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Il perché e il come degli Studi Urbani

“Mappe e sentieri. Un’introduzione agli studi urbani critici”, edito da editpress, attraverso una corposa selezione di testi prova a definire un campo nel quale un numero crescente di studiosi e studiose si riconosce, quello degli studi urbani.

Per avere un’idea dello spazio riservato agli studi urbani critici nell’accademia italiana potremmo partire da un semplice esercizio. Digitando ‘studi urbani critici’, in italiano, attraverso il motore di ricerca di Google Scholar[1], non otteniamo quasi nulla. Ci sono alcune ricorrenze per “studi urbani’” incluso il riferimento a qualche dipartimento[2], programmi di dottorato, centri di ricerca, o laboratori universitari[3], e poco altro; se inseriamo poi l’aggettivazione “critico”, i risultati sono ancora più scarsi. Invece, se nella barra di ricerca scriviamo “Critical urban studies“, otteniamo oltre quattro milioni di ricorrenze, e ancora più numerose indicazioni per una varietà di direzioni ulteriori da perlustrare e possibili approfondimenti (“critical urban theory“, “- in geography“, “- new perspectives“, ecc.).

Eppure, una riflessione critica sulla città e i territori in Italia non manca. In realtà, seppure non registrato sotto questo nome, nel nostro Paese c’è qualche importante antecedente agli “studi urbani”, come questo stesso volume mette in luce, e una produzione scientifica che non difficilmente rientrerebbe in questa definizione, se alcuni (non trascurabili?) vincoli accademici non fossero tanto scoraggianti. Infatti, a differenza di altri contesti, gli studi urbani in Italia non sono (ancora, ci auguriamo) riconosciuti formalmente, mentre studiose e studiosi attivi in diversi ambiti disciplinari lavorano e si riconoscono in questo campo. Per cui prima di tutto è necessario chiarire perché questo peculiare campo di studi è così importante per tanti studiosi, tra cui chi qui scrive, anche indipendentemente e prima di una riflessione sulle spesso miopi logiche accademiche.

Perché gli studi urbani?

Per collocare gli studi urbani nel quadro della produzione della conoscenza dovremmo, almeno di sfuggita, ripercorrere la storia del pensiero occidentale, che si intreccia inevitabilmente con la storia delle discipline. È noto, infatti, come si sia passati da visioni del mondo più unitarie, in cui i fenomeni erano interpretati e ricondotti all’interno di vere e proprie cosmologie, e dove i diversi campi del sapere avevano un perimetro più ampio, allo studio e alla definizione di specifiche discipline. Queste avevano avuto i loro primordi già nel mondo greco antico, con ulteriori sviluppi in quello romano, fino a formalizzarsi con il passare del tempo, dando vita, nella tarda antichità e nel Medioevo, al “Trivio” e al “Quadrivio”: da un lato, quindi, Grammatica, Retorica e Dialettica; dall’altro, Aritmetica, Geometria, Musica e Astronomia – le così dette Arti Liberali che, seppure sotto spoglie diverse, proprio in questi ultimi anni sembrano riscuotere una nuova attenzione[4].

La progressiva specializzazione ha portato all’elaborazione di specifici linguaggi, spesso incapaci di dialogare tra loro: una sorta di Babele della conoscenza. Nonostante questo, in realtà, fino agli anni Trenta del XX secolo, in contesti quali Oxford e Cambridge, le discipline fondamentali erano poche e coprivano diversi campi: chi studiava matematica si occupava anche di filosofia, spesso di teologia, e conosceva il greco[5].

Questa tendenza alla specializzazione viene a volte fatta risalire all’Illuminismo, ma ha le sue radici già nella scuola di Aristotele, quando i discepoli s’incaricavano di occuparsi ciascuno di una singola disciplina tra quelle che il maestro (Aristotele stesso) aveva invece ricompreso in un sistema unitario del sapere.

Si può senz’altro sostenere che ormai da molti anni è maturata una riflessione critica nei confronti di un eccessivo specialismo, messo in discussione per diverse ragioni e sotto diversi punti di vista. Ciò che è per noi più rilevante può essere sintetizzato in due punti: innanzitutto la differenza fondamentale tra sapere disciplinare, specializzazione, e compartimentazione del sapere; in secondo luogo, la relazione tra definizione dei problemi e conoscenza.

