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ITALIA

Nei meandri della democrazia rappresentativa: la legge elettorale

Andiamo a votare con il Rosatellum, la quarta legge elettorale della Seconda Repubblica, un sistema misto con liste bloccate, candidature plurime, soglie di sbarramento. Come ci siamo arrivati? Una breve storia delle leggi elettorali italiane, di come sono cambiate e delle riforme mancate

La legge elettorale traduce il numero dei voti in seggi parlamentari. I sistemi elettorali possono essere divisi in tre grandi tipi: sistemi elettorali maggioritari a un turno unico con collegi uninominali, vince chi ottiene la maggioranza relativa dei voti, come nel Regno Unito. Sistemi maggioritari a doppio turno in collegi uninominali, vince chi prende al primo turno la maggioranza dei voti degli aventi diritto, e al secondo turno la maggioranza relativa, come in Francia. I sistemi di rappresentanza proporzionale con collegi plurinominali, cioè ogni seggio elegge più di un candidato, proporzionalmente ai voti ottenute dalle varie liste. I sistemi maggioritari vengono ritenuti più stabili ma poco rappresentativi, perché è difficile per i piccoli partiti essere eletti, e molti voti vengono dispersi, rischiando di avere governi poco rappresentativi. Vale il contrario per i sistemi proporzionali, più rappresentativi ma che rischiano di creare maggioranze poco stabili.

Nella nostra democrazia parlamentare è il Parlamento che vota la fiducia al governo, questo solitamente avviene subito dopo le elezioni politiche. Ma può accadere anche dopo crisi di governo, come è successo nel corso di questa legislatura, dove abbiamo avuto tre governi con tre maggioranze parlamentari molto differenti tra loro (Conte I; Conte II; Draghi). Da decenni nel nostro paese si discute di come questi “giochi parlamentari”, o meglio partitici, per formare il governo debbano essere ridotti, resi più trasparenti o eliminati.

Dalla Prima alla Seconda repubblica: il Matarellum

Questo dibattito inizia alla fine degli anni ’80, quando il sistema politico della prima Repubblica, bloccato e consociativo, conclusi due decenni di contestazioni, si era completamente appollaiato su stesso in un gioco di scambi di seggi, tangenti e appalti. Con il crollo del muro di Berlino, e lo sgretolamento del mondo diviso in due blocchi, questo sistema inizia a vacillare preso a mattonate dall’inchiesta di Mani Pulite.

Esplode, così, la necessità di trasformare il sistema politico italiano da un parlamentarismo basato sul bicameralismo perfetto, dove le due camere hanno esattamente gli stessi poteri, a un sistema più “efficiente”,  “efficace” e “trasparente”.

Per alcuni questo significava un sistema maggioritario di tipo presidenziale, sulla base del modello americano o inglese, in cui era primario garantire la “governabilità” e la “stabilità” del Paese, parole chiave delle riforme dei decenni a venire.

Questo è lo spirito alla base dei due referendum del 1991 e del 1993 che segnarono la fine del sistema elettorale proporzionale, favorito dalla costituente, per aprire a un nuovo sistema elettorale maggioritario. Così nell’estate del 1993, il governo tecnico a guida Ciampi, approva la nuova legge elettorale denominata Mattarellum, dal nome del suo relatore, l’attuale Presidente della Repubblica.

Una legge elettorale mista: il Mattarellum prevedeva il 75% dei seggi uninominali con voto maggioritario (vince chi prende la maggioranza relativa de voti) e un 25% dei seggi plurinominali con voto proporzionale (i seggi vengono divisi ai partiti proporzionalmente in base ai voti) per garantire la rappresentanza anche ai partiti più piccoli. La nuova legge elettorale, applicata per la prima volta alle elezioni del 1994, segna l’inizio della Seconda Repubblica.

Questa trasformazione della legge elettorale sarebbe dovuta andare di pari passo con una riforma costituzionale dell’intero sistema politico, in particolare superare il bicameralismo perfetto, eppure la Commissione bicamerale guidata da D’Alema si concluse con un nulla di fatto. Questa “transizione mancata” non riuscì nemmeno con le successive riforme costituzionali: la riforma del titolo V che ha dato più poteri e autonomia alle regioni e agli enti locali del 2001 (senza però cambiare i poteri del Senato), e l’ultima riforma sul taglio dei parlamentari, che ha ridotto i numeri dei seggi di Camera e Senato. Questo perché non c’è mai stata un’idea comune su dove saremmo dovuti arrivare con questa transizione.

Il Mattarellum avrebbe dovuto contribuire all’emersione di un sistema bipolare dell’alternanza, dove erano i cittadini a scegliere la maggioranza parlamentare che avrebbe espresso il governo. Nel 1994, infatti, è la prima volta che il candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri viene indicato sulla scheda elettorale.

Questo segna anche l’inizio della sempre maggiore importanza del Governo sul Parlamento, e del Premier all’interno del governo (è questo il momento in cui iniziamo a usare la parola Premier di stampo inglese e non più solo Presidente del Consiglio dei Ministri).

In ogni caso, neanche il Mattarellum riesce a dare al paese la “stabilità” così tanto agognata, dato che ogni legislatura conta almeno due governi (nella XXII legislatura: il governo Berlusconi e Dini; nella XXIII legislatura: il governo Prodi, D’Alema, D’Alema II e Amato II; nella XIV legislatura il governo Berlusconi II e Berlusconi III). Si tentano, nel frattempo, ben quattro referendum per eliminare la restante quota proporzionale del Mattarellum, senza successo.

