OPINIONI

It is the End

Incombe il coinvolgimento nella terza guerra mondiale, convenzionale o nucleare che sia, mentre già ne scontiamo gli effetti economici e istituzionali e la crisi ecologica va intensificandosi, offrendo alternative di distruzione altrettanto poco consolanti

Non è oggi, ma accadrà molto presto. Sarà la cessione di aerei d’attacco o di missili a lunga gettata. Sarà più probabilmente l’invio di personale per far funzionare in fretta i sistemi offensivi o semplicemente il rimpiazzo di truppe, che ormai scarseggiano. L’intervento sarà sempre più diretto e sostitutivo più che di affiancamento. Insomma, entreremo in guerra. In prima persona. Tutti.

Il ricorso alle armi atomiche – tattiche o strategiche è una variabile con sottovariabili. Ma lo scontro con armi convenzionali si profila ormai inevitabile. E le conseguenze, stante le forze in campo e i rispettivi obiettivi da distruggere non sarà una replica dello show ovattato che vediamo ogni giorno in Tv. Ci ricorderemo allora dei cantori della bella guerra e della difesa dell’Occidente e del mondo libero.

Non avverrà tutto d’un colpo, ma ogni passo sarà irreversibile e, quando ce ne renderemo conto, sarà troppo tardi per tirarsi indietro. Le risposte russe saranno differenziate e scaglionate nel tempo – forse. O forse no. Entriamo in una terra incognita e in tempi indefiniti che tuttavia tenderanno a saldarsi con l’altra scadenza, lo scontro ancor più epocale con la Cina. Qualcuno dice il 2024, altri il 2025.  Chiaro che il confronto europeo accelererà quello sul Pacifico. Nel frattempo dilagano gli scontri in Iran e in Israele, in entrambi i casi in stretta connessione con il teatro ucraino. L’ipotesi più debole è che le che le cose restino come sono oggi, in uno stato di pace guerreggiata, una vigilia protratta e indeterminata di guerra vera.

Forse chi ha un orizzonte lungo di vita e magari è arruolabile e mobilitabile qualche preoccupazione dovrebbe averla. E prendere parola, finché si è in tempo.

Finché si è in tempo. È come nella barzelletta, precipitiamo dalla cima di un grattacielo. Quarantesimo, trentesimo piano…Finora non è successo niente, va tutto bene. E intanto, durante la caduta al rallentatore, osserviamo cosa succede a ogni piano, sbirciando fra i vetri. Vediamo lo spostamento verso Est del centro dell’Europa, dall’asse franco-tedesco con paesi mediterranei a rimorchio a una combinazione inedita fra Polonia con satelliti slavi, paesi baltici e Inghilterra (fuori UE) – tutti segnati da anticomunismo virulento convertito in russofobia, nonché usati dagli Us a guida bideniana come testa di ponte anti-europea, modello Kossovo.

Continuando a precipitare vediamo il reciproco rafforzamento fra onda lunga reazionaria, smantellamento ella retorica europeista dei diritti e preparativi accelerati di intervento bellico preventivo. Il nuovo governo Meloni si sta brillantemente ritagliando il suo ruolo sia nella demagogia sovranista, a fianco della Polonia (più che dell’ambigua semi-putiniana Ungheria, cara invece al cuore di Salvini), sia nel furore bellico pur non supportato da armamenti all’altezza. Non potendo, per equilibri interni e fame energetica, praticare troppo l’antiputinismo, per ora ci si limita a imbruttirlo e si prendono di mira anarchici e Ong. Di negoziati neppure l’ombra, a nessuna finestra.

Nel frattempo, con tempi diversi e nell’ambito del riposizionamento europeo, il sistema tradizionale dei partiti si va alterando e decomponendo, in primo luogo in Italia dove niente è più come prima e i danni maggiori risultano a sinistra per la crisi irreversibile del Pd e l’incerta riqualificazione progressista del M5S a trazione Conte. Poco importa, tanto le scelte di fondo le fa la Nato per la politica estera, la UE per l’economia. Pilota automatico, no?

Fuor di metafora, a mente fredda vie di uscita al momento non se ne vedono. La scellerata decisione di Putin, in piena hubris neo-zarista, di aggredire l’Ucraina il 24 febbraio e di condurre la guerra nel modo più controproducente e costoso per la Federazione russa, ha scavato un solco di sangue con la repubblica ex-sorella, spingendo altri paesi confinanti nelle braccia della Nato.

Questo errore (e in politica l’errore è peggio di un crimine) ha portato a una situazione di stallo in cui l’Ucraina resiste soltanto alzando incessantemente il livello dello scontro con il coinvolgimento delle armi e dei contractor e a breve degli eserciti dalla Nato, mentre i russi devono sacrificare sempre maggiori masse di reclute e riservisti per far valere la propria schiacciante superiorità numerica, facendo dell’Ucraina terra bruciata con missili e artiglieria.

