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Il piede rapido del tempo

“Invecchiare. Prospettive Antropologiche”, testo curato da Jacopo Favi per Meltemi (2021), prova a mettere a fuoco i diversi e asimmetrici processi d’invecchiamento a partire dalle relazioni, attraverso due cruciali lenti d’analisi della contemporaneità, le migrazioni e il lavoro di cura.

In un articolo pubblicato nell’ottobre 2021, la femminista Alisa del Re parlava dell’esperienza della pandemia a partire dal giorno in cui lei stessa era «diventata un’anziana». L’appartenenza a quella che di colpo è stata comunemente definita una “categoria vulnerabile”, materializzava l’esperienza dell’invecchiamento come un fatto misurabile socialmente tramite una specifica gradazione di esposizione al virus, e quindi alla paura, alla malattia, alla possibilità percentuale della morte in caso di contagio, al di là di qualsiasi precedente personale – pratica di vita, buona salute, mobilità, interessi – che aggirava il dato anagrafico. Questo legame specifico tra invecchiamento e vulnerabilità, ma anche tra anagrafica e percezione sociale e storicizzata della vecchiaia, è l’ipotesi di partenza della raccolta di saggi Invecchiare. Prospettive antropologiche, curata da Jacopo Favi e edita da Meltemi nel 2021. Prendendo in mano questo libro avremo forse la tentazione di cercarvi la risposta a una domanda silenziosamente ossessiva: quando si diventa anziani?

Del resto, l’invecchiamento – e con esso, la stessa morte – costituisce ormai il grande tabù delle società “occidentali”, secolarizzate, del Nord globale, in cui ci troviamo a vivere. L’espulsione della morte dal nostro orizzonte collettivo corrisponde a una impossibilità della compresenza al mondo della vecchiaia, che, al posto di una fase della vita, si trasforma quasi in una sconfitta, nell’ennesimo fallimento – personale e medico – che il neoliberismo fa pendere come una colpa imperdonabile sulle nostre vite. Come la disabilità – che non a caso, spesso alla vecchiaia è associata – la neurodivergenza, la malattia cronica, il disagio psichico e ogni altra forma di devianza – di genere, sessuale, di identità – rispetto al paradigma del corpo sano e produttivo, anche essere anziani e vulnerabili risulta essere una colpa.

Col paradosso – il neoliberismo sembra amare i paradossi – di vite progressivamente allungate, a qualsiasi costo, sperando risultino vite eternamente produttive, mettibili al lavoro, invulnerabili: la progressiva convergenza tra età della pensione ed età della morte viene spacciata per una sorta di lifestyle, invece che una cancellazione di un diritto lavorativo orientato a una vita degna. La pandemia, come un fulmine in un cielo tutt’altro che sereno, sembra aver violentemente riportato la paura della morte e la vecchiaia come spazio liminare al centro del cuore terrorizzato di una cultura europea impreparata e disarmata.

Invecchiare altrove: una doppia assenza

I cinque densi e complessi saggi che formano questo volume sono tutti scritti da autrici che assumono prospettive teoriche, posizionamenti e luoghi di osservazione che si discostano, in vario modo, dal paradigma culturale egemonico del Nord Globale. Innanzi tutto poiché, al contrario della domanda di partenza qui posta, sembrano porre un altro tipo di interrogativo: come, e soprattutto dove, si invecchia? In altre parole, una restituzione dell’invecchiamento a una dimensione spaziale, più che limitatamente temporale, concentrandosi su due nuclei tematici che qualcosa hanno da dire a lettori e lettrici di ogni età: la cura e le migrazioni.

La migrazione viene qui intesa secondo il lavoro di Abdelmalek Sayad, ovvero come fenomeno sociale totale, che investe in toto non solo la vita di chi si sposta, ma anche della società di arrivo e quella di partenza; non possiamo ignorare come questo processo coinvolga e stravolga temporalità e dimensioni anagrafiche che diventano multiple. La migrazione, da questo punto di vista, è una vera e propria macchina del tempo che si dispiega attraverso lo spazio: invecchiare migrando significa attraversare tempi differenti; non vivere le diverse età della propria vita trovando intorno a sé il proprio correlativo oggettivo, non vedere il paesaggio che ci definisce cambiare insieme a noi, tanto meno le persone che accompagnano il nostro invecchiamento. Cosa succede alla nostra percezione del mondo quando le diverse epoche della nostra vita non corrispondono più a diversi tempi, ma a luoghi, che ci sembra, teoricamente, di poter tornare a raggiungere salendo su treni e arei? Quando il nostro ieri è anche un altrove, cristallizzato in un luogo che continuiamo a immaginare nel presente così come lo abbiamo lasciato, anche se non esiste più? Già, non esiste più: perché è invecchiato e perché l’emigrazione stessa l’ha modificato. Quando ci occupiamo di migrazioni, tendiamo molto spesso a concentrarci sull’impatto nella società di arrivo, in cui chi migra può risultare cancellato e invisibilizzato – o, in alcuni casi, ipervisibilizzato come minaccia da agitare, a seconda del clima politico; quando Sayad racconta la vita dei migranti come una “doppia assenza”, ci ricorda anche, però, che chi migra si lascia alle spalle qualcosa, un vuoto che non si torna a riempire, una impronta nella terra, la forma usurata in un posto vacante sul divano. Col passare del tempo, migrante e luogo di emigrazione diventano, l’uno per l’altro, un arto fantasma: un’assenza manifesta in un corpo che si riorganizza per funzionare altrimenti, che torna ciclicamente a manifestare un dolore impalpabile ma reale.

