ITALIA

Ilva e Taranto: grammatica di una protesta

La protesta è riesplosa ieri: ad animarla gli abitanti dei “Tamburi”, il quartiere a ridosso degli stabilimenti dell’Ilva. Dopo settimane di proteste, assieme ai comitati e alle associazioni ambientaliste hanno occupato simbolicamente la sede del Comune.

Taranto.  A causa della vicenda Ilva, la misura sembra essere ormai colma. È esplosa ieri pomeriggio, infatti, la rabbia degli abitanti di “Tamburi”, il quartiere attaccato allo stabilimento siderurgico più imponente d’Europa. Essi, insieme ai comitati e le associazioni ambientaliste cittadini, dopo una settimana di proteste hanno occupato per diverse ore, simbolicamente, la sede del Comune. La scintilla in realtà era già scattata qualche giorno fa, e la tensione così era salita quando il sindaco della città dei due mari, Rinaldo Melucci, aveva emanato un’ordinanza, l’ennesima degli ultimi anni, che aveva disposto la chiusura delle scuole del quartiere Tamburi. La scuola elementare Vico, in via Deledda, e la media De Carolis che si trovano a pochi metri di distanza l’una dall’altra (e dalla zona industriale) in tal modo resteranno chiuse almeno fino al 10 marzo, per “motivi di emergenza igienico-sanitaria”, come recita l’ordinanza sindacale in vigore dal primo marzo. E il motivo è presto detto. L’esistenza a ridosso dei plessi scolastici, delle così dette “colline ecologiche”, nove ettari di terreno che dovevano servire fin dagli anni ’70 a separare il cuore del quartiere dalle ciminiere dell’Ilva, e che invece i carabinieri del Nucleo ecologico di Lecce hanno posto sotto sequestro su ordine della Procura locale agli inizi di febbraio, rilevando che si trattava, in realtà, di immense discariche di rifiuti industriali. Scarti dell’acciaieria, principalmente, che sono stati smaltiti negli anni compromettendone forse per sempre le stesse falde acquifere. Nel provvedimento di sequestro dei terreni, il giudice Mariano Buccoliero ha scritto che ci si trova in presenza di «un incredibile accumulo di rifiuti contenenti sostanze pericolosissime per la salute e per l’ambiente» e ha chiesto perciò agli enti preposti di «intervenire tempestivamente, con la messa in sicurezza ed eventuale bonifica dell’area», forte degli allarmi lanciati dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) che conducendo le analisi, aveva rilevato la massiccia presenza, in concentrazioni oltre i limiti di legge, di «idrocarburi pesanti, ferro, benzoapirene. alluminio, furani».

Scarti, dunque, e tanti, di lavorazione dell’acciaieria. Accanto alle scuole. Così il sindaco ne aveva disposto la chiusura, come del resto era accaduto già tante altre volte in occasione dei Wind Days, i giorni di vento in cui la stessa Asl consiglia a chi abita nel quartiere Tamburi di non uscire e tenere le finestre chiuse a causa delle polveri che si respirano nell’aria. Accade già da qualche anno. Stavolta, però, le scuole erano state chiuse, ufficialmente, per chiedere ad Arpa di fornire analisi più dettagliate sulla situazione del terreno e della falda, come aveva riferito nei giorni scorsi l’assessore comunale all’Ambiente Francesca Viggiano durante un’assemblea convocata dal comitato “Tamburi Combattenti” formatosi di recente, e composto in prevalenza da donne. Già, le donne, stavolta, sembrano loro tra le maggiori protagoniste di questo nuovo ciclo di proteste tarantine. Sono state loro a guidare due sere fa la marcia dal quartiere Tamburi allo stabilimento Ilva che si è conclusa con la chiusura simbolica, anche qui, della fabbrica. Oggi vi chiudiamo noi, c’era scritto sul cartello affisso ai cancelli di Ilva che annunciava l’azione da parte degli attivisti. C’erano tante donne anche alla fiaccolata organizzata la settimana scorsa nel centro cittadino per ricordare, in particolare, le vittime più piccole dell’inquinamento, neonati ed adolescenti – e a Taranto ne muoiono di più che da ogni parte d’Italia.  L’ultimo in ordine di tempo si chiamava Giorgio Di Ponzio, aveva 15 anni ed è morto alla fine di gennaio stroncato da un cancro con cui lottava da tre anni.

