MONDO

La fuga ininterrotta

Uno sguardo sulla storia dell’Afghanistan, a partire dall’irruzione dell’esercito talebano a Kabul, che ha instaurato una dittatura e provocato una fuga di massa della popolazione. Sono passati quasi due anni, e rileggendo la storia sembra che questa terra viva una fuga ininterrotta provocata dallo sfruttamento che ciclicamente viene portato avanti dalle diverse potenze del momento

È l’alba del 15 agosto 2021. Secondo quanto riferisce il “Guardian”, alcuni testimoni oculari riportano diverse sparatorie nelle zone attorno a Kabul. Poi, verso le otto, un ospedale scrive su Twitter che «più di 40 persone sono rimaste ferite in scontri a fuoco nella periferia e sono state ricoverate per cure».

In meno di 24 ore da questo momento, l’esercito talebano entra in città riconquistando la capitale. Il presidente Ashraf Ghani lascia il paese, il governo dell’economista di etnia pashtun non avrà un altro mandato. Per i talebani invece, il risultato è opposto. E significa non solo che la guerra durata vent’anni contro l’ISAF – the International Security Assistance Force – è finita, ma che tutto l’Afghanistan sta per tornare un Emirato islamico, ovvero un totalitarismo religioso di stampo ultraconservatore.

La prima dichiarazione di uno dei leader talebani di quel 15 agosto non è una celebrazione militare, ma un messaggio che intende spiegare le modalità con le quali hanno preso il potere.

Il contenuto del messaggio infatti, parla delle sparatorie nei dintorni della città e sembrerebbe una normale comunicazione interna. Tuttavia, quello che si legge è un messaggio rivolto al mondo intero: non il governo repubblicano ma loro, i talebani, hanno ripristinato l’ordine, ordinando ai propri combattenti «di entrare a Kabul nelle zone abbandonate dai funzionari afghani e dalla polizia, dove maggiore è il rischio di furti e rapine». O perlomeno questo è quanto si legge in una dichiarazione pubblicata quel pomeriggio ancora su Twitter dal portavoce degli insorti, Zabihullah Mujahid.

Il significato implicito che Mujahid vuole trasmettere con quel primo messaggio, non è affatto banale e rivela una cosa senz’altro vera: i talebani non hanno bisogno di combattere. Il motivo è che stanno semplicemente riempiendo il vuoto lasciato da qualcun altro.

La guerra dell’ISAF infatti, passata attraverso un conflitto sanguinoso durato vent’anni, è finita. Il progetto di nation-building americano è definitivamente crollato. Ora l’iniziativa politica è loro, degli eredi dei mujaheddin che prendono Kabul senza sparare un colpo o quasi, risalendo al potere.

Tuttavia, c’è anche un’altra cosa che è senz’altro vera. Ed è che il paese di cui hanno appena preso il controllo, è in fuga.

In quei giorni infatti, secondo l’UNHCR, che a sua volta riporta una stima del governo iraniano, gli afgani che si sposteranno verso il paese di Teheran, saranno circa 500 mila (andandosi ad aggiungere ai 3 milioni già presenti sul territorio). Stessa cosa per il Pakistan, con numeri praticamente identici sia per l’arrivo che per la precedente presenza sul territorio.

Potrebbero apparire solo come numeri, tuttavia quelle che mostrano sono le dimensioni e le conseguenze di una vera e propria fuga di massa. Tanto che, secondo un aggiornamento del 17 febbraio 2022, i rifugiati afgani presenti in Iran, Pakistan, Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, avrebbero raggiunto in totale quota 2 milioni e 200 mila persone. Senza contare gli afgani e le afgane che durante questi vent’anni di guerra, avevano già definitivamente lasciato il paese: circa 5 milioni.

In questo senso, l’Afghanistan che i talebani intendono governare non è solo “in fuga”, ma anche un paese estremamente complicato, con enormi differenze al suo interno a partire proprio dall’identità culturale delle svariate popolazioni che lo abitano. Ahmad Massud, il figlio del famoso Leone del Panshir e comandante dell’Allenza del Nord, fa parte di una delle più famose, i tagik, anche si può definire in modo più corretto un panshiro.

Come loro guida politica, ma anche militare, Massud è impegnato fin da subito a difendere la valle del Panshir dalle milizie talebane. In un conflitto che, nelle sue stesse parole l’indomani della caduta di Kabul, si fa un aperto incitamento alla guerriglia anti-talebana: «Ovunque voi siate, dentro o fuori, vi invito a iniziare un’insurrezione nazionale per la dignità, la libertà e la prosperità del nostro Paese».

