MONDO

La Cina è vicina. Soprattutto ai tempi del Coronavirus

Intervista a Simone Pieranni, caporedattore esteri del manifesto. In queste settimane sta scrivendo dell’emergenza sanitaria e dei suoi effetti politici nel più grande paese d’Oriente: «Ciò che accade a Pechino riguarda da vicino la vita in Occidente».

Come vedono dalla Cina ciò che sta accadendo in questi giorni in Italia?

All’inizio c’era molta delusione rispetto al nostro paese, che è stato il primo a chiudere i voli. Adesso oltre a inviare i messaggi di solidarietà, i cinesi stanno facendo ben poco. Quasi a dire che ora la palla è passata da questa parte e sta a noi affrontare il problema. E che dopo aver bloccato tutto adesso possiamo capire cosa significa. Comunque in generale mi pare che i cinesi siano più concentrati rispetto a quello che accade lì all’interno che all’estero e quindi anche in Italia.

Come funziona il sistema sanitario cinese?

Ha attraversato varie fasi. Nell’epoca maoista, in cui c’erano i famosi medici scalzi, era garantita a tutte le persone una sanità che ovviamente era povera, visto che povero era ancora il paese. Quella fase ha contribuito moltissimo ad aumentare già all’epoca le aspettative di vita. Poi con le riforme è stato smantellato tutto, perché sono state eliminate le comuni e anche moltissime aziende di stato. Quindi è crollato anche quel sistema statale che garantiva una sorta di universalismo della sanità. È diventato un sistema che potremmo definire quasi tipico dei paesi occidentali più avanzati, dei sistemi ultra-liberisti. Successivamente, soprattutto nel decennio di Hu Jintao e Wen Jabao, è stata fatta una nuova riforma che ha dato forma al sistema attuale, di tipo misto: c’è sia quello statale sia le assicurazioni private. Il sistema sanitario pubblico, garantito per tutti, raggiunge ormai la maggior parte della popolazione, il 90% dei cinesi, ma non copre tutti costi (in media il 30-40%). Quindi ancora oggi ci sono situazioni in cui i costi di prestazioni mediche sono molto alti e soprattutto per le fasce più povere c’è il rischio di morire perché non si riesce a pagare un’operazione o delle analisi particolarmente costosi. Dipende anche molto dai tipi di lavoro. Chi lavora ancora in aziende di stato è garantito. Mentre le fasce di lavoratori migranti no, perché loro hanno l’assistenza nel luogo di origine. Quindi se uno va da Xi’an a Pechino non ha assistenza. Insomma c’è stata una riorganizzazione per cui il sistema è migliorato rispetto agli anni delle riforme, ma non è ancora universalistico.

Xi Jinping ha costruito la sua carriera usando accortamente tutte le occasioni per eliminare

i suoi avversari e concentrare il potere (vedi il caso Bo Xilai e le popolari campagne contro

la corruzione). L’epidemia di Coronavirus potrebbe essere una di tali occasioni oppure un

momento di indebolimento?

Xi Jinping come prima cosa ha praticamente cambiato tutti i vertici del passato, sia nella regione del Wubei che a Wuhan e ha messo i suoi uomini. Alcune delle persone sostituite appartenevano alla Lega della Gioventù Comunista che è la fazione del partito del vecchio presidente Hu Jintao e dell’attuale premier Li Keqiang. Una fazione che Xi Jinping ha sterminato, tagliandole letteralmente le gambe. L’animale politico di Xi Jinping approfitterà anche di questa situazione per inserire i suoi uomini. Più che per eliminare avversari o potenziare il suo già ampio potere, probabilmente per difendersi da possibili problemi. Mettendo i suoi ha la certezza di persone fidate e fedeli. Diciamo che è un modo come un altro per difendersi perché questa situazione si somma ad altri problemi, tra cui i dazi Usa, la crisi di Hong Kong e il voto di Taiwan (apertamente anti-cinese). Questo del Coronavirus tutto sommato è un momento in cui potrebbe entrare più in difficoltà, sebbene mi pare che la situazione di massima emergenza sia rientrata. C’è stato un po’ di panico, probabilmente anche tra i vertici del partito comunista, quando è morto il dottore Li Wen Liang perché sui social si è scatenata una campagna di critica fortissima al governo centrale e locale. Adesso pare tutto rientrato. Quindi al momento non vedo grandi problemi per Xi Jinping. Poi naturalmente il partito comunista ha tutti i suoi misteri. Per dire i Xinjiang Papers arrivati al New York Times sarebbero stati inviati da un funzionario del partito comunista. Questo potrebbe significare che c’è una piccola opposizione a Xi Jinping, ma non sembra avere granché respiro.

L’iniziale sviluppo incontrollato dell’epidemia ha mostrato una certa difficoltà di rapporti fra centro e periferia, secondo il solito modello che le autorità provinciali hanno sottovalutato i primi segnali per non mandare cattive notizie verso l’alto (temendo di essere punite, come infatti poi è avvenuto). Non è una battuta d’arresto, insieme alla scarsa trasparenza, per l’ipercentralismo di Xi?

