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L’America di Trump filmata da Soderbergh

In un West Virginia luminosissimo e poverissimo, due fratelli cercano il riscatto sociale con una rapina che ricalca a rovescio quella di Ocean’s Eleven. La truffa dei Logan è  uno dei film migliori di Soderbergh, un ritorno in grande stile sul grande schermo, che racconta una storia del Sud, tra country e operai. Da oggi nelle sale.

La truffa dei Logan (Logan Lucky) di Steven Soderbergh, con la sceneggiatura di una “misteriosa” Rebecca Blunt, è due cose: un film low-fi e il rovescio giocoso del pellegrinaggio depressivo di Federico Rampini su “Repubblica”, Ora e sempre The Donald. Potremmo perfino aggiungere che è il complemento post-industriale delle foto New Deal di Walker Evans.

Low-fi perché sceglie deliberatamente a oggetto una tecnologia desueta di circolazione – la posta pneumatica usata per spostare denaro in un’area ristretta –, per essere più esatti: una tecnologia che fu d’avanguardia e venne abbandonata negli anni ’50. Pura archeologia industriale. Una rapina che scassa quei sistemi è l’opposto di un’impresa di assalto informatico, l’opposto appunto di Ocean’s Eleven, sofisticato e glamorous nell’ideazione e negli interpreti.

Qui invece abbiamo, sull’onda del country, dei losers, degli sfigati, tra atleti falliti e veterani dell’Iraq mutilati – i due fratelli Logan, interpretati da un ingrassato Channing Tatum, e Adam Driver, barista abilissimo con un braccio solo, il loro giro familiare abbastanza trash, e lo strepitoso galeotto Joe Bang (niente meno che Daniel Craig), che fabbrica bombe artigianali meglio di un lupo solitario con zuccherosi orsetti di gomma e clorato di potassio.

Falliti, ignari di informatica (il complice più esperto sa solo navigare su fb), più adusi al telefono fisso che al cellulare, ma bravi con le mani (esemplare la scena primaria iniziale, quando Jimmy Logan ripara la macchina con chiavi inglesi di varia misura e cacciaviti assortiti). Il loro sarà un “colpo da campagnoli”, sono quei redneck irrisi dagli intellettuali clintoniani ma che da noi sarebbero piuttosto quei lavoratori arretrati «che mettono il gettone nello smartphone», come sghignazzò Renzi a una Leopolda. Ancor oggi, dopo la batosta elettorale, Brody su “The New Yorker” considera il film divertente (ci mancherebbe) ma poco profondo, senza le implicazioni metafisiche dei fratelli Coen. Infatti sono cose diverse, che possono essere accostate per capire gli Usa ma non vanno usati comparativamente.

Soderbergh torna al cinema dopo quattro anni di silenzio, in cui peraltro ha realizzato la splendida serie TV The Knick, dove egualmente proiettava i problemi contemporanei sulla New York dei primi anni dello scorso secolo, con operazione rétro vagamente simile a quella de La truffa dei Logan.

Non manca di menzionare questo intervallo in due occasioni: quando un corridore automobilista lamenta le difficoltà di tornare in pista dopo due anni di assenza e quando imbastisce una deliziosa (ma molto funzionale alla trama) baruffa carceraria sulle discrepanze fra romanzo e serie Tv Game of Thrones. Diremmo che il film è metanarrativo, non solo perché cita la biografia del regista, ma anche perché allude al destino del cinema, diviso tra la fruizione pubblica sul grande schermo e quella casalinga e privata dei prodotti Netflix e HBO.

 

 

I protagonisti del film sono dei tipici elettori potenziali di Trump in West Virginia: impoveriti, rozzi, disoccupati e afflitti dalle stesse magagne che il loro seduttore, Trump, vuole aggravare. Insomma, pronti a essere intervistati e compianti da Rampini. Jimmy è stato licenziato dalla miniera perché la sua zoppia viene giudicata furbescamente dall’assicurazione sanitaria aziendale condizione precedente alla stipula del contratto e ottiene il richiamo dell’antitetanica solo grazie a una gentile volontaria medica itinerante.

Un caso da manuale, insomma, tranne che per un dettaglio: Jimmy non si rassegna e si ribella a modo suo organizzando un’insolita rapina all’autodromo di Charlotte, North Carolina, in occasione di una gara NASCAR molto frequentata. I “cattivi” (gli organizzatori) recuperano la mai quantificata perdita a spese delle assicurazioni, ma i buoni “sfortunati” acchiappano poco legalmente la fortuna.

Magari non voteranno democratico alle elezioni di mid-term (perché dovrebbero, anzi perché dovrebbero votare stando così i programmi e i candidati?) ma cercheranno un riscatto con tutta l’intelligenza pratica e operaia di cui sono dotati. Rimane il dubbio che questa evasione riesca fino in fondo o che invece non si finirà per rimanere nel posto al quale si appartiene, come ci ricorda il testo di John Denver, Country Roads, cantata dalla figlia di Jimmy in una delle scene finali dedicate gli “osceni” concorsi infantili di bellezza e talento.