E Massud non è l’unico, poiché dall’inizio della guerra sono cambiate molte cose. Innanzitutto per i talebani, che adesso al loro interno conoscono correnti, divergenze, spaccature. Soprattutto tra i vecchi e nuovi capi, vecchie e nuove leve della jihad contemporanea.

«Non sono più gli stessi taliban di Bin Laden», scrive a questo proposito Alessandro Ceci nell’introduzione di Afghanistan. Cosa sta succedendo,  e anche Al-Qaida è cambiata molto dopo l’ISIS, prendendo dimensioni globali e modificando profondamente il suo modus operandi. Tanto che, conclude Ceci: «se per i vecchi taliban lo Stato era l’obiettivo, per i nuovi taliban lo Stato è lo strumento»(AAVV, Afghanistan, cit. , Luca Sossella Editore 2021, p. 15.). Frase che se non altro, fa capire bene il profondo mutamento avvenuto nelle file di chi adesso sta combattendo non solo per l’Afghanistan, ma per l’islamizzazione del mondo intero.

Da questo punto di vista, l’islam per i talebani è un conduttore molto potente, vero. Tuttavia come dimostra Massud, anche l’assetto culturale e sociale afgano ha il suo peso, presentando una popolazione già ampiamente frammentata al suo interno, in numerose etnie di diversa provenienza e cultura. A questo proposito, su circa 38 milioni di abitanti (dati raccolti prima dell’agosto 2021) in Afghanistan di queste etnie se ne potrebbero contare all’incirca 30, ognuna con una propria lingua o dialetto. Anche se sono due quelle considerate ufficiali e prevalenti, entrambe appartenenti al ceppo indoeuropeo: ovvero il dari e il pashtu (Elisa Giunchi, Afghanistan. Da una confederazione tribale alle crisi contemporanee, Carocci 2021). Di cui tra l’altro, esistono diverse versioni riconosciute, come ad esempio il baluci, il pamir e l’urmuri. Tutte lingue di origine iranica, parlate sia dentro che fuori Kabul. Altro segno della complessità della società afgana, poiché sarebbe l’etnia di appartenenza a definire la lingua parlata, non tanto il luogo di residenza.

Premesso questo assetto sociale – a cui Elisa Giunghi nel suo Afghanistan fa coincidere un sistema politico che chiama “confederalismo tribale” – la maggior parte delle persone che scappano dall’oppressione talebana appartengono proprio a queste minoranze, come ad esempio quella hazara (9%), quella nuristana (2%), oppure quella uzbeka (8%). Anche se rimane vero che chi deve fuggire è soprattutto chi ha collaborato a vario titolo con l’ISAF, e rispetto a questo, l’etnia d’appartenenza è tutto sommato indifferente. In questo senso, si può essere anche pashtu – che per intenderci, è l’etnia dalla quale provengono in larga parte i talebani – ed essere comunque ricercati per aver collaborato con gli occidentali.

Tra queste persone in fuga dalle persecuzioni ci sono lavoratori della logistica, autisti e magazzinieri che hanno prestato servizio negli interporti e negli snodi commerciali, ma non solo. Interpreti, personale sanitario, impiegati.

Un’intera fetta della classe lavoratrice afgana, che prima dell’agosto 2021 prestava servizio presso attività controllate dagli occidentali, ora si trova obbligata a scappare. L’accusa è di aver tradito non solo il proprio paese, ma soprattutto l’islam. E questo, nel nuovo Afghanistan che sorgerà l’indomani, può essere punito anche con la morte.

Per evitare questo epilogo, gli accordi tra i paesi occidentali e questi lavoratori, dall’aprile-maggio del 2021 parlano di “evacuazione organizzata”. Tuttavia quella che si verifica in agosto è una fuga disordinata e confusa. Destinata a rimanere impressa per sempre nella memoria attraverso le immagini di persone ammassate all’aeroporto, mentre gli aerei militari vengono presi d’assalto, con le piste di decollo letteralmente invase da persone in cerca di un passaggio verso la salvezza.

Rivedendo quelle immagini inequivocabili, che ben presto fanno il giro nei telegiornali di mezzo mondo, la prima cosa che si capisce chiaramente è che l’Afghanistan sta venendo abbandonato. E la verità è che viene lasciato al suo collasso senza aiuti, mentre si sfaldano definitivamente gli accordi che l’ISAF e la Nato avevano fatto in precedenza, non solo con queste persone, ma con tutto il paese.