La logica dell’escalation trionfa così da ambedue i lati e il negoziato appare per entrambi i belligeranti una resa inammissibile. A questo punto la discussione su chi ha scatenato la guerra (la Russia, senza dubbio) e chi l’ha sobillata per anni (l’Ucraina e la Nato, del pari senza dubbio) diventa irrilevante dal punto di vista degli esiti distruttivi. Torti e ragioni non spariscono ma l’entità del conflitto diventa la contraddizione principale e il fattore letale dominante.

È la fine del mondo che si annuncia? No, probabilmente solo dell’Europa, campo di battaglia e animale politico agonizzante.

Può darsi addirittura che la devastazione bellica esaurisca entrambi i campi contendenti, con il risultato di un’ascesa della Cina, terzo incomodo, e della preservazione dell’Asia dagli effetti più micidiali del conflitto. Anzi, è forse questo il principale ostacolo a un ingresso statunitense in una terza guerra mondiale” prematura”. Non a caso Biden sembra al momento riluttante a seguire le smanie baltico-polacche – e ancor più il Pentagono.

La Cia sembra disposta a barattare il 20% dell’Ucraina (Crimea e Donbass) con una tregua. La dissoluzione della Russia, oltre tutto e anche se avvenisse senza troppi costi, sbilancerebbe tutta la strategia statunitense e andrebbe solo a vantaggio dei cinesi. E cadrebbe il maggior elemento di ricatto per tenere al guinzaglio l’Europa. Ma contare troppo sulle tortuosità geopolitiche è un azzardo.

Non cediamo a toni apocalittici. Come per la catastrofe ecologica, non è in pericolo il pianeta, non scomparirà l’umanità, “solo” una sua grossa porzione (per sfiga proprio la nostra) e naturalmente ne uscirà sconvolta l’intera civiltà. Saranno vanificati our elaborate plans, come cantava the Lizard King, neppure tutti, forse quelli cinesi o messicani resteranno in piedi e chissà come imperverserà la contaminazione nucleare sulla superficie terrestre. Certo, la sciagura affliggerà anche i superstiti. Per pesci e topi il pericolo è molto minore e i pappagallini brasiliani giallo-verdi continueranno a svolazzare fra i nostri alberi, ma non davanti ai nostri occhi. 

L’Idea, tout court, della fine del mondo è consolatoria nella sua ineluttabilità, non c’è niente da fare, chiudiamoci in casa e aspettiamo oppure dedichiamoci a innocue baruffe. È sempre successo, è una forma di rimozione a volte colpevole a volte umanissima. Rilevava incidentalmente Vasilij Grossman, in Vita e destino, che non ci stupiamo se «nell’immane disgrazie che si era abbattuta su di loro quelle persone [gli ebrei in transito dal ghetto ai campi di sterminio} si perdessero comunque in inezie e si arrabbiassero per ogni sciocchezza». Deve o non deve partecipare Zelenskij al festival di San Remo? L’adesione di una ex-jena compromette la corrente di Bonaccini? E il principe Harry?

Invece l’idea di una possibile fine parziale del mondo ci spinge a ricercare le alternative per evitarla o rinviarla o circoscriverla. Per paradosso è proprio la preoccupazione di Us e Cina a non impegnarsi anzi tempo in uno scontro che entrambi ritendono quasi inevitabile a lasciare spiragli per ritardare la terza guerra mondiale e consentire alle tramortite potenze europee – al malmesso asse franco-tedesco e ai paesi mediterranei – di sottrarsi alla prepotenza baltico-atlantica e ai movimenti popolari, per ora vivi soltanto in Francia e in Inghilterra (a livello sindacale), di cambiare l’agenda politica.

Nel medio periodo potrebbe forse funzionare, ai fini di una tregua o di una stabilizzazione indefinita “alla coreana”, l’appello a evitare ogni pretesa di vittoria sul campo e di conseguente regime change, accompagnato a opportune garanzie di neutralità e alla ricontrattazione delle sanzioni. Ma si tratta solo di un rinvio, rispetto alla ripresa del conflitto suo fronte est-europeo o di un suo spostamento verso la Cina.

La guerra e la barbarie danno parte inaggirabile del capitalismo e dell’imperialismo, rendiamocene ben conto. E qui abbiamo due imperialismi a confronto, che dovrebbero entrambi essere sovvertiti.

Stiamo ancora sulla vecchia alternativa finale: socialismo o barbarie – e ci stiamo con un sovrappiù di delusioni e insuccessi. Ma la strada è ostinatamente ancora quella, sperando che ce ne sia il tempo. Sul fronte della guerra così come del collasso ecologico sempre più prossimo.

Immagine di copertina di Nasa, da Wikimedia commons