La misura è colma, lasciava intendere Virginia, attivista di un comitato cittadino, mentre parlava ieri al megafono all’interno della sede del Comune di Taranto simbolicamente occupato. Già dal primo pomeriggio i manifestanti si erano radunati in presidio davanti alla locale Prefettura dove si stava tenendo il tavolo tecnico tra il Comune, l’Arpa e i tecnici dell’Istituto per la protezione ambientale (Ispra) del Ministero dell’Ambiente. La tensione era cominciata a salire quando era stato impedito ad una delegazione di donne del quartiere Tamburi di prendere parte all’incontro tecnico, al termine del quale il Presidente del consiglio comunale Lucio Lonoce ha riferito che: «i dati analizzati seppure in leggero aumento, rientrano nel range previsto dalla norma, e non si evidenzia nessun particolare pericolo per la salute dei tarantini». Il sindaco Rinaldo Melucci, da parte sua, ha definito in un comunicato stampa diffuso ieri in tarda serata, “violenti”, i manifestanti, rifiutandosi di incontrarli; gli stessi si sono dati appuntamento domani mattina alle 8 sotto Palazzo di Città. Terranno lì, con i bambini al seguito con i grembiuli, simbolicamente, una lezione – annunciano in una nota che è stata diffusa poco fa firmata, tra gli altri, dal Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, le associazioni Taranto Respira, Tutta Mia La Città, Tamburi Combattenti, insieme al sindacato di base metalmeccanico FLM Uniti-CUB.

Fuga a 5 Stelle. E, tuttavia, alla base dello scoppio repentino delle proteste delle ultime ore, concorrono, è questa l’impressione, diversi fattori. Sicuramente, la stanchezza derivante da decenni di promesse politiche non mantenute, l’assenza, percepita, di una exit strategy rispetto alla questione sanitaria che affligge la popolazione tarantina, un decennio di mobilitazione cittadine in cui il conflitto capitale/salute/lavoro è stato spesso anestetizzato, piuttosto che agito; e, da ultimo, la promessa tradita da parte del gruppo parlamentare locale del Movimento Cinque Stelle che, sulle macerie lasciate dalla classe politica locale, aveva cavalcato negli anni la protesta ambientale, edificando, dunque, il proprio consenso sulla soluzione, rispetto ai problemi provocati dall’Ilva, della chiusura della fabbrica, auspicata da tanti ormai salvo poi dimostrarsi un bluff alla prova dei fatti. Tanto che entrambi i consiglieri comunali eletti nelle fila del Movimento Cinque Stelle al Comune di Taranto hanno rassegnato nelle ultime settimane le proprie dimissioni. Dapprima l’ex sindacalista della Fiom Massimo Battista e poi anche l’avvocato Francesco Nevoli hanno abbandonato il Movimento, in coerenza con la loro elezione “in quota” e il loro percorso politico precedente all’interno del Comitato Cittadini Liberi e Pensanti. Il Movimento Cinque Stelle ha anticipato la fuga dei suoi rappresentanti locali a Taranto, prima che da altre parti, dopo le feroci contestazioni di cui era stato oggetto nei giorni precedenti un deputato tarantino eletto “in quota movimenti” e costretto ad abbandonare un albergo cittadino scortato dalla Digos locale. Non solo. Vista da lontano, stavolta, una parte dei movimenti cittadini sembra non voler ripetere lo stesso errore di qualche anno fa, riconsegnare, cioè, lo scettro della sovranità a un “grillo senza grillo”. «Il 4 marzo, da piazza Masaccio – luogo simbolo del quartiere più inquinato l’Italia, i Tamburi – i tarantini hanno dichiarato guerra allo Stato», dicono in tanti, in queste ore, dal mondo dell’associazionismo cittadino, annunciando nuove mobilitazioni.

Nel frattempo, ieri, a Roma, si è tenuta alla Commissione Ambiente della Camera dei Deputati l’audizione dei Commissari Straordinari dell’Ilva in merito allo stato di attuazione del Piano Ambientale che dovrà essere realizzato entro il 2023. Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi sono stati a lungo ascoltati dai parlamentari; quest’ultimo ha riferito che, nelle ultime settimane. «I dati di qualità dell’aria non hanno evidenziato il superamento dei limiti delle emissioni nelle aree interne allo stabilimento. Non c’è stato nessun superamento delle polveri e altri potenziali inquinanti». Contraddicendo dunque quanto contenuto in un dossier presentato dall’associazione Peacelink che aveva parlato di diossina nell’aria tornata ai livelli allarmanti di dieci anni fa. E come due lustri fa, la partita della protesta è cominciata, con una nuova storia, forse, ma con la stessa geografia, di certo.