Il primo punto è relativamente intuitivo e, nel quadro delle finalità di questo testo, è subordinato al secondo. Ciò che vogliamo sottolineare è che da una prospettiva limitata e parziale è molto difficile definire problemi che non siano limitati o parziali. Mentre intravedendo problemi più ampi, da tali circoscritte prospettive non li si riesce a definire e perciò neppure ad affrontare, né tantomeno sperare di risolvere.

Da diversi anni ormai, in Italia almeno dagli anni Sessanta-Settanta, alla tendenza alla specializzazione fa da contrappeso quella al dialogo interdisciplinare[6], in particolare su alcune tematiche. In questo modo emergono problemi che stanno stretti dentro una specifica disciplina, e ancor più che un dialogo interdisciplinare chiedono forme diverse di conoscenza. Tra queste senz’altro – e forse prima di tutte – l’ecologia […] che, tra le molte cose, insegna a considerare gli oggetti e i fenomeni nelle relazioni tra le parti più che le parti separatamente.

In ambiente accademico, la tendenza alla specializzazione ha portato all’articolazione tra discipline, che diventa artificiosa quando si traduce nei così detti settori “scientifico-disciplinari”: una deriva non esclusivamente italiana, ma che in Italia è debolmente criticata e ancor più limitatamente contrastata, mentre è utile ricordare l’esistenza di alcune importanti istituzioni estere che portano avanti un approccio sostanzialmente diverso da quello disciplinare dominante. Si pensi ad esempio all’École des Hautes Études[7], ma anche all’Exzellenzinitiative lanciata dal governo federale tedesco alcuni anni fa[8], dove grandi progetti interdisciplinari su temi specifici ma di largo respiro (comprendenti eventualmente anche diverse istituzioni di ricerca) sono stati destinatari di considerevoli finanziamenti pluriennali: in entrambi gli esempi riportati sono i temi che chiamano a raccolta i saperi, e non viceversa. Vale a dire, non è all’interno degli steccati disciplinari che si definiscono i temi e i progetti di ricerca ma, al contrario, si definiscono i temi per la loro rilevanza, a volte solo intuita e come ipotesi di lavoro, e poi vi si convogliano tutte le discipline che possono portarvi un contributo[9].

Questi esperimenti, che hanno in realtà alcune importanti somiglianze con forme del sapere e di produzione di conoscenza del passato, mostrano come e quanto sia necessario non solo per affrontare, ma anche per saper individuare e definire fenomeni complessi e i problemi che pongono, uno sguardo ampio e capace di dialogo tra diverse discipline, metodologie e linguaggi.

La città e l’urbano (à la Lefebvre, cioè quel fenomeno di cui la città è una delle forme o degli esiti possibili, storicamente e geograficamente determinata – Lefebvre 1972 [1968]), sono precisamente quel tipo di fenomeno (e anche di “oggetto”)[10] in cui le relazioni tra le parti possono essere, come in effetti sono, molto più, e anche qualcosa di molto diverso, delle parti considerate singolarmente, e solo assumendo una pluralità di prospettive, e uno sguardo più ampio, si può tentare di avvicinarvisi. Per cui la città e l’urbano sono il campo privilegiato per la sperimentazione inter- e trans-disciplinare, in cui il dialogo rigoroso tra diversi saperi, punti di vista, approcci, metodi e strumenti non nega lo specifico disciplinare, ma al contrario ne esalta le potenzialità.

In uno dei pochissimi lavori recentemente pubblicati in cui compare il termine “critico” – il Piccolo lessico critico di Gabriele Pasqui –, si spiega con gergo scacchistico che le voci contenute sono «mosse di apertura […] per alimentare una discussione […] sulle possibilità e sui limiti del discorso e del fare urbanistica” (Pasqui 2017, p. 2) e che si è scelto intenzionalmente di utilizzare il termine urbanistica, piuttosto che i vari altri possibili, perché questo definisce un «campo incerto», che «parla a molti e a diversi»: e che, viene da pensare, si avvicina agli studi urbani. Dunque, se l’urbanistica di Pasqui «parla a molti e a diversi», quello degli studi urbani è il campo che permette a molti e a diversi di parlare tra loro, di incontrarsi, e provare a costruire un discorso e anche un progetto in comune.

