editoriale

Interregno

Mentre il Governo giallo-verde annaspa nelle sabbie mobili, il “nuovo” Pd gioca di rimessa e si accontenta delle briciole dello sfaldamento dei 5 stelle, finendo per favorire il gioco della Lega. E Zingaretti?

La scomposta coalizione di Lega e 5 Stelle regge e non opera, non può agire ma neppure sfasciarsi perché a Salvini non conviene abbandonare una posizione senza responsabilità in cui lucra tutta la visibilità e il consenso senza esporsi al rischio di gestire da Premier una crisi economica e le conseguenti misure impopolari (manovra correttiva, aumento dell’Iva, sanzioni europee). Di Maio, che ha già fallito e lo sa, non può a sua volta rischiare elezioni anticipate rovinose, da cui uscirebbe sotto il 20% e magari con una scissione.

Stante l’esaurimento del programma di compromesso e la litigiosità obbligata per compiacere due elettorati poco compatibili, il Governo è destinato a fare il meno possibile, o meglio abbandonare la ciccia (la politica economica, dopo aver conseguito i due obbiettivi-feticcio, quota 100 e reddito di cittadinanza) e dedicarsi ai lustrini (legittima difesa, ordine pubblico, graffietti alla “casta”). Con la farsa dei bandi/avvisi Tav è calato il sipario sul programma di governo. Il rinvio della crisi è barattato con il rinvio dell’operatività.

In questo intervallo cercano di posizionarsi i progetti sia di centro-destra che di centro-sinistra, pronti a raccogliere le spoglie dei 5 Stelle, che invece hanno per unica prospettiva una decrescita infelice.

I progetti di centro-destra sono due. Uno di Berlusconi che vorrebbe condizionare Salvini e dargli la linea – proposta implausibile e irricevibile. L’altro di Salvini, che studia il momento migliore per fagocitare quanto resta a destra, senza compromettersi con Berlusconi (che non è immortale) e scaricando i 5 Stelle con il consenso fattivo di Confindustria e Trump. Affari loro – è probabile che nel medio periodo si costituisca una maggioranza di destra e Salvini possa indossare la felpa “Palazzo Chigi”.

Maggiormente ci concerne a quanto accade sul lato simmetrico Pd, non perché di sinistra si tratti, ma perché il battito d’ala di una farfalla in quell’area scatena uragani e tempeste di merda in tutto l’arcipelago che “di sinistra” si autodefinisce. A cominciare delle baruffe sul web fra sovranisti rosso-bruni ed europeisti rosé, filo-zingarettiani che si vergognano e intrepidi smascheratori di Zingaretti, e poi a seguire con il pullulare di liste per le europee, aggregazioni, scissioni e scomuniche fra le medesime, caccia al quorum, ecc. Come in ogni “interregno”, Gramsci ci insegna, quando il vecchio muore e il nuovo non può nascere, si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

Ma in realtà che sta facendo il fratello di Montalbano, dopo la delega in bianco fornitagli dagli elettori più che dagli iscritti al Pd? Innanzitutto, ovvio, cerca di riprendere il controllo del partito, strappando ai renziani la direzione dei gruppi parlamentari, la tesoreria (ormai svuotata), un po’ di dirigenti locali e amministratori e magari abbandonando lo sfigato edificio del Nazareno. Per il resto, finora si limita a giocare di rimessa e a incassare il ritorno di qualche elettore deluso che si era rifugiato nell’astensionismo o nel voto ai 5 Stelle – un paio di punti percentuali, nei sondaggi, a vedere il bicchiere mezzo pieno.

Che vuol dire giocare di rimessa? Facciamo degli esempi.

Sull’improvvisata adesione alla Via della Seta, nervosamente criticata da Trump e vista con diffidenza sia dalla Commissione europea che da un Salvini in veste “responsabile” e “atlantica”, il Pd ha presentato un’interpellanza al Senato, chiedendo chiarimenti al ministro degli Esteri Moavero, proprio alla vigilia della visita di stato del Presidente Xi. Una mossa che pare difficile etichettare se non come un sostegno alle posizioni critiche e un favore al centrismo ruspante della Lega. Nessun indizio di un discorso geopolitico e di una qualche sollecitazione a una politica europea autonoma dagli Usa.

Ancora peggio, sempre sul piano internazionale, l’essersi associato il Pd di nuovo a Trump, Europa e Lega nella condanna di Maduro e nel sostegno smaccato a Guaidó, sempre per isolare i 5 Stelle che sull’argomento avevano preso una posizione pasticciata ma non servile.

