ITALIA
Il femminismo neoliberale e performativo serve solo a se stesso
L’articolo di Lucarelli in cui ha pubblicato la chat “fascistelle” ha fatto partire la caccia alle streghe. La questione non sono semplicemente i social, ma un femminismo neoliberale e performativo che parte da sé per parlare solo di sé
La pubblicazione delle chat di Vagnoli&co da parte di Lucarelli in un articolo sul “Fatto Quotidiano” ha sollevato infuriate discussioni. Bisogna mettere subito le cose in chiaro: questo è uno scontro di audience, click, followers e case editrici e ha poco a che fare con i temi del femminismo.
L’articolo di Lucarelli non è un articolo, è un regolamento di conti. Purtroppo non è la prima volta che dei giornali italiani pubblicano chat con il solo scopo di ridicolizzare e annientare chi è al centro di un’inchiesta. Uno dei casi più emblematici sono state le chat del centro sociale Askatasuna spiattellate da La Stampa per settimane in prima pagina con illazioni e dietrologie sulle singole persone del collettivo.
Ma si fa lo stesso nelle storie di femminicidi di giovani donne, raccontate come podcast di true crime dai giornali, con chat personali assolutamente prive di interesse pubblicate ovunque.
Quindi, no, non è Lucarelli ad aver iniziato questa triste metodologia di lavoro del giornalismo italiano e purtroppo non sarà nemmeno l’ultima. È certo, però, che con quell’articolo Lucarelli si è riposizionata, e non credo sia un caso che nei giorni seguenti sia uscita con una puntata del suo podcast sulla Palestina e ora lancia un nuovo progetto di podcast di inchiesta prodotto dalla sua società Boutade Media. Un’ottima strategia di business.
E poi arriviamo alla chat “fascistelle”. Tutte abbiamo chat private imbarazzanti dove commentiamo con le nostre amiche e amici gli eventi del mondo, da San Remo alla guerra. E gli insulti nelle chat private sono parte di un gioco, un modo per ridere, e un modo per togliere potere alla persona che insultiamo. Quindi vi prego basta con questi articoli perbenisti sul problema che sia stato insultato Mattarella!
Eppure in molte abbiamo smesso di usare ciucciacazzi come un insulto da diverso tempo, soprattutto da quando frequentiamo spazi femministi.
Perché ciucciare il cazzo è una pratica sessuale per nulla umiliante, così come prenderlo in culo. Dal nostro modo di insultarci passa molto di noi stesse, soprattutto in un mondo aggressivo come il nostro. Quindi vale la pena aprire una discussione su come insultarci per togliere potere a chi ne ha di più, non ha chi ne ha di meno ed eliminare dal nostro vocabolario quotidiano insulti sessisti, razzisti, antisemiti e abilisti. Soprattutto se poi scriviamo di linguaggio.
Ora è partita una vera e propria caccia alle streghe contro Vagnoli, che viene rincorsa da Striscia la notizia mentre è sommersa dagli insulti online. E Fonte ha deciso di chiudere i social. Insomma, l’articolo-regolamento di conti ha centrato il bersaglio e ha fatto partire una valanga che, però, rischia di travolgere anche chi le istanze femministe e transfemministe le porta avanti tutti i giorni e dal basso, dai collettivi studenteschi nelle scuole ai centri antiviolenza, dalle assemblee di Non una di meno ai gruppi di supporto per le persone che vogliono abortire.

Differenze tra il femminismo neoliberale e un transfemminismo popolare
Il nostro mondo e le nostre relazioni, oggi, si svolgono – anche ma non solo – in spazi digitali e mediatizzati, per questo bisogna prendere in considerazioni le relazioni di potere che in questi spazi intercorrono. I social media non sono luoghi neutri, ma spazi digitali privati la cui forma è definita dagli algoritmi delle grandi corporation. E se in un primo periodo nuove voci vi hanno trovato spazio, oggi gli e le influencer più importanti si comportano come dei veri e propri gatekeeper degli spazi digitali in lotta tra loro per dati, audience, visibilità e attenzione.
Tutta questa storia di chat, call out, messaggi privati diventati pubblici, sotterfugi e velate minacce ci invita anche a riflettere su quali siano gli spazi e le pratiche femministe e su come si siano trasformate nel corso di questi anni.
Il problema non è semplicemente utilizzare i social o abbandonarli, ma come portiamo avanti le lotte femministe e transfemministe, come costruiamo relazioni tra di noi, come facciamo rete e ci supportiamo a partire dalle nostre differenze fuori e dentro gli spazi digitali.