Ad esempio, con gli stessi accordi di Doha, stipulati dagli USA senza l’assenso (come neanche la presenza fisica al tavolo delle trattative) del governo afgano, vero e proprio emblema di questo abbandono. Chi lo ammette senza grossi problemi è lo stesso Tony Blair, ex primo ministro inglese e assoluto protagonista ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan, che il giorno dopo la caduta di Kabul dirà: «Abbandonare l’Afghanistan e il suo popolo è un atto tragico, pericoloso, non necessario, che non corrisponde ai nostri interessi né a quelli del Paese e della sua gente».

L’Italia in tutto questo, non è diversa. E dal conflitto afgano si sfila con ben due operazioni militari d’evacuazione, chiamate “Aquila 1 e 2”, dove riesce a far uscire dal paese meno di 4 mila persone. Per l’esattezza: 3 mila e 744 . Paragonata ad altri paesi, una cifra microscopica.

Lo fa attraverso mail e messaggi SMS che recapita direttamente alle famiglie segnalate come “a rischio”, nei quali scrive di farsi riconoscere alle autorità militari ISAF non appena raggiunto l’aeroporto. Manco a dirlo, in quel momento cosa molto difficile da fare se non quasi impossibile.

Nei piani d’evacuazione da Kabul, per arrivare in aeroporto le persone con le loro famiglie dovrebbero quindi riuscire ad aprirsi un varco nella calca, buttarsi contro i cancelli e lì attendere di essere riconosciuti. Perché ormai è rimasta questa l’unica modalità per lasciare il paese “in sicurezza”. Ovviamente se negli ultimi trent’anni, di vera e propria “sicurezza” si è mai potuto parlare.

A questo proposito, atterrando proprio in quell’aeroporto per la prima volta nel 1991, Gino Strada scrive: «Dall’alto [Kabul] non sembrava una città in guerra, senonché a un certo punto, improvvisamente, il pilota si lanciò in un atterraggio a vite e il cuore mi balzò in gola. Mi spiegarono poi che era una misura per evitare di diventare l’obiettivo dello Stinger di qualche mujaheddin appostato sulle montagne in attesa del bersaglio. Welcome to Kabul» (Gino Strada, Una persona alla volta, Feltrinelli 2022).

Come si può capire dalle parole del chirurgo italiano fondatore di Emergency, la fuga dall’Afghanistan è una fuga ininterrotta.

Una diaspora che non sembra conoscere fine. Da una parte, sicuramente influenzata dal redivivo colonialismo occidentale, interessato a mantenere se non proprio il “controllo” dell’area, perlomeno un comodo pied-à-terre. Dall’altra, dagli evidenti interessi dei paesi vicini e confinanti, molto più forti e stabili politicamente. Tra cui l’Uzbekistan, il Tagikistan, l’Iran, il Pakistan ma soprattutto la Russia e la Cina, che anche se per soli 40 chilometri, spartisce comunque un segmento dei suoi confini con i territori sotto Kabul. E questo, sicuramente gioca un ruolo determinante.

Come prima cosa, nella corsa alla spartizione delle risorse naturali ed economiche di un paese tutt’altro che povero. Anzi, al contrario abbondantemente rifornito di materie prime di un valore ancora non del tutto quantificabile. Soprattutto minerali preziosi e “terre rare”.

Altro che il classico luogo comune sulla coltivazione del Papaver somniferum – il papavero da oppio – come unico motore per l’economia afgana; al contrario, la grande ricchezza del paese risiederebbe proprio nel suo sottosuolo.

A questo proposito, e nello specifico parlando di quest’abbondanza di materie prime, sempre su Afghanistan. Cosa sta succedendo, Riccardo Valenza arriva a sintetizzare il concetto in Pechino chiama. Kabul risponde” (ivi, p. 91). Mentre il Sole 24 Ore invece titola: «I giacimenti di rame, zinco, litio e bauxite in Afghanistan valgono mille miliardi e Pechino è pronta a trattare con i talebani».

A dire il vero, che l’Afghanistan avesse quest’importanza non solo geopolitica, ma di natura economica e produttiva, l’aveva capito per primo addirittura l’Impero Britannico, che volendo espandere il suo dominio in Asia, per la prima volta nel 1839 invase il paese, conquistandone la capitale.

Lo fece grazie all’intervento degli uomini del 44th East Essex Regiment, soldati coloniali esperti provenienti dall’India britannica, che invasero l’Afghanistan e si stabilirono a Kabul per tre anni, fino al 1842. Data che risulta fondamentale per l’Afghanistan, soprattutto perché segna l’inizio della rivolta dei fedelissimi del padishah, Shah Shuja Durrani, sovrano di etnia pashtun.