Prendersi cura e tornare a casa

La cura è una misura fondamentale nella multitemporalità dei processi d’invecchiamento. Innanzitutto, perché la vecchiaia è considerata, per definizione, l’età in cui si diventa destinatari e ricettori di cura: non potersi permettere di assumere questo status corrisponde, in una certa maniera, a non poter invecchiare. Tuttavia, è importante ricordare, come evidenziato ne Il Manifesto della cura (The Care Collective, trad. it. Edizioni Alegre 2021) che nessuna età della vita e nessuna condizione di salute rendono, di per sé, gli individui esclusivamente ricettori o datori di cura, poiché la relazione tra le due cose è sempre contemporanea; ad esempio, molte persone anziane sono responsabili della cura dei bambini o, come vedremo in questo caso, di altri anziani.

Nel primo saggio del volume, Cati Coe delinea la complessità della relazione tra invecchiamento, migrazione e cura per le persone che si trovano ad operare lavoro di cura salariato; sebbene il suo lavoro di concentri sugli assistenti domestici ghanesi negli USA, molte delle sue considerazioni sono più che valide per la manodopera migrante nel lavoro domestico in generale: spesso persone non giovanissime, che non hanno diritto a invecchiare poiché, complice il ricatto della clandestinità o delle condizioni irregolari o precarie di soggiorno, continuano a essere datori e datrici di cura per persone che si trovano nelle condizioni materiali di avere “diritto a invecchiare”, cioè che si possono permettere assistenza e pensione. Gli assistenti domestici, poi, finiscono la loro vita tornando in Ghana, spesso perché non potrebbero permettersi economicamente una vecchiaia negli Stati Uniti. La prospettiva di non poter invecchiare in un paese in cui si trascorrono anni o decenni non influisce, forse, sulla possibilità di “sentirsi a casa” nel luogo di migrazione? Quante osservazioni sulla mancata ”integrazione” delle comunità migranti andrebbero riviste attraverso questa lente?

Il “ritorno”, che sia inteso come possibilità, prospettiva, preoccupazione, obiettivo finale o paura deve essere considerato una parte integrante del processo migratorio. “Tornare a casa” è forse la sensazione perennemente ricercata durante la vita intera di una persona che migra, sebbene più che di un luogo geografico – men che meno corrispondente a una “patria” – si tratti, appunto, di una sensazione: tornare a casa significa, per chi invecchia migrando, tornare ad un luogo in cui ci siano condizioni materiali e relazionali per ricevere cura, sebbene questo luogo spesso si riveli corrispondere più a una memoria cristallizzata di un tempo, antecedente alla migrazione.

Dall’altro lato, l’ansia di “tornare a casa” è un sottofondo costante per migranti più giovani coinvolti in reti affettive che rientrano, in maniera larga, nelle cosiddette “famiglie transnazionali”: l’invecchiamento o la malattia di genitori o altri membri anziani della famiglia è una preoccupazione costante nel momento in cui si è troppo distanti per elargire l’assistenza o il lavoro di cura necessari. Se guardiamo all’esperienza – inedita per i migranti con il privilegio della cittadinanza europea – dell’improvviso blocco della mobilità dovuto alla pandemia Covid-19, l’impossibilità di tornare a dare assistenza a genitori e familiari anziani è stata una delle maggiori preoccupazioni dei giovani migranti contemporanei nel contesto pandemico.

