MONDO

I Rohingya e l’assordante silenzio di Aung San Suu Kyi

La strage della minoranza musulmana in un Myanmar stretta tra la paladina della democrazia sostenuta dagli USA e la giunta militare a trazione cinese.

I FATTI, O QUEL POCO CHE SAPPIAMO

L’accesso alla regione del Rakhine, zona costiera nel nord-ovest del Myanmar, è tuttora impedito a giornalisti (ne hanno fatto entrare qualcuno ma scortato, in determinati luoghi decisi dalle autorità e comunque sotto gli occhi vigili dei militari birmani). Stesso divieto per gli operatori umanitari. Al momento, quindi, non ci sono fonti indipendenti di informazione su quello che sta succedendo nelle aree dove sono in corso le ostilità. Le notizie trapelate vengono da quel poco che la stampa internazionale è riuscita a far ammettere al governo birmano e dai racconti delle persone che hanno oltrepassato il confine con il Bangladesh. L’unica fonte certa sono le immagini satellitari, dalle quali sono distinguibili le colonne di fumo sopra i villaggi in fiamme.

Intorno al 25 agosto l’organizzazione indipendentista Arakan Rohingya Salvation Army ha lanciato un attacco in più villaggi contro posti di polizia. Questo attacco ha scatenato la reazione dell’esercito birmano, che a sua volta ha causato l’esodo di massa verso il Bangladesh. Intorno al 5 settembre un gruppo di giornalisti viene autorizzato a essere scortato dal governo nelle aree della rivolta. Di fronte alla polizia armata che ascoltava ogni parola detta dagli abitanti ai giornalisti, gli “intervistati” hanno dichiarato che a bruciare i villaggi erano stati gli stessi combattenti Rohingya musulmani (c’è anche una minoranza Rohingya buddista che vive nella regione). Una versione che cozza un po’ contro la logica comune, i Rohingya al confine dicono invece che sