MONDO

In Libano la rivoluzione non sogna più

Nel centro della capitale cominciano le demolizioni volute dal nuovo Parlamento, mentre in Libano a giorni non ci sarà più pane. La guerra ha bloccato le importazioni di grano e anche trovando nuovi fornitori non ci sarebbe modo di pagarli. Poche le novità alle elezioni di maggio, le prime dopo le proteste del 2019. Speranze (poche) e contraddizioni (tante) di una delle peggiori crisi contemporanee

Dopo anni di sassaiole e lacrimogeni, vengono demoliti a Beirut “i muri del potere”. I bulldozer rimuovono gli enormi blocchi di cemento sotto lo sguardo annoiato delle forze armate. A DownTown erano quei blocchi a impedire al popolo l’accesso ai palazzi della politica. Scompare uno dei simboli della rivolta giovanile libanese, e non è stato il popolo a liberarsene, ma quella stessa classe politica che pure quei muri aveva costruito.

Nel 2019 c’era la Thawra, l’ultima grande stagione di speranza per il paese. A Beirut si respirava amore e rivoluzione. Un’intera generazione si era unita nel rifiuto del settarismo, riempiendo di canti e colori le piazze. Tutti i giorni, per interi mesi. “Yallah Lubnan, Thawra!” (Forza Libano, Rivoluzione!), era il mantra nei cortei quotidiani.

Hadi era uno dei ragazzi che la sera rimaneva a dormire nelle tende a Piazza dei Martiri. Ogni due settimane tornava a casa perché altrimenti «mia madre poi si preoccupa». Un giorno ci disse che secondo lui ognuno degli uomini chiave – «dei burattinai» – del piccolo Stato levantino era accomunato da una precisa caratteristica: quella di «non saper far altro che alimentare odio verso gli altri, nutrendo così la propria sopravvivenza».

Hadi passava le giornate con il megafono in mano, la kefiah sempre al collo anche con il caldo. «È per i lacrimogeni», spiegava. Ogni pomeriggio si ritrovava con migliaia di altri ragazzi/e di fronte al Parlamento: il simbolo delle privazioni sistemiche che soffrono i/le diseredati/e.

Degli enormi blocchi di cemento vennero installati sulle pubbliche vie del centro, per impedire l’accesso a chi, come Hadi circondava senza le armi i palazzi del potere. Quei muri sono poi diventati vere e proprie opere d’arte: disegni floreali e murales meravigliosi ne hanno riempito le superfici. Oggi vengono demoliti dal nuovo Parlamento, quasi a voler comunicare al popolo «non fate più tanta paura».

E in effetti la pandemia, l’esplosione al porto di Beirut, la crisi economica senza fine e ora anche la guerra in Ucraina, sono tutti fattori che hanno sfiancato una popolazione già esausta. Le piazze del 2019 appaiono oggi irripetibili. Il popolo libanese sembra tornato dentro la sua bolla di urgenze quotidiane, una gabbia sempre più piccola e senza risorse.

In Libano ‘urgente’ significa non avere pane da mangiare, acqua potabile, luce, benzina. Significa non poter curare i propri parenti. L’inflazione corre, la moneta non vale più niente. Un pasto frugale costa 50 mila lire, 3 anni fa ne costava appena mille.

Sono quasi 200 mila le persone fuggite negli ultimi due anni mentre 3/4 della popolazione è scivolata nella più estrema povertà. Ultime tra gli ultimi sono le famiglie rifugiate siriane e palestinesi, che vivono in un totale stato di indigenza: circa 2 milioni di persone. Bambini/e che non vanno più a scuola perché devono lavorare. I matrimoni precoci sono in costante aumento.

Il FMI promette i soliti prestiti subordinati alle note ‘riforme’. Riforme che non si faranno, poiché il sistema politico è estremamente diviso dai rancori settari e soltanto la bramosia di autoconservazione evita guai più gravi. Durante l’ultima campagna elettorale le liste indipendenti, che rivendicavano gli ideali delle proteste, sono state quasi completamente ignorate dalle televisioni.

«Il sistema settario è troppo radicato» – ci aveva avvertito Kareem Chehayeb, giornalista libanese di Al Jazeera. «I partiti tradizionali hanno una base elettorale irremovibile in determinate aree del paese. La maggior parte dei seggi è praticamente già assegnata. Sono poche le chance per le liste indipendenti».

Le poche chance di cui parlava Kareem alle elezioni hanno portato comunque un discreto 10% di seggi per i/le candidati/e indipendenti. Non è però scontato che questo costituisca un fronte comune anti-establishment. Per il resto, i pronostici sono stati rispettati e i partiti tradizionali hanno fatto man bassa alle elezioni di maggio, nonostante i tanti voti arrivati dall’estero dove hanno votato più del 60% delle persone (mentre l’affluenza interna si è fermata al 49%).

Un dato che Kareem ha commentato senza nascondere una certa amarezza: «C’è qualcosa di particolarmente crudele nel fatto che gli espatriati libanesi continuino a votare per chi ha ridotto il Libano senza cibo, elettricità e assistenza sanitaria. Mentre chi è andato via ormai vive in paesi dove tutto ciò viene garantito».

Il ritorno alla terra e il lavoro di UPP in Libano

Oggi la guerra in Europa ha interrotto le importazioni del grano e il fabbisogno libanese non è garantito. La farina è diventata merce rara e costa tantissimo: i forni stanno chiudendo uno dopo l’altro.

In questa situazione alcune persone scelgono di tornare al lavoro nelle campagne. È un fenomeno di cui si parla poco, ma che sta ottenendo il sostegno di Ong italiane come Un Ponte Per, che sostiene il percorso di circa 200 famiglie grazie ai fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Cattolica – Conferenza Episcopale Italiana, con un intervento portato avanti da partner locale  Permanent Peace Movement.

Sul Monte Libano, dunque, una crescente comunità di persone sta tornando alla terra per sopravvivere: si prova a fornire loro corsi pratici, mezzi e micro-sovvenzioni per attività agricole nei distretti di Aley e Chouf, per garantire loro la sicurezza alimentare. Yallah Lubnan, speriamo che anche stavolta tornerai a cantare.

Immagine di copertina di Edoardo Cuccagna