Il come degli studi urbani: l’orientamento critico e la sua origine “interna

Se è vero, come è vero, che gli studi urbani in Italia esistono e sono un campo praticato, nonostante la posizione di secondo piano rispetto alle più tradizionali discipline accademiche e il mancato riconoscimento, similmente non sono estranei orientamenti critici alle discipline che frequentiamo: esiste senz’altro una geografia critica, una storiografia critica, una sociologia critica, un’urbanistica critica, ciascuna con una propria origine e una propria motivazione, spesso interna alla disciplina. Resta perciò da chiarire cosa intendiamo per studi urbani critici.

Come appena accennato, la riflessione sugli studi urbani critici prende avvio ed è strettamente legata a quella sulle discipline, sulla necessità di una loro messa in discussione in una prospettiva di superamento di confini la cui utilità è solo parzialmente (se non debolmente) riferibile alla produzione e diffusione di conoscenza.

Gli studi urbani critici sembrano rappresentare il luogo d’incontro e di scambio di approcci spesso considerati lontani: quello analitico (ad es. della geografia, della sociologia, dell’antropologia), e quello normativo (ad es. dell’urbanistica, dell’economia politica, delle scienze dell’amministrazione), distanza almeno parzialmente superata dalla comune intenzione di intervenire nella realtà, e non solo di analizzarla.

Infatti, cosa distingue la pianificazione dalla geografia? L’urbanistica dalla sociologia urbana?

Se partiamo dal campo di interesse delle molte e diverse discipline che si occupano di città, questo è ovviamente condiviso[11]. Per cercare di capire il modo in cui ciascuna si è differenziata e poi strutturata come disciplina autonoma si fa spesso riferimento agli strumenti: ma – ad esempio – la mappa è uno strumento largamente condiviso. La distinzione più importante, e quella rispetto alla quale si sono costruiti dei veri e propri recinti, riguarda gli approcci e gli obiettivi: ad esempio, pianificazione e geografia, che condividono lo stesso oggetto e gli stessi strumenti (fanno entrambe ampio ricorso alle mappe), si distinguono perché la pianificazione è una disciplina “normativa”, mentre la geografia nasce e si sviluppa come disciplina “analitica”.

Orientamento critico come costruzione di un campo condiviso di produzione di conoscenza e di azione

Ora, l’interpretazione che proponiamo è che questa distinzione tenda ad affievolirsi (se non a scomparire), proprio nel momento in cui le discipline sviluppano un orientamento “critico”. Tale orientamento può essere inteso come preoccupazione a fornire non solo dati, evidenze e “spiegazioni” della realtà, ma anche strumenti (interpretativi ed eventualmente anche operativi), per intervenire in un contesto come attori politici, in vista di un cambiamento, che può essere immaginato come più o meno radicale – ma questo è un passaggio ulteriore.

Potremmo dire che sia proprio l’orientamento critico a chiedere e stimolare il confronto tra discipline e il superamento degli steccati disciplinari che caratterizza in modo specifico gli studi urbani.

Più specificamente possiamo osservare come questa attitudine critica ha spinto (e spinge) le discipline a ripensare al loro significato e alle loro finalità: le discipline analitiche oltre a studiare la realtà iniziano a “criticarla”, ossia a esprimere un giudizio, facendo quindi un passo meta-propositivo o meta-progettuale; le discipline normative iniziano ad interrogarsi sul ruolo che la loro azione ha svolto e svolge, iniziano quindi anche a riflettere su se stesse, a “criticarsi”.

Sosteniamo dunque che gli studi urbani critici siano il terreno sul quale si incontrano le diverse discipline, alcune (quelle analitiche) facendo un “passo avanti”, altre (quelle normative) facendo un “passo indietro” rispetto al loro orientamento all’azione e, tutte sviluppando la propensione all’auto-riflessività.