Sul piano interno il gioco di rimessa (che a volte ricorda lo sciagurato invito renziano a sgranocchiare pop-corn) si è manifestato sul reddito di cittadinanza e sul salario minimo, mentre nel caso del Tav c’è stato a livello nazionale (visita a tambur battente di Zingaretti ai cantieri subito dopo le vittoriose primarie ) e locale (campagna sciamannata di Chiamparino per un referendum propositivo a favore della prosecuzione dei lavori) un appoggio esplicito alle posizioni della Lega e di Confindustria,  come se si trattasse di un evento decisivo per la ripresa economica – ciò che assolutamente non è, né per entità né per urgenza. La fretta anzi dipende dal valore ideologico di una mossa in apparenza anti-5 Stelle e anti-populista, in realtà un’appendice della vecchia ostilità picista ai movimenti dal basso, di pessimo augurio per la nuova segreteria.

Ma veniamo ai due casi genuini di rimessa con pop-corn. Non torniamo sul reddito di cittadinanza, il cui carattere equivoco e in sostanza workfaristico abbiamo già denunciato su questo sito e dove, però, l’opposizione del Pd si manifesta associandosi ai lazzi sul divano e nel fare le pulci ai numerosi ingranaggi fasulli o lenti ad avviarsi, senza la minima autocritica sui limiti delle precedenti iniziative dei dem – per esempio il sottofinanziamento e la ridottissima platea del Rei. Si tratta pur sempre di soldi che entrano in tasche vuote e alleviano alcune situazioni di povertà, senza intaccarla seriamente né tanto meno “abolirla”. Una buona ragione per forzarne i limiti e per sollecitare la revisione dei criteri restrittivi e dei ricatti umilianti, non per fare da cassa di risonanza a chi strilla all’incompatibilità di bilancio o (come fa la Lega dei padroncini settentrionali) alla lesione dei sani principi lavoristici. Zingaretti non ha aumentato il carico, ma neppure smentito l’asfissiante retorica della fase renziana, i cui epigoni hanno addirittura denunciato che i (molto teorici) 780 € si avvicinano pericolosamente al salario medio mensile under 30. Come se ciò segnalasse un rischio di ozio giovanile retribuito e non piuttosto la miseria di tutte le retribuzioni in Italia.

E con questo veniamo all’ultimo aspetto, il salario minimo. Di fronte all’invito (provocatorio, va detto) di Di Maio a votare la proposta pentastellata di un salario orario minimo a 9 € lordi, il Pd ha risposto, per bocca di un senatore renzianissimo, che Di Maio potrebbe invece votare la proposta Pd di un minimo orario di 9 € netti. Rilancio con pop-corn, appunto, mentre la prassi parlamentare corretta sarebbe di inviare in commissione le due proposte per un’armonizzazione. Fra l’altro, la proposta pentastellata, seppure quantitativamente più esigua, pare che tenga maggiormente conto del coordinamento con i minimi tabellari contrattuali – che è il punto più delicato del salario minimo e su cui vertono le maggiori diffidenze dei sindacati.

Per avere un’idea di ciò che il salario minimo rappresenta, pensiamo che in Francia, dopo le proteste dei gilets jaunes, esso è stato innalzato sopra i 1.500 €: a quanti dei nostri lettori farebbe schifo? Secondo i più recenti dati Istat il 22% dei lavoratori dipendenti delle aziende private (sono esclusi gli operai agricoli e i lavoratori domestici, che notoriamente stanno ancora peggio, per non parlare dei braccianti autoctoni e migranti sotto caporale) hanno una retribuzione oraria inferiore a 9 euro lordi, il 40% sotto i 10 € lordi. Con l’introduzione di un salario minimo a 9 euro lordi all’ora quasi 3 milioni di lavoratori registrerebbero un incremento medio annuale della retribuzione pari a 1.073 € pro-capite. Immaginate cosa significherebbe fissare l’assicella a 10 € lordi (la media fra le due proposte di legge in ballo). A questo punto, forse, la finiremmo di parlare di parassiti sdraiati e di contrazione dei consumi, di precarietà e dignità – e pure di intralci alla contrattazione salariale di categoria, cui resterebbero praterie sull’orario di lavoro, la parità di genere e altri diritti massacrati dal JobsAct.

Il problema è dunque, prima di pronunciarci sugli atteggiamenti da prendere nelle future elezioni europee e nelle futuribili elezioni politiche, capire se e quando Zingaretti riuscirà a passare da una contestazione ovvia delle peggiori misure giallo-verdi e da un atteggiamento recriminatorio ed essenzialmente passivo sulle proposte insufficienti o svianti a 5 Stelle (per di più con il rischio di avallare vecchi errori renziani, furbate salviniane  e servili fedeltà a Trump e alla Ue) a una strategia propositiva sul reddito e sul salario, in grado di invertire la corsa neoliberale alla diseguaglianza e alla precarietà. Questo sarebbe preliminare a ogni discorso su diverse coalizioni in caso di collasso del M5S e del suo governo. Ma finora ha prevalso un attendismo scarso di idee e nutrito solo di immotivato patriottismo di partito, appena un filo meglio dell’assordante silenzio seguito per un anno intero dopo il 4 marzo 2018.