Il femminismo, in tutte le sue pluralità, ha sempre dovuto combattere contro il silenziamento, la cooptazione delle istituzioni liberali, delle grandi aziende private e dell’apparato mediatico e culturale. La burocrazia delle grandi organizzazioni femminili e femministe è stata largamente cooptata dalle istituzioni liberali, e oggi si trova incapace di rispondere all’attacco della destra reazionaria anche per questo. C’è chi poi ha intravisto nel femminismo un’ottima fetta di mercato, brand di donne per le donne, frasi di self-care per le tazze e le shopper, gadget che parlano di libertà ed emancipazione. E un certo tipo di femminismo si è decisamente prestato a questa marketizzazione di pratiche e contenuti.
Per un certo tipo di femminismo neoliberale e performativo – che trova spazio sui social ma non solo – il grande ciclo di lotte femministe e transfemministe che stiamo attraversando è nato con il Me too, un momento in cui grandi star di Hollywood hanno denunciato le molestie subite nel corso della propria carriera. Un evento mediatico certamente importante che ha dato grande risonanza al tema delle molestie e violenze nel mondo del lavoro. Donne bianche, ricche, belle e statunitensi.

Eppure, le piazze femministe erano già esplose nel 2016, un anno prima del Me too, con le mobilitazioni delle donne polacche contro le restrizioni del diritto all’aborto volute dal governo guidato dal partito Diritto e Giustizia (PiS) di destra reazionario, e poi le piazze argentine e di tutta l’America latina contro le brutali violenze machiste e patriarcali. In Italia questa grande mobilitazione è ricaduta nella prima manifestazione di Non una di meno, dopo il femminicidio efferato di Sara Di Pietroantonio. Questa differenza di genealogie spiega già molto.
Dal 2016, abbiamo assistito a un vero e proprio ciclo di lotte femministe e transfemministe trainate dalle piazze latino-americane e da tutto il Sud globale per il diritto all’aborto, contro la violenza patriarcale e per i diritti delle persone trans.
Un femminismo e transfemminismo popolare che ha trovato nello sciopero dell’8 marzo una delle pratiche più importanti per dare visibilità al tema del lavoro produttivo e riproduttivo svolto dalle donne dentro e fuori le case.
Di tutto questo è difficile trovare traccia nei contenuti del femminismo neoliberale e performativo. Un femminismo bianco, incentrato su storie individuali e racconti autobiografici. È un femminismo che parte da sé per parlare solo di se stesso e non incrociare le storie e i vissuti delle altrə. È un femminismo spesso intrecciato con un piano lavorativo, di cui però i confini sono poco chiari e – certo non bisogna negarlo – è in grado di portare nel dibattito pubblico competenza e conoscenza di questioni rilevanti per alcune questioni femministe. Ma difficilmente tratta di decolonialismo o questioni di classe.
Non tutti i contenuti che troviamo sui social sono neoliberali, anzi, ma spesso le creator possono cadere nelle trappole performative e individualiste degli algoritmi, nella rincorsa alla visibilità a suon di call-out personali, nella ricerca di spazio per la propria firma, nella sponsorizzazioni ambigue per necessità. Le pratiche femministe e transfemministe devono, invece, costruire spazi di relazione, di incontro, dove conoscersi, scambiarsi idee, parole, pratiche, e questo può avvenire certamente anche online. Allo stesso tempo il femminismo e il transfemminismo hanno bisogno della relazione tra corpi, della loro interconnessione e del movimento.
Questa è una delle sfide più difficili: per un femminismo e transfemminismo plurale, differenziato, intersezionale, popolare, decoloniale e antirazzista è necessario tenere aperti spazi di relazione, rendere evidenti le linee di potere, prendersi il tempo e la cura necessaria per stare insieme e allo stesso tempo combattere la società patriarcale nella quale siamo immerse che ci toglie quel tempo e spazio di cui abbiamo bisogno.
L’attacco delle destre reazionarie globali è fortissimo e intende ristabilire regole patriarcali all’altezza dei tempi, dalle relazioni di coppia agli spazi digitali. Abbiamo bisogno di conoscerci e riconoscerci, di alleanze ampie e salde, di trovare nuovi strumenti di lotta, di abbandonare l’individualismo performativo e creare spazi solidali e di mutuo aiuto. Abbiamo bisogno di corpi in lotta e in relazione.
Tutte le immagini sono di Freepik
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