In teoria lo è, ma secondo me è riuscito a gestirlo bene anche complice la “fortuna” della passata esperienza della Sars. È vero che c’è stato questo intoppo burocratico tra centro e periferia però è vero anche che il 30 dicembre la Cina ha comunicato all’Oms l’esistenza di un ceppo di polmonite anomalo. In questo modo agli occhi dell’opinione pubblica globale la Cina si è comportata benissimo. Di recente le sono stati fatti i complimenti dalla comunità internazionale per come ha gestito il tutto. Anche perché ha subito condiviso tutti i risultati dei test, tutti gli studi che venivano fatti sul virus. Dal punto di vista interno siamo un po’ alle solite. Basta pensare alla carestia contemporanea durante il “grande balzo in avanti” quando in realtà i funzionari locali nascondevano i morti o i problemi che avevano per non creare problemi o inimicarsi il potere centrale che in quel caso era Mao. Qui è avvenuta un po’ la stessa cosa, su scala e tempi più ridotti e con meno morti. Alla fine la potenza che ha il partito comunista non solo a livello locale ma ormai anche internazionale grazie al peso economico della Cina gli consente di girare a proprio favore anche questi piccoli difetti del sistema. Poi all’esterno cerca di coprire i propri problemi, ma all’interno ci ragiona. E questo è un problema non tanto dell’ipercentralismo di Xi Jinping, ma proprio in generale del sistema politico cinese top down.

Gli effetti economici negativi sulla crescita del Pil che effetti avranno sul progetto globale della Via della Seta?

La Via della Seta era stata già portata a un livello minore di intensità, soprattutto da un punto di vista della diplomazia internazionale perché prima ancora del virus erano venuti fuori tutta una serie di problemi. Le questioni dell’indebitamento, dei paesi che non accettano tutta una serie di accordi e più in generale molte difficoltà politiche incontrate su uno scacchiere mondiale che muta molto rapidamente e a cui anche la Cina deve adattarsi. Il problema più che la Via della Seta credo sia all’interno. Se è vero che la Cina perderà lo 0,4%, o lo 0,6% o anche l’1% di Pil significa che la crescita rallenterà ancora. L’ultimo valore della crescita cinese è di 6,1%, una cifra impressionante per noi, ma anche la più bassa degli ultimi 30 anni. Considerando che il partito comunista basa la sua legittimità sulla capacità di creare benessere per una popolazione sempre più diffusa, nel momento in cui la crescita diminuisce potrebbero nascere dei problemi di natura sociale. La classe media cinese, che è abituata molto bene ormai da anni, aveva già dato segnali di scontento durante la “guerra dei dazi” perché la possibilità di consumo era diminuita. È chiaro che se anche dopo questo virus dovranno stringere ancora la cinghia il partito dovrà rivedere questo patto con la popolazione, che, semplificando, dice «voi vi potete arricchire e al resto ci pensiamo noi».

In un articolo pubblicato su il manifesto hai parlato della prima emergenza sanitaria nell’epoca dell’intelligenza artificale. Di che si tratta?

Da molto tempo ormai la Cina ha messo in campo tutta una serie di utilizzi di big data e intelligenza artificiale che hanno ormai impattato con la vita quotidiana dei cinesi. Non si usa più il contante, si fa tutto con il cellulare, con il riconoscimento facciale, c’è il cosiddetto sistema dei crediti sociali che attraverso l’incrocio di tutti i dati possibili e immaginabili che si riescono a ottenere da una persona è in grado di stabilire la sua maggiore o minore affidabilità. Su un sito cinese di difesa della privacy è uscito un testo interessante su come il Coronavirus vada a impattare su quei punteggi. In realtà questo percorso della Cina è molto simile a quello che vediamo anche in Occidente. Qui si parla di capitalismo della sorveglianza, cioè di logiche sempre più securitarie nell’utilizzo delle nuove tecnologie, in Cina potremmo definirlo non so… stato di sorveglianza o socialismo cinese di sorveglianza, ma il percorso non è diverso. Purtroppo, però, in questo campo il peso che ha la Cina rispetto allo sviluppo globale di questo è enorme. Perché lì c’è meno dialettica tra potere centrale e società civile. Quindi possono sperimentare molto di più di ciò che è possibile fare qui in Europa o negli Usa, dove il concetto di privacy è ancora centrale nella società. Così la Cina può migliorare i propri prodotti, dalle telecamere intelligenti alle app, dai sistemi che incrociano i dati alla creazione di modelli predittivi nella medicina. Prodotti che poi la Cina vende all’estero. Quindi nel momento in cui le telecamere intelligenti cinesi sono in grado di rilevare la temperatura corporea, riconoscere se un uomo è travisato o meno, trovare attraverso la faccia tutti i dati biometrici e collegarli con gli spostamenti effettuati nei periodi precedenti sarà poi un governo occidentale che dovrà decidere se usare quei dati e come usarli. È chiaro che tutto questo impatterà anche sulla vita in Occidente. Durante l’emergenza del Coronavirus questo sviluppo di intelligenza artificiale e di big data è stato messo ancora più a disposizione del controllo sociale. Nell’articolo parlo di una persona che torna nella propria città dalla casa dei familiari dove era andato per il capodanno cinese. Viene avvisato dalla polizia di non muoversi da casa perché ha visitato un posto dove c’erano dei contagi. Poi lui a un certo punto s’annoia, esce e le telecamere a riconoscimento facciale lo scovano vicino al lago di Hang Zou, una città nel sud della Cina. Non solo avvisano lui che è stato negligente ma anche il suo datore di lavoro. Questo a noi può sembrare inquietante ma pochi mesi fa Nardella ha esultato dicendo che Firenze è la città più video sorvegliata d’Italia. Non ci sono le telecamere cinesi ma il senso è lo stesso. Adesso con lo scoppio dell’epidemia anche in Italia si sta ventilando la possibilità di usare anche i big data per tracciare gli spostamenti delle persone e capire come si muovono i focolai. Tutte cose che dalle persone possono essere percepite come un miglioramento nel contrasto del Coronavirus. Il problema è che dopo l’emergenza si torna alla vita normale e quelle pratiche di controllo rimangono.