OPINIONI

Il vento sta girando

Alla formazione di un governo di estrema destra risponde subito una grande, inedita ed eterogenea manifestazione per la pace, le rivendicazioni sociali e i diritti. Un inizio promettente in un quadro profondamente mutato

Il vento sta girando. Nello stridente silenzio di quotidiani e TV, impegnati ad arzigogolare sul tetto di cristallo sfondato e i tacchi 12 del premier Meloni, 25.000 operai e studenti hanno sfilato il 22 ottobre nella città e sul passante di Bologna, facendo convergere lotte operaie, richieste di pace e rivendicazioni ecologiche.

Altre iniziative preparano la grande manifestazione romana del 5 novembre, stavolta sostenuta anche dalla Cgil, dove è centrale la richiesta di cessate il fuoco accanto alla condanna dell’aggressione putiniana. È già partita una campagna, anzi due campagne preventive contro queste piazze: Crosetto accusa Mosca di soffiare sul fuoco della rabbia e Letta e Calenda ammoniscono accoratamente nella stessa direzione, raccomandando di sedersi in poche decine sotto l’ambasciata russa. Intimidazioni e consigli che ci arrimbalzano.

Bravi gli studenti romani che hanno contrappuntato il discorso inaugurale di Meloni e bravo chi alla Camera ha solidarizzato con loro. Di respiro ancora maggiore è l’esperienza francese, da cui abbiamo tutto da imparare – sin dall’epoca dei Gilets Jaunes e delle campagne di France Insoumise contro la Macronia.

Il vento sta girando. Prima ancora che sulle piazze, lo avvertiamo a livello delle maggioranze silenziose, delle folle anonime e sondaggiabili schierate davanti ai televisori e nei bar, non in corteo o in sciopero. Meritano la nostra stima? Mica tanto. Meritano la nostra attenzione? Avoja!

Con ottusa pazienza (altro che resilienza) un 60% dei sondaggiati continua ad avere dubbi sulla guerra e l’invio delle armi, associando addirittura – chissà perché – i flagelli dell’inflazione, delle bollette e del futuro razionamento la guerra e alle sanzioni. Hai un bello spiegargli la pace con giustizia, la difesa dei valori occidentali, sentenziare che inflazione e prezzi del gas sarebbero comunque cresciuti – il cavallo non beve. Magari è un asino, quella maggioranza silenziosa, ma non beve lo stesso.

Tanto che perfino animatori di talk show a caccia di audience si fanno interpreti di questo disagio e cominciano a derogare o a sollevare dubbi sull’atlantismo obbligato dei mezzi di comunicazione. E non parliamo poi di quelli che stanno a libro paga di Putin o ambiscono a entrarci e agli amici di vecchia data dello Zar – abbiano o non abbiano bisogno di finanziamenti –, toh, prendiamo Berlusconi che gli euro gli escono dalle orecchie, non è affamato come Salvini, tanto meno kirilliano nei costumi come Fontana.

Berlusconi ha fiutato l’insofferenza del senso comune per la guerra e i suoi effetti materiali, questo misto confuso di apprensione per l’atomica e timori di impoverimento, e cerca di cavalcarlo per i suoi dispetti e interessi privati. Non senza strologare sui possibili esiti trumpiani delle elezioni statunitensi di mid-term, che potrebbero aprire la strada a trattative diretta Usa-Russia sulla testa degli ucraini.

La stessa formazione di un governo a forte guida atlantico-sovranista, neoliberista e reazionario in materia di diritti (quindi “baltico-polacco” più che “trumpiano”), con all’interno cospicue frazioni trumpiane e filo-putiniane, chiarifica la situazione, prima ingarbugliata dall’atlantismo “democratico” di un Pd uscito disastrato dalla sconfitta della strategia suicida di Letta.

Toccare con mano (ed eventualmente con i manganelli promessi da Crosettto e subito concretizzati alla Sapienza da Piantedosi) che il bellicismo Nato si innesta con naturalezza sul sovranismo retrogrado, senza trascurare affarucci commerciali con Putin, aiuta a dissipare l’opacità di un interventismo “di sinistra” che aveva finora intralciato la mobilitazione per la pace e la contestazione degli effetti economici della guerra.

La tendenziale disgregazione di un Pd irriformabile e ormai solo scindibile, pur favorendo per un certo tempo il ciclo reazionario, apre nel medio periodo la strada alla ricomposizione dell’opposizione, sia pure nelle condizioni più sfavorevoli, e libera i movimenti di massa finora congelati.

