PRECARIETÀ

La legge sul riposo dei medici: una conquista per tutti?

Regolamentati gli orari di lavoro per i medici. Ma basta questo per garantire i diritti dei medici specializzandi e in formazione?

Dopo circa 12 anni, anche per i medici esistono delle regole sugli orari di lavoro. Una conquista “antica”, in Europa, dove, dal 2003, esiste una legge comunitaria che regolamenta gli orari di lavoro e di riposo per tutti i lavoratori, e che, al recepimento in Italia, venne calpestata da una lunga serie di deroghe previste dalla legislazione nostrana, di fatto impedendo la reale applicazione della direttiva europea. Dal 25 novembre 2015, anche in Italia i medici sono tenuti a un massimale di 48 ore settimanali, turni massimi giornalieri di 12 ore, 11 ore di riposo tra turni, pause ogni sei di lavoro. Non sembra di raccontare niente di che: eppure, nel nostro paese, diverse sono le anime, anche all’interno del mondo stesso dei medici, che trovano difficile e fastidioso “sottostare” a queste pause forzate.

Le ragioni di tali fastidi sono diverse, e hanno origine dal fatto che il lavoro sanitario rientra a pieno titolo nel lavoro cognitivo, in cui la distinzione netta tra orario produttivo e orario di riposo è più che altro una forzatura burocratica, lì dove la fine dell’orario di lavoro e il giusto ritorno a casa non coincide con l’inizio del riposo, ma, spesso e volentieri, in una prosecuzione delle attività cliniche, di ricerca e di studio. Questa resistenza da parte della medicina ad essere disciplinata come tanti altri lavori del pubblico impiego, ha le sue basi nella particolarità della materia, ma è stata anche l’alibi per creare nuove schiavitù e solitudini lavorative, gerarchie e obbedienze. In Italia, la legge sul riposo obbligatorio veniva aggirata dal titolo di Dirigente, assegnato ai medici strutturati degli ospedali: come da legge, un dirigente non è assoggettato a un orario di lavoro, ma a dei risultati, per ottenere i quali egli può lavorare come meglio crede. Con la discriminante, però, che l’attività medica non è vincolata a dei risultati da ottenere, e l’autonomia derivante dal ruolo di dirigente non si esplica in un’autonomia finanziaria-manageriale, ma nell’autonomia del percorso diagnostico-terapeutico. Ogni medico strutturato, di fatto, è obbligato a lavorare in certi orari, con certi turni diurni e notturni, in determinati servizi. La Corte Europea ha insistentemente fatto pressione sull’Italia affinché eliminasse le deroghe che impedivano il rispetto legislativo per la classe medica.

Il ripristino di una legge giusta ha infastidito diverse figure del mondo medico, indignate perché le loro classiche organizzazioni del lavoro sono state violate. Il primo ad alzare la voce è stato il prof. Pinna, dell’ospedale Sant’Orsola Malpighi di Bologna, salito agli onori delle cronache di recente per un doppio trapianto in un giorno solo, per un totale di quasi 24 ore di lavoro consecutive, senza soste e pause. Episodi come questo, volti a salvare vite, con il nuovo regolamento sarebbero impossibili. È chiaro, come dicevamo prima, che nel mondo medico parlare di orari fissi e cartellini è un terreno scivoloso, e a volte fraintendibile. È difficilmente immaginabile un orario di lavoro preciso per chi è abituato a dover gestire emergenze, che, come è noto, non sono prevedibili o programmabili, richiedono sforzi imprevisti che vanno al di là del dovere lavorativo e appartengono piuttosto all’etica di un sapere medico. Ma imporre questi paletti serve a garantire quelle figure che non sono nelle condizioni di difendersi e che, agli ultimi piani della piramide, si trovano a farsi carico, contro la loro volontà e contro il loro stesso contratto, di un carico di lavoro sproporzionato e svilente, oppressivo e scarsamente riducibile. Per primari e professori è facile parlare di elasticità dell’orario di lavoro, o di come la categoria professionale medica sia difficilmente assoggettabile agli standard degli altri impieghi pubblici. Ma queste persone sono la vera rappresentazione del concetto di autonomia dirigenziale, potendosi permettere di decidere delle loro attività, dei loro tempi. Peccato però che rappresentino meno del 5% di tutta la classe lavorativa in questione.