“Licenza di partire”: una questione di genere

Questo scenario apre una molteplicità di casi e questioni differenti, poiché le relazioni anagrafiche e quelle di cura sono, per definizione, attraversate tanto da reti di affettività quanto da relazioni di potere. Appartenere a una “famiglia transnazionale” implica spesso un grande senso di colpa che investe ulteriormente la vita della persona che migra, che spesso sente di aver tradito il suo luogo di appartenenza e lasciato indietro i familiari a cui non potrà elargire la cura necessaria. Questo sentimento non è, tuttavia, equamente distribuito fra ogni tipo di migrante, poiché la relazione di cura, anche se transnazionale, viene comunque vista come prerogativa delle donne. Sono le migranti, infatti, le figure che si sobbarcano principalmente le relazioni di cura a distanza – che coinvolgono la preoccupazione, la partecipazione da lontano all’organizzazione della vita familiare, la gestione delle persone che vengono pagate per adempiere la cura dei genitori rimasti a casa e, negli anni più recenti, una sempre maggior pervasività di lavoro emozionale portato avanti tramite telefonate, videochiamate, messaggi, chat e tutto ciò che, tramite la diffusione delle reti sociali, ha cambiato radicalmente il senso di relazione e appartenenza all’interno delle migrazioni.

Sono le donne, ancora, la cui migrazione è considerata tendenzialmente più colpevole e meno giustificabile, soprattutto quando non si svolge ai fini di ricongiungersi al marito. Sembra qui importante evocare un concetto chiave inserito da Loretta Baldassar nel penultimo saggio del volume: quello di “licenza di partire”. Secondo Baldassar, la qualità della vita di una persona migrante è influenzata, tra le altre cose, in maniera significativa anche da quanto questa si sia sentita capita, giustificata e appoggiata nella decisione di migrare da parte della propria comunità di partenza. Al contrario, chi parte contro il parere o l’opinione della propria comunità – come spesso succede a molte donne il cui destino, dalla nascita, era quello di prendersi cura dei membri più anziani della famiglia – non solo vive maggiormente il senso di colpa della migrazione, ma sente con molta più forza l’ansia del fallimento, la pressione a dover compiere quella che si definirebbe “una migrazione di successo”, senza la quale molte persone non hanno il coraggio di tornare a casa.

La migrazione come via di fuga dal destino ineluttabile di datrici di cura che era stato deciso per loro è tuttora un fattore determinante nella scelta migratoria di molte donne, incluse in società privilegiate neoliberali in cui la redistribuzione del lavoro affettivo tra membri della famiglia – e possibilmente all’interno di reti di cura più ampie, reciproche, non gerarchiche, non sessiste – è inesistente e dove, dall’altra parte, l’assistenza esterna per le persone anziane è un lusso per pochi, che porta a forme intensive di sfruttamento di forza-lavoro altamente ricattabile perché razzializzata o comunque straniera. Forse non ci soffermiamo abbastanza, negli studi come nella nostra riflessione politica, su questa dimensione di genere che investe il processo di decision making della migrazione, che coinvolge aspetti economici, aspettative proiettate, contesto culturale di provenienza. Altrettanto dovremmo soffermarci a riflettere, anche al di fuori delle famiglie tradizionali, su che tipo di relazione di cura sia necessario creare affinché chi deve o vuole migrare – il confine tra le due cose è spesso impossibile da tracciare – non senta di doverlo fare contro la propria comunità di appartenenza, in una opposizione tra chi resta e chi va che non giova, di certo, a territori per i quali l’emigrazione è sintomo di una realtà storica di subalternità e resistenze.

Sicuramente questo libro non fornisce risposte consolatorie alla paura del tempo che scorre che acceca la nostra contemporaneità; ci forza, però, a provare a guardare l’invecchiamento quanto più possibile a partire dalle relazioni. Relazioni che possono essere di potere – ricordiamo, come scrive Adeboye nel terzo saggio del volume, che l’anzianità può non corrispondere a un’età, ma a uno status, a una posizione di potere economico, autorevolezza intellettuale e intoccabilità sociale e che ci ricordano che di certo c’è tanto di criticabile anche nella tendenza gerontocratica che viviamo nel mondo del lavoro e della cultura di paesi come l’Italia. Relazioni che si dispiegano tra tempo e spazio, dimensione costantemente attraversate e incrociate dalle persone migrano, per le quali l’invecchiamento è un insieme di luoghi oltre che di età.

 Relazioni di cura, che non vanno idealizzate ma comprese nella loro complessità, strappate alla sfruttamento, alla coercizione, alla colpa, alla solitudine. Kin, s-famiglie, reti di dis-appartenenze transnazionali, affettività digitali, comunità di malattie e improduttività, per non essere più ossessionati dall’inventare nuovi modi per smettere di invecchiare ma chiedersi, invece, come creare le condizioni affinché sia possibile invecchiare insieme.