editoriale

Il saluto e l’architetto

Attraversava con eleganza il confine tra privato e pubblico e tra centri e periferie. E disegnava giorno per giorno i tasselli di una mappa a grandezza reale che costituisce un altro mondo. Così ricordiamo Antonello Sotgia

Ci ho pensato diverse volte in questi lunghi dodici mesi, ma non riesco a mettere a fuoco l’immagine dell’ultima volta in cui ho visto Antonello. Soprattutto non trovo il modo di isolare la scena del congedo, il modo in cui siamo salutati, inconsapevoli che appunto fosse l’ultima.

Però ricordo bene che Antonello quando ti vedeva ti salutava sempre come se ti avesse incontrato per caso: «Oh! Ciao!». Succedeva anche se stavi entrando in casa sua, se avevate un appuntamento preciso e la visita era tutt’altro che inattesa. Credo che ciò avvenisse perché nella sua testa, nelle sue mappe mentali, non c’era una netta separazione tra spazio pubblico e spazio privato. Ci si poteva sedere a disegnare in mezzo ad una riunione, come se ci si trovasse a meditare, e si poteva restare sorpresi anche davanti all’uscio di casa, come se l’incontro fosse fortuito dopo che avevi citofonato. Per lo stesso motivo ci si trovava a commentare a voce alta davanti all’interessato, non per stizza ma quasi per trasparenza assoluta.

Forse è questa l’eleganza, non il lusso o la ricercatezza fine a sé stessa. Lo stile è questa capacità di muoversi tra il pubblico e il privato con goffo pudore e in maniera disinvolta allo stesso tempo. Molte delle riflessioni di Antonello cercavano di mettere a tema questo passaggio, questa transizione tra lo spazio individuale e quello comune, tra il dentro e il fuori, tra la casa e la strada.

Assieme ad altri, per contribuire al libro che raccoglie i suoi scritti e alcuni suoi disegni, ho preso in mano alcune delle carte di Antonello sulle sue esperienze da docente di architettura e cooperante nell’Angola della liberazione nazionale e della guerra civile. Fece più viaggi nel corso di una decina di anni. Ne parlava per brevi passaggi, senza pontificare. Ad un certo punto, in una di queste note, Antonello riflette sul modo in cui sono costruite le case angolane, in modo da accogliere la luce ma isolare dal calore. Ancora una volta riconosce il tema della facciata di un edificio e del suo interno, del modo in cui si presenta a chi sta fuori e introduce verso lo spazio dell’abitare. L’architetto e l’urbanista, chi disegna un palazzo e chi immagina una città, si ritrovano e si mettono in gioco continuamente. È ancora questa tensione per l’intermezzo, l’in-between, che lo porta a criticare ferocemente gli occidentali che si trovano in Africa e si fanno prendere senza neanche accorgersene da atteggiamenti e posture coloniali. Li chiamava “conradiani”, e fa venire in mente i francesi che banchettano in mezzo alla giungla contemplando una nobiltà decadente e indifferente al contesto di “Cuore di tenebra” che compaiono, in tutt’altra colonia e in alcune scene che all’inizio vennero tagliate, in “Apocalypse Now”.

Aggirarsi per le strade delle periferie delle metropoli o del mondo con il naso all’insù e l’atteggiamento di chi non vuole dare ruoli per scontati incontrando il prossimo (“Oh! Ciao!”) è il segreto dello stupore che mantiene svegli e reattivi. Antonello leggeva i giornali al mattino presto, ti dava la soddisfazione di cercare il tuo pezzo per commentarlo e lo faceva interagire con il resto delle notizie del giorno. Componeva una rassegna stampa precisa e trasversale ai temi, multidisciplinare come erano i suoi interessi. Alla fine di ogni telefonata ci si salutava, ma ci voleva poco a capire che lui non attaccava subito. Se lasciavi l’orecchio alla cornetta sentivi che prima di avere il pensiero di spegnere il telefono aveva quello di condividere. E allora lo sentivi: “Ro’, dice che…”, e partiva un report a Rossella della conversazione. Rossella magari si trovava accanto a lui in macchina, a guidare mentre Antonello telefonava. Oppure te la immaginavi alla scrivania di fronte alla sua, nello studio che guarda sui tetti di Roma ovest. Anche questo era un metro di quanto Antonello si lasciasse stupire dalle cose: dallo scambio più ordinario traeva elementi di interesse e spunti di curiosità, aveva l’urgenza di raccontare subito tutto questo.

Se avevi fretta dovevi centellinare le parole, morderti la lingua e stare attento a non aprire parentesi o riferimenti. Altrimenti si sarebbe proseguito a lungo! Per empatia, per pura disposizione all’aneddotica, ogni persona che gli veniva nominata diventava un link da aprire e un file da aggiornare di volta in volta. Se entravi nel suo radar eri parte di una rete sociale che si muoveva sotto i suoi occhi e che alimentava esponenzialmente la sua conoscenza e le sue competenze. C’erano persone che lo incuriosivano parecchio e di cui mi chiedeva periodicamente. Allora maledico la mia pigrizia perché pensavo che ci sarebbe stato tempo, che prima o poi sarebbe successo che si sarebbero incrociati, che mi sarei gustato il loro incontro e mi sarei messo accanto a loro, a vederli finalmente chiacchierare. Se gli raccontavi una cosa accaduta ad un tuo amico, e quella cosa lo incuriosiva o lo appassionava, quel tuo amico diventava un punto fisso nell’ordine del giorno degli scambi quotidiani. Un processo infinito, una catena perpetua, di riproduzione di link e connessioni di affetto, passioni, curiosità. E allora mi ritrovavo, nei giorni dell’agonia, a compilare mentalmente elenchi delle cose che gli avrei raccontato una volta che si sarebbe ripreso, degli articoli che si era perso, delle polemiche di cui avremmo riso e delle frivolezze che ci avrebbero fatto incazzare, di come era finita quella disavventura occorsa a quel mio amico e di come se la passava quell’altro che quella volta…

Ci siamo accorti dell’attitudine profondamente politica del metodo di lavoro urbanistico e sociale che Antonello ha inventato, a volte in maniera inconsapevole, passo dopo passo insieme a Rossella. In un giorno di giugno del 1984, incontrando per la prima volta i suoi studenti angolani a Luanda, Antonello decise che l’unico modo per trovare un metodo comune e mettersi in relazione era quello di girare la città e disegnare, fare schizzi, prendere appunti, rappresentare in movimento. Non sono ovviamente dei progetti, spiegava. Ma disegnare, diceva, è una buona occasione per «sperimentare sul campo»

Il grande peso che Antonello portava avanti con eleganza consisteva nel processo continuo di ricostruire una mappa in scala uno a uno delle città. Una mappa fatta di tanti volti, disegni, storie. Il che equivaleva giorno dopo giorno a costruire un’altra città. Se dopo otto ore di lavoro e un paio di riunioni uno ti spunta davanti e si fa stupire dalla solita faccia che indossi (“Oh! Ciao!”) come se fosse appena uscito di casa e pronto a incominciare la giornata, allora capisci che quella fatica immane la affrontava con grande disinvoltura. Forse è questa la rivoluzione, questa voglia e questa fatica immane di ri-costruire le nostre città continuamente e questa passione frenetica di ridisegnarle metro dopo metro, dai luoghi più noti fin negli anfratti nascosti, come traspare dalle decine di quadernetti d’autore che Antonello ci ha lasciato. Attraversare gli spazi dati, farsene stupire, ma volerli continuamente ri-produrre, nei racconti, negli scritti, nei disegni come nella quotidianità delle lotte e del vivere in comune.