PRECARIETÀ

La hostess che ha piegato Ryanair

Alessandra Cocca – ex-hostess di stanza a Oslo, licenziata nel 2012 dopo appena dieci mesi di lavoro – ha fatto causa alla compagnia irlandese. Questa, pur di non riconoscere il diritto del lavoro norvegese, ha chiuso la base di Rygge e tagliato i voli verso il Paese scandinavo. Invece di andare a processo e rispondere delle condizioni di impiego dei suoi dipendenti, Ryan ha preferito pagare ad Alessandra tre anni di stipendio. Ma la sua causa è solo la prima di quella che potrebbe diventare una lunga serie

Perché sei stata licenziata?

Ho avuto un problema di comunicazione con la responsabile dei cabin crew durante un volo. Lei mi ha fatto rapporto. Da allora, sono iniziate diverse forme di pressione. Ad esempio, una volta ho chiesto di non volare, perché avevo naso e orecchie tappate. Anche il comandante dell’aereo era d’accordo con me, sapendo che avrei messo a rischio i miei timpani. Il crew control, invece, mi ha detto che se non fossi salita sull’aereo mi sarebbe stata contata un’assenza ingiustificata. Dopo circa due mesi sono stata licenziata. Lavoravo per Ryan da meno di un anno, avevo da poco finito di pagare il corso per diventare hostess, che mi era costato 3.500 euro. Secondo me, volevano ripulire un po’ il personale, per fare spazio a chi aveva appena concluso la formazione. Questo riciclo per loro costituisce un verso business.

Hai definito la compagnia “schiavista”, in che senso?

Lavoravo fino a 12 ore al giorno, ma alla fine del mese avevo difficoltà a fare la spesa. Diritti garantiti da altre compagnie per noi non valevano. L’home standby, cioè i giorni in cui devi garantire la reperibilità da casa, non viene retribuito. Lo stanby in aeroporto veniva pagato 30 euro lorde, per otto ore in cui ti facevano svolgere attività di segreteria. Inoltre, il corso di formazione è carissimo. Devi pagarti la divisa. Se ti ammali e non puoi volare, rimani senza un soldo. Stessa cosa, almeno quando ero in servizio io, per gli infortuni. Infine, subivamo una pressione incredibile per le vendite a bordo, ma poi i conti non tornavano mai e ricevevamo sempre meno del dovuto. A volte, mi sembrava una situazione lavorativa ottocentesca: senza sindacati e con il lavoro a cottimo. Confrontando le spese necessarie per prendere servizio con quanto ho guadagnato prima del licenziamento, possiamo dire che ho quasi pagato per lavorare.

Perché hai fatto vertenza?

Perché il mio licenziamento era ingiustificato e per le condizioni di lavoro. È stata una causa pilota, il cui obiettivo principale era far valere il diritto del lavoro norvegese dentro Ryan. Questa compagnia, infatti, non rispetta i contratti collettivi nazionali dei Paesi in cui opera, ma pretende una sorta di extraterritorialità in base al fatto che eroga contratti irlandesi. I legali della difesa pretendevano che il processo si svolgesse a Dublino. Il giudice, invece, ha stabilito che la competenza era di Oslo. Poche settimane fa, Ryanair mi ha pagato 64mila euro, il corrispettivo di tre anni di stipendio. Ha preferito pagare il risarcimento, pur di non andare al processo. La cosa più significativa, comunque, è che dopo l’inizio della causa ha cancellato i voli verso il Paese scandinavo. Quando il giudice ha riconosciuto la competenza territoriale e giurisdizionale norvegese, Ryan sarebbe stata costretta a rispettare il diritto del lavoro locale. Pur di non farlo, ha tagliato le linee.

La tua battaglia finisce con questo risarcimento?

No. Dopo la mia causa pilota, ne sono partite altre. In diversi Paesi. Ad esempio, in Danimarca è in corso un procedimento che ambisce a stabilire la competenza territoriale di Copenaghen. Anche l’Avvocatura della Corte di giustizia europea ha emesso un parere che riprende le motivazioni dei giudici norvegesi. Io voglio battermi perché questa compagnia riconosca i sindacati, paghi le tasse in Italia e si adegui ai contratti di categoria. Non dimentichiamo che, attraverso accordi con le regioni, Ryanair riceve milioni di euro di fondi pubblici. Molto più di Alitalia. Perché non dovrebbe rispettare i diritti che il nostro Paese riconosce ai lavoratori?

 

* Articolo pubblicato su Il Manifesto