In sintesi, ci sembra che l’orientamento critico – e quindi il senso dell’aggettivazione proposta in riferimento agli studi urbani – possa esplicitarsi in diversi modi, momenti e ragioni e specificamente come:

– Critica, più o meno radicale, nei confronti della realtà;

– Nuovo orientamento meta-progettuale, o anche all’azione, da parte di discipline “analitiche”;

– Auto-critica rispetto al ruolo svolto nei processi reali da parte delle discipline “normative”;

– Critica interna rispetto al modo in cui una disciplina si (ri)configura in un certo periodo storico.

[…]

Estratto da: Barbara Pizzo, Giacomo Pozzi e Giuseppe Scandurra (a cura di), Mappe e sentieri. Un’introduzione agli studi urbani critici, editpress, (Territori 2), Firenze 2021, , pp. 7-14


[1] Non l’unico, ma forse il più utilizzato motore di ricerca che consente, con accesso libero, di individuare testi accademici e scientifici, attraverso parole chiave – rispetto ad es. a Scopus e Thomson ISI Web of Science (che sono a pagamento), Google Scholar sostiene di dare accesso a più siti web e fonti, e anche a una maggiore varietà di lingue.

[2] Quello del Politecnico di Milano: Architettura e Studi Urbani.

[3] Il programma di dottorato URBEUR – Studi Urbani di Milano Bicocca; il Laboratorio di Studi Urbani dell’Università di Ferrara e quello di Studi Urbani “Territori dell’Abitare” della Sapienza di Roma; il Centro di Studi Urbani dell’Università di Sassari; il Corso di Studi Urbani all’Università di Torino e quello di Studi Urbani Spazio e Comunità di Roma Tre.

[4] In varie università, specialmente nord-europee, si stanno infatti aprendo “nuovi” programmi di studio in Liberal Arts.

[5] Ma già nel 1939, Ivor Thomas notava: «In these days of specialization, the excellent custom which formerly prevailed at Oxford and Cambridge whereby men took honours both in classics and in mathematics has gone by the board» (Thomas 1939, p. vii). «In questo tempo di specializzazione, l’eccellente consuetudine che un tempo prevaleva a Oxford e Cambridge, per cui ci si laureava acquisendo specifiche competenze sia nei classici greci e latini che in matematica, è passata di moda».

[6] Sull’interdisciplinarità – cos’è, come viene concretamente praticata, cosa produce, quali sono le potenzialità e i limiti, è stato scritto moltissimo. Si vedano ad es. Cognetti, Fava, Grassi, Pizzo 2019; Strathern 2005, Van Leeuwen 2005. Per non dire del dibattito su inter-, multi- e trans-disciplinarità che ha occupato uno spazio di riflessione forse addirittura troppo ampio (cf. ad es. Steele 2016).

[7] La più nota è quella di Parigi, ma in realtà l’istituzione ha quattro sedi regionali e moltissimi centri di ricerca.

[8] Il lancio risale all’anno 2005-06. Cf. https://www.dfg.de/foerderung/programme/exzellenzinitiative/ (link visionato il 2 agosto 2021). In realtà anche questa iniziativa non è stata priva di ambiguità e di critiche, che riguardavano però lo squilibrio tra finanziamenti a essa riservati e quelli destinati alle università e ai corsi più tradizionali – e non l’approccio alla ricerca che vi era proposto e sostenuto.

[9] Per un approfondimento di questi temi si rimanda a Lepenies 2000.

[10] Per quanto la definizione della città come “oggetto” di ricerca sia contesa – Lefebvre 1973; Leitner, Sheppard 2003.

[11] Peraltro, è proprio su questa base che Faludi distinguerà le “vere teorie” della pianificazione da quelle che non lo sono, cioè quelle che non “spiegano” la pianificazione come disciplina “autonoma” (cos’è, come opera, ecc.). Le teorie sostantive, quelle che partono dall’oggetto (la città, il territorio), non sono “vere teorie” (della pianificazione) proprio perché lo stesso oggetto è condiviso da molte altre discipline – mentre lo sono le teorie “procedurali” (Faludi 1973; si veda anche Faludi 1998).