Il Consiglio dei Ministri

La crisi della democrazia rappresentativa: dal Porcellum

Nel 2005, il governo Berlusconi, già in crisi di consensi, vota la nuova legge elettorale il cosiddetto Porcellum. Rimaneggiando tutto il discorso su stabilità e governabilità, la coalizione di centrodestra, per evitare a una totale débâcle alle successive elezioni, torna a un sistema proporzionale con seggi plurinominali, ma con una “correzione maggioritaria” cioè un premio di maggioranza consistente alla coalizione vincente, che però non era uguale tra le due camere. Ne risultarono governi con maggioranze molto risicate al Sentato (il governo Prodi del 2006, e il governo Bersani del 2013 che non prese mai forma per lo stesso problema).

È qui che ritroviamo i tratti dell’attuale legge elettorale: le liste bloccate di candidati da votare in blocco senza preferenze e le pluricandidature, cioè la possibilità per i candidati di presentarsi in più collegi.

Dopo tre elezioni nazionali, e tre legislature traballanti, la Corte Costituzionale ha annullato il premio di maggioranza previsto nel Porcellum e reintrodotto la possibilità di esprimere un voto di preferenza. Dopo la sentenza, si passa più di anno a discutere dell’Italicum proposta da Renzi, un sistema proporzionale con premio di maggioranza, soglie di sbarramento, circoscrizioni provinciali e doppio turno, che verrà anche esso dichiarato in parte illegittimo dalla Corte Costituzionale, mentre la riforma costituzionale ad esso collegata non passerà il vaglio referendario, portando alle dimissioni del governo. Non si voterà mai con l’Italicum.

Così il successivo governo Gentiloni, terzo governo della XVII legislatura, dopo due sentenze della Corte Costituzionale, si trova a scrivere una nuova legge elettorale, che dovrebbe seguire i «principi costituzionali della necessaria rappresentatività della Camera dei deputati e dell’eguaglianza del voto, da un lato, con gli obbiettivi, pure di rilievo costituzionale, della stabilità del governo del Paese e della rapidità del processo decisionale, dall’altro», come scrive la Corte nella sentenza del 2017.

…per arrivare al Rosatellum

Il Rosatellum è, quindi, votato a larga maggioranza dal Parlamento. La nuova legge prevede un sistema misto, ma ribalta le quote del Mattarelum, i 5/8 dei seggi sono plurinominali e assegnati su base proporzionale, con liste bloccate e la possibilità di candidarsi su più seggi, come prevedeva il Porcellum. Esiste una soglia di sbarramento, cioè per accedere alla ripartizione dei voti le coalizioni devono raggiungere almeno il 10%, le singole liste almeno il 3%. La ripartizione dei seggi per la Camera è su base nazionale, mentre al Senato è su base regionale. Il restante dei seggi è assegnato su base uninominale, cioè vince il candidato che prende il maggior numero dei voti nella circoscrizione (146 alla Camera su 400, e 67 al Senato su 200).

Facciamo un esempio: il Lazio è diviso in due circoscrizioni, nella circoscrizione Lazio 1 (comune di Roma e 84 comuni della città metropolitana) sono assegnati 24 seggi, di cui 9 uninominali e il restante plurinominali. I 9 collegi uninominali sono ripartiti nella circoscrizione in base alla popolazione, affinché all’incirca ogni 400.000 abitanti si elegga un parlamentare. E sono stati costituiti 3 collegi plurinominali per i restanti 15 seggi, in ogni collegio, composto all’incirca da 1.100.000 abitanti, sono attribuiti 5 seggi. Quindi, chi è residente al municipio V voterà insieme al municipio VI il candidato uninominale (il primo candidato in lista), ma per i collegi plurinominali voterà anche con i Municipi I, II, III e IV (la restante parte della lista). Qui sono visionabili tutti i candidati divisi per circoscrizioni e collegi uninominali e plurinominali.

Le liste sono bloccate, non si possono esprimere preferenze, e nonostante sia un sistema misto non si può esprimere un voto disgiunto. Inoltre, essendo diminuito il numero dei parlamentari, le circoscrizioni elettorali si sono allargate, allontanando i parlamentari dai propri territori.

Ancor di più grazie alle scelte effettuate dai partiti di candidare nei “seggi sicuri” uninominali coloro che devono arrivare in Parlamento, molte volte senza alcun riferimento con le circoscrizioni che li voteranno.

Dal 1993 abbiamo cambiato quattro leggi elettorali, nell’ultima legislatura ci siamo affrettati a ridurre il numero dei parlamentari, eppure i regolamenti parlamentari sono gli stessi dal 1971, e il Senato non è mai stato riformato nonostante una discussione che va avanti dagli anni ’90.

A ben guardare, il sistema politico, e la sua legge elettorale, esprime al meglio questo Paese: un paese bloccato e indeciso su quale direzione prendere. Purtroppo, però, si paventa la peggiori delle ipotesi: un governo di (estrema) destra che rischia di avere i numeri per cambiare la Costituzione. In peggio.

Foto di copertina di Marco Oriolesi via Unsplash