Quando si parla di orari non si può non parlare della figura del medico in formazione specialistica, l’ancor più noto “specializzando”. Figura ibrida del SSN, è un medico che risponde anche legalmente del proprio operato, ma viene arruolato negli ospedali universitari attraverso borse di studio, senza regolari contratti lavorativi, rientrando quindi nella dicitura di “studente”. Quest’ultimo, suo malgrado, è assai ricercato da tutti gli ospedali di Italia, perché costituisce una forza lavoro semi-gratuita, priva della maggior parte dei diritti riservati ai colleghi strutturati, ma soprattutto deontologicamente forgiato nella massima “più tempo dedico all’ospedale più imparo”, che permette alle dirigenze sanitarie di tenere aperti interi servizi del sistema sanitario nazionale interamente sulle spalle di questi professionisti in formazione, a metà del costo che dovrebbero affrontare assumendo personale specializzato. Non è storia nuova, per nessuno – paziente o professionista che sia – che la vita manageriale dei reparti sia sostanzialmente affidata a questi giovani medici, nel mentre gli strutturati si dedicano alle arti filosofiche. Burocrazia, cartelle, database, RAD, dimissioni, lettere, report e quant’altro rientrano nelle attività normali di un reparto, ma sono appannaggio unico e tipico del medico in formazione, che, peraltro, non ne giova neanche in termini di apprendimento specialistico.

La nuova legge sul riposo obbligatorio serve a difendere proprio queste persone che, non ricoprendo ruoli dirigenziali nella catena lavorativa, si trovano nella condizione di non potere dire di no a chi gli richiede, sistematicamente, di coprire le mancanze e i vuoti prodotti da chi ha un contratto a tempo indeterminato. Stessa sorte tocca anche ai medici specializzati con contratti a tempo determinato (in aumento). Anche loro sono più economici dei colleghi strutturati, e anche loro sono destinati a sorreggere le sorti di un sistema che, dal blocco del turn-over e in clima di spending review, ha visto trasformare le proprie certezze in termini contrattuali e di diritti in carta straccia, con una pesantissima precarizzazione volta a stravolgere completamente il senso del diritto alla salute e alla sua erogazione gratuita nel nostro paese.

Non è un caso che tutte le associazioni sindacali di giovani medici stiano chiedendo lumi al ministero per approfondire maggiormente in che modo questa nuova legge si possa applicare anche al mondo dei medici in formazione specialistica. Infatti, nelle interpretazioni regionali, di fronte alle carenze di organico che, all’approvazione della delibera europea, rischiano di non far garantire la continuità assistenziale, alcune regioni hanno già risposto con l’introduzione di deroghe che escludono gli specializzandi, così come alcune tipologie di medici a contratto, dalle leggi sul riposo. Nuovamente, assistiamo all’approfondimento della divisione tra due categorie lavorative, oramai potremmo dire, generazionali: i nuovi lavoratori della Medicina, precarizzati e abituati da subito a non avere diritti, e i vecchi lavoratori, retaggio dell’epoca dei diritti lentamente in estinzione.