A patto di separare la battaglia per il cessate il fuoco e contro bollette, razionamento e recessione in arrivo (che sarà terribile) dai rigurgiti putiniani di protagonisti non pentiti del neoliberismo patriarcale in cerca di un posto fisso. Il vento sta girando e gli audio berlusconiani ne fanno parte quanto vari pacifismi sospetti, ma il vento ci porta da tutt’altra parte e solo uno sviluppo delle lotte sociali e per i diritti, come in Francia, farà la differenza con una scelta sterile e letale fra imperialismo grande-russo e imperialismo atlantico.

Per questo, su un terreno globale e nazionale radicalmente cambiato rispetto a pochi mesi fa, il rifiuto della guerra passa attraverso la difesa degli interessi immediati aggrediti dalle scadenze belliche e delle strategie neoliberali e insieme oscurantiste del governo Meloni. Manifestare senza bandiere non è soltanto una pratica benefica per riunire forze eterogenee, ma presa d’atto che la rimessa in discussione delle identità passate è una condizione simbolica per la convergenza delle lotte e la creazione futura di nuove bandiere.

Ci vogliamo muovere all’esatto opposto delle forze identitarie di destra, che si affannano a mettere etichette e bandierine, vecchie o rubate o sviate di senso, per coprire programmi di mantenimento dell’ordine o di restaurazione inadeguati perfino a reggere l’urto del nuovo disordine mondiale.

Prendiamo atto del nuovo ordine di rappresentanza politica, segnato dal tendenziale declino delle forze centriste, dalla faticosa riqualificazione del M5S in espressione secolare non autorizzata del mondo cattolico progressista, delle nuove combinazioni possibili con quanto resta della sinistra tradizionale dopo il 25/9 e prima della presa del potere da parte di Bonaccini dentro i resti del non glorioso Pd.

Rendiamoci ben conto che siamo nel mezzo di una guerra su suolo ucraino fra Usa-Nato e Federazione russa, cioè a un confronto – per la prima volta dal 1962, quando la stragrande maggioranza dei lettori e dei manifestanti del 5.11 ancora non erano nati – fra potenze nucleari, rendiamoci ben conto che finora hanno protestato contro la guerra in Italia poche centinaia di persone mentre molte, molte altre hanno dissentito ma in silenzio.

Rendiamoci ben conto che abbiamo, per la prima volta, un governo che più di destra non si può e che minaccia pure di intervenire pesantemente contro la “rabbia sociale” (la lotta di classe), alimentata da “Mosca”. Rendiamoci ben conto che l’attuale opposizione parlamentare è stata ridotta all’inoperosità. Se l’è meritato, ma questo rafforza la tracotanza della destra al governo.

In questa cornice il 5 novembre a Roma ci sarà una prima iniziativa contro la guerra. È già qualcosa, forse più di qualcosa.

Il 5 novembre ci troveremo in piazza con tutt* le/i compagn* con i quali, in tempi difficili, abbiamo costruito un percorso che tiene la lotta per la pace all’interno delle rivendicazioni salariali ed ecologiche, a fianco della protezione sanitaria e sociale e della tutela ed espansione dei diritti civili. Ma ci troveremo insieme a molti che non conosciamo, che vengono da altre sponde, sospinti da motivazioni ed emozioni che non erano le nostre ma confluiscono con le nostre. Persone che non capiscono e non parlano gran parte del nostro linguaggio e però vogliono cose simili alle nostre, hanno paure come le nostre.

Quando esaltiamo, con Shelley, i many che noi siamo, contro i few che sono i nemici, non sorprendiamoci se i “molti” sono sconosciuti e diversi da noi. E non parlo solo del transfemminismo o dei FFF, che sono già parte avanzata dei movimenti. La forza della pluralità, l’intersezionalità implica diversità e curiosità per quanto non ci è finora appartenuto.

In altre parole, l’orizzonte di fatto socialdemocratico entro cui (con tutte le motivazioni soggettive comuniste) ci siamo finora mossi è cambiato e questo vuol dire nuovi corpi e nuove pulsioni, quali che siano le etichette di cui continuano per abitudine a fregiarsi. Fare gli identitari, in questa situazione, oltre a non stare nella nostra storia, sarebbe un suicidio, mezzo patetico e mezzo gruppettaro.

Ci sono già rivendicazioni materiali in corso intorno alla richiesta di cessare il fuoco, pezzi di strategia – diciamo – ma non c’è una strategia complessiva, che vada da una prospettiva geopolitica a programmi omogenei nazionali e di settore. Siamo all’inizio – ed è già una buona cosa dopo un lungo inverno e botte peggio dello scontento.

E allora, tutt* in piazza il 5 novembre, ma ce n’est qu’un début!

Immmagine da pixabay