I fedelissimi di costui, prima si ribellarono ai soldati inglesi, dichiarandosi liberi dai domini dell’India britannica, poi si organizzarono, arrivando addirittura a formare un piccolo esercito, il quale arrivò a scontrarsi più volte con i fucilieri inglesi del 44th Regiment fino ad annientarli completamente nella Battaglia di Gandamak.

In Inghilterra, l’esito della battaglia e il racconto del massacro del 44th Regiment fu un vero e proprio shock. La Londra arricchita da quelle rotte commerciali conquistate con tanta fatica, era in subbuglio: un intero reggimento era stato completamente distrutto in un posto sperduto dell’Asia centro-meridionale. Tanto che al pittore inglese William Barnes Wollen venne l’idea di raffigurare la battaglia. E lo fece creando un’immagine che intendeva innanzitutto fissare per sempre nella memoria l’estremo atto di eroismo di un gruppo di superstiti. Uomini stremati e soldati feriti, ormai consapevoli della loro morte. Neanche più in formazione da battaglia a dire il vero, ma quando tutto è perduto, nientemeno difensori del drappo di Sua Maestà.

E i fedelissimi del padishah? Ovviamente il “cattivo ribelle” afgano, nel dipinto di Wollen non c’è. E se c’è, è solo per fare da vago contorno alla celebrazione dell’evidente coraggio inglese.

Se non altro, questi “barbari assalitori” resi riconoscibili dal pennello propagandistico e l’occhio colonialista di Wollen – che vale la pena ricordarlo, stanno combattendo un invasore che gli ha portato via tutto – ammontano a due. Di cui uno disarmato e l’altro a mezzo busto, anche se rigorosamente visto in lontananza. Se vi capitasse di osservare il dipinto, sareste d’accordo: sono talmente piccoli e sui lati che si fa davvero fatica a vederli.

A ogni modo, basti sapere che al contrario di quel che accade in Inghilterra, dove il quadro ha un’importanza tutto sommato limitata, la vicenda è invece abbastanza conosciuta in Afghanistan. Tanto che l’immagine ritratta da Wollen per impressionare l’aristocrazia britannica, fa ormai parte della tradizione popolare. Tra l’altro, in una storia che sarà per sempre legata al coraggio e all’eroismo del padishah e dei suoi fedelissimi guerrieri, addirittura capaci di sbaragliare i temibili fucilieri britannici. Ancora una volta, alla storia non manca l’ironia.

Ironie a parte, per gli afgani e le afgane sembra che la questione non si sia spostata di un millimetro. E dal 15 agosto del 2021, l’Afghanistan ricomincia da un altro punto di partenza. Esattamente 180 anni dopo Wollen e la Battaglia di Gandamak, per un attimo sembra che le pieghe del racconto prendano la direzione del déja-vu, ma non è semplicemente possibile. Tra il 1842 e oggi infatti, sono passate tante altre guerre, devastazioni, inondazioni, terremoti…

L’ultimo di questi – magnitudo di 5°9 – la notte tra il 21 e il 22 giugno del 2022 ha colpito le regioni sud-est del paese, provocando circa 1000 morti e più di 3000 feriti. Le regioni più colpite sono state quelle di Barmal, Gayan e Sphera. Un vero disastro nel disastro.

Senza perdere tempo (e ancora una volta), Emergency è entrata in azione prestando soccorso immediato alle persone colpite dalla catastrofe, stavolta di origine sismica. Di queste ne ha curate 4 mila e 500, «offrendo risposta all’emergenza ma anche a bisogni preesistenti al terremoto». In una sovrapposizione di problemi strutturali e gravi mancanze politiche ben visibili da chiunque, non solo da chi ci vive dentro tutti i giorni.

In questo senso, quello che scrive Emergency sui suoi canali on line, non potrebbe essere più chiaro. E di fronte all’Afghanistan – dove l’associazione umanitaria opera da ben prima dell’inizio del conflitto iniziato nel 2001 – pone l’accento sul fatto che o si risolvono questi problemi strutturali, oppure il destino di questa zona del mondo resterà quello di essere completamente destabilizzata, con pochissime possibilità da offrire alla popolazione che ci abita.

Anche se nei confronti di una buona parte di afgani e afgane, sarebbe più corretto dire che ci abitava un tempo, ben prima che Emergency venisse fondata a Milano nel 1994.

Quasi trent’anni fa, molto tempo dopo l’inizio della fuga ininterrotta dall’Afghanistan.

Immagine di copertina da Wikipedia