La legge sul riposo obbligatorio trae il suo fondamento da numerosissime evidenze scientifiche, che hanno già da tempo segnalato come gli orari non controllati siano una delle cause principali di incidenti sul lavoro, ai danni di se stessi e degli altri. Una legge giusta e dovuta, che ripristina alcuni diritti basilari che i governi italiani (Prodi e poi Berlusconi) avevano cancellato per garantire una supposta trasformazione della sanità italiana in azienda. D’altro canto, lo smantellamento del sistema sanitario nazionale, e più in generale del diritto alle cure gratuite, sta comportando la formazione sempre più diffusa di nuove figure professionali completamente alla mercé dei bisogni aziendali, lì dove il blocco del turn-over e l’inesorabile pensionamento del personale attualmente a disposizione, si sposa perfettamente con un modello di sistema sanitario sempre più contratto nei livelli minimi ed elementari di assistenza (i famosi LEA) e strutturato non tanto per rispondere ai bisogni reali di salute dei territori, ma a stringenti logiche di mercato.

È naturale dire che se una visita, un colloquio o un intervento chirurgico richiedono più tempo di quello previsto dalla rigidità di un cartellino, o se le esigenze di cura di una persona necessitano più del tuo orario ambulatoriale o di reparto, il vero medico non si sottrae alla partita. Ma se tutto ciò è vero e sacrosanto lo è altrettanto il non confondere questo spirito che dovrebbe nutrire l’arte medica dalle fondamenta, con l’insostenibile obbligo a turni massacranti, a lungo termine non garanti di una lucida e dignitosa assistenza, per via di una mancanza cronica di personale.

Il blocco del turn over (1 assunzione ogni 5 pensionamenti), i tagli lineari calati dall’alto, così come l’assenteismo di molti primari e dirigenti medici a vario livello, portano ad un impoverimento reale dell’assistenza sanitaria, non accettabile e anzi vergognoso.

Fornire di adeguato personale medico, tanto in formazione quanto già specializzato, e infermieristico gli ospedali e il territorio non svilisce né limita le peculiarità della “missione medica” (così vorremmo chiamarla), ma offre la possibilità e il diritto ad un lavoro sostenibile e tutelato nella sua efficacia e, dunque, una tutela reale del diritto alla salute per l’individuo e alla formazione per i medici stessi, in particolar modo per la figura anfibia dello specializzando, spesso vero anello debole della “catena” di assistenza e cura.

Per salvaguardare il diritto alla salute dei cittadini, quindi, non è necessario inveire contro regolamentazioni del mondo del lavoro necessarie a tutelare chi altrimenti viene impiegato soltanto come esercito di riserva da strizzare fino all’osso quasi a costo zero. È necessario riaprire il dibattito pubblico attorno al ruolo della sanità in una “repubblica democratica”, cominciando a fare luce sulle politiche di spending review che, di fatto, nascondono soltanto l’ennesima dismissione: audit pubblico sulle spese sanitarie, assunzioni proporzionate al turn-over, e partecipazione dei professionisti e dei cittadini alla riorganizzazione del sistema sanitario e del sistema formativo dei suoi lavoratori. Senza queste parole d’ordine, ottime leggi come quella dell’obbligo del riposo si trasformeranno solamente nel rafforzamento di una casta protetta (gli ‘anziani’ strutturati), contro le figure emergenti del mondo del lavoro sanitario (medici in formazione specialistica e precari), sempre di più utilizzati per ridefinire i servizi pubblici a favore di un super-sfruttamento e di un taglio lineare agli stipendi e ai diritti. Ancora una volta, il tutti contro tutti.

Il confine tra la vera libera espressione della propria passione medica, oltre la rigidità impiegatizia, e la giungla dei diritti e delle tutele viene confuso sempre di più da chi ha interesse a trasformare il bene salute in un prodotto aziendale, possibile vittima di retoriche inutili come quella dell’austerità. È importante che, anche nel mondo degli strutturati, si faccia largo una concezione lucida sullo stato attuale del SSN e che finalmente si crei quell’alleanza necessaria tra professionisti della salute (medici, infermieri, operatori sanitari) volta a ricostruire il diritto alla salute in un paese che, in nome della finanza, lo sta smantellando.

*Medici in formazione specialistica negli ospedali San Gerardo di Monza e Umberto I di Roma