.

 

Con il ministro dell’Interno Marco Minniti, l’Italia aveva ricevuto il plauso dell’Europa sulla maggior parte dei suoi accordi con la Libia ed era stato attuato il sistema di controllo e gestione dei flussi migratori che aveva portato a metà estate 2017 a un crollo consistente delle partenze, poi risalito a fine settembre. Allo stesso tempo, le politiche di contrasto alle migrazioni da parte dell’Europa sono state oggetto di critica da parte delle Nazioni Unite, essendo accusate di aver contribuito al rafforzamento dei gruppi militari libici, oltre al supporto indiretto a organizzazioni criminali.

 

Un altro punto che rende l’accordo tra Italia, Unione Europea e Libia una scelta ambigua e pericolosa riguarda i 200 milioni di euro del Fondo per l’Africa. Nonostante, per mancanza di dati esaustivi, sia impossibile risalire con sicurezza a tutte le voci di spesa del fondo, alcuni investimenti sono sicuri: la priorità è stata quella di creare una fascia di contenimento, irrobustendo le politiche di governance degli spostamenti migratori attraverso alcuni interventi, come ad esempio quelli rivolti al rafforzamento della Guardia Costiera libica per le unità navali. Volendo dividere in percentuale, il 5% delle risorse è stato utilizzato per piani di cooperazione e sviluppo, mentre oltre il 60% è servito al controllo e alla gestione delle frontiere. A questo, vale la pena di aggiungere il Trust Found for Africa presentato dall’Unione europea al vertice sulle migrazioni della Valletta nel novembre 2015, alla presenza dei capi di stato e di governo dei paesi dell’Unione europea e dei principali paesi africani coinvolti nei flussi migratori. Questo dispositivo finanziario è stato il perno attorno al quale si è definita la politica di accordi bi/multilaterali dell’UE. L’obiettivo è ottenere maggior collaborazione da parte dei governi locali nel controllo dei flussi migratori attraverso il finanziamento di programmi di sviluppo (sia nei paesi di origine che di transito) e mediante il rafforzamento delle forze di polizia lungo tutti gli stati toccati dalle rotte che portano in Europa. Inoltre gli accordi bi/multilaterali di riammissione comportano un costo esorbitante sotto svariati punti di vista: diplomatico, finanziario, della cooperazione tecnica e delle politiche di sviluppo, degli ingressi preferenziali (quote di manodopera legale), e democratico, se si considera proprio il caso della Libia nel 2008, il cui effetto è stato bloccare in un paese di transito dei richiedenti asilo in cambio di infrastrutture[1].

Senza dilungarsi nella specificità delle fonti d’investimenti, qui basterà dire che il 95% delle risorse del fondo fiduciario provengono dal Fondo Europeo per lo Sviluppo (80%) e da altre voci del bilancio comunitario, tra cui la Cooperazione allo sviluppo (Devco), le politiche di vicinato (DG NEAR), e gli affari interni (DG Home). L’utilizzo di questi fondi per finanziare programmi connessi con il controllo delle frontiere ha ricevuto diverse critiche, perché associati al lungo processo di esternalizzazione delle frontiere dell’Unione europea che vede nell’accordo Ue-Turchia un precursore importante.

Tornando alla gestione dell’ex Ministro Minniti, predecessore silenzioso e meno performante del neo assunto Salvini, essa aveva tre aspetti fondamentali che hanno spianato la strada al “pugno di ferro” del leader leghista: in primo luogo l’accordo implicito con i gruppi che controllano, su terra, i centri di detenzione e la Guardia Costiera (travestiti dai “sindaci” libici); il livello marittimo, basato sulla fornitura di battelli e strumentazione moderna e efficace in aiuto al sistema navale libico; le ONG, accusate di combutta con i trafficanti a cui ha fatto seguito la definizione di un codice di condotta che rallentava le operazioni di salvataggio, già ostacolato dalle aggressioni da parte libica. A ciò va aggiunta la creazione, voluta dai due governi, di una zona Sar (Search and Rescue) dove può operare solo la Guardia Costiera libica. Chiunque venga intercettato in questo tratto di Mediterraneo viene rispedito in Libia.

 

 

La frontierizzazione del Mediterraneo e la soggettività dei migranti

La storia del rapporto italo-libico, ricorda, sotto molti aspetti, come si costituisce un confine, e soprattutto come questo particolare pezzo di mondo si inserisca nelle maglie del regime migratorio globale. Il clamore mediatico che si è affiancato agli arrivi delle ultime navi di migranti e al loro respingimento ha servito l’obiettivo di chi in Italia si dimentica che la Libia è un “porto non sicuro”, in cui tortura, persecuzione e guerra civile non sono preferibili alla possibilità di salvarsi attraversando il mare.

 

Osservando il Mediterraneo viene da chiedersi quanto la morte di un numero così vasto di persone nei “naufragi” non sia anch’esso un elemento costitutivo del sistema di controllo della mobilità umana.

 

La storia della frontiera del Mediterraneo, mostra anche, nella sua ambivalenza, un’altra faccia della medaglia. Spesso, il lessico scientifico, giornalistico o accademica, così come una larga fetta di popolazione tende a suddividere in categorie politiche o giuridiche i migranti, i quali vengono più volte intesi come un problema da gestire, divenendo così delle entità impersonali. Nella criticità del confine, i flussi di uomini e donne si sono più volte mostrati nella loro capacità di essere soggetti con una progettualità anche trasversale, volta all’autoaffermazione, mostrandosi come i primi e più importanti protagonisti della rottura della frontiera.

 

[1] Catherine Wihtold de Wenden, Le nuove migrazioni, Pàtron Editore, Bologna 2016.