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In continua transizione

Dove finisce la natura e dove comincia la politica? A partire da una attenta diagnosi della crisi, nel suo ultimo libro Federica Giardini indaga il rapporto tra antropologia e istituzioni

Non c’è pensiero della politica senza interrogazione antropologica. Ciò è stato sempre vero, ma, per alcuni versi, mai come oggi la domanda sull’anthropos si è fatta insistente, pervasiva. Siamo ancora inesatti: non c’è filosofia politica, dalla Grecia classica alla modernità, se non a partire dalla ricognizione sui tratti distintivi della natura umana. La combinazione esplode, però, con l’esplosione della crisi – economica, sociale, culturale. Così risulta evidente l’analogia tra il tempo presente e il ‘600. Ora, come allora, gli assetti istituzionali subiscono smottamenti e radicali metamorfosi. E se allora il capitalismo si stava affacciando e imponendo nel mondo, in compagnia della sovranità statale, oggi il mondo e il capitale coincidono. Pur non avendo più limiti, o proprio per questo, il capitale sta ripetendo senza posa, fino a renderla permanente, la sua violenza originaria: tra spossessamento e recinzioni, impoverimento e migrazioni, reclusione e moralizzazione dei poveri.

È in questo tempo – nel quale la soglia tra l’animale e l’umano, quella tra umanità e cittadinanza, si spostano e si confondono – che torna a essere decisivo pensare la politica a partire dalla domanda antropologica, e viceversa. Questa la strada percorsa da Federica Giardini nella sua ultima fatica: I Nomi della crisi. Antropologia e politica (Wolters Kluwer/CEDAM 2017).

Compongono il volume, estremamente ricco per intuizioni e affondi, quattro capitoli. Nel primo, Giardini presenta il problema, così come lo abbiamo fin qui stenograficamente posto. Dall’archeologia dei concetti alla rottura degli steccati disciplinari, si tratta di afferrare l’anthropos come campo di tensione, plastico e cangiante, nella transizione ricorsiva tra natura e storia. Nel secondo, e dopo aver esposto la relazione tra domanda filosofica e congiuntura (la crisi), lo sguardo si sposta sulle passioni. Da tempo queste ultime hanno colonizzato l’attenzione del pensiero politico, da quando appunto è entrato irreversibilmente in crisi lo Stato-nazione. Ma le pagine di Giardini sulla paura e la distruttività, sul risentimento e la paranoia sono originali e potenti; istruite da un’indicazione di ricerca che vale la pena riportare per intero: «la questione non è tanto capire e decidere per una caratterizzazione definitiva della natura umana – cattiva o buona – ma di vedere come la caratterizzazione delle passioni sia invece l’esito di una dinamica tra piano antropologico e piano politico, che nei momenti di crisi si affrontano quanto a domande e risposte». Diviene allora fondamentale studiare le circostanze, storiche e sociali, che fanno riemergere in primo piano le «passioni tristi» e, soprattutto, quale il «trattamento politico» di volta in volta loro riservato.

Nel terzo capitolo, ma già al termine del secondo, conquista la scena il rapporto tra antropologia ed economia. Alcune delle figure della «ragione neoliberale» vengono passate in rassegna e lette a partire da una nuova esigenza teorica: cogliere, nella crisi, il motore della naturalizzazione della sfera economica. Nello stesso tempo, ci dice Giardini, è proprio la valorizzazione capitalistica dei tratti distintivi della specie a fare della crisi – politica ed economica – una condizione cronica. Si apre così, nel quarto e ultimo capitolo, una riflessione decisiva sul tema delle istituzioni. Allo strapotere del mercato, e all’estensione a dismisura di razzismo e guerra tra poveri, in molti stanno rispondendo rilanciando lo Stato e i tabù, la nostalgia per i bei tempi andati e la Legge, la dialettica e Stalin. Giardini, e lo aveva già fatto in passato, procede diversamente, insistendo sulla capacità regolativa dell’animale che siamo. Con la proliferazione istituzionale, dunque, viene proposta un’alternativa radicale all’unificazione statale e alla violenza capitalistica. In virtuosa comunicazione tanto con Nicole Loreaux quanto con Paolo Virno, Giardini pensa l’istituzione come esito sempre reversibile del conflitto, vera e propria matrice di una politica anti-monopolistica.

Tra i tanti motivi che fanno dei Nomi della crisi un testo importante, oltre quelli fin qui segnalati, ce n’è uno che riguarda l’anomalia dell’autrice. Femminista della differenza e filosofa della politica, Federica Giardini è sempre stata “indisciplinata”, refrattaria cioè ai canoni tutti. Virtù che ritroviamo con forza nelle pagine oggetto di questa breve recensione. Gesto che indica, anche, una postura militante: se pensiero critico, allora non c’è identità che tenga; ci sono solo nuovi assemblaggi, teorici e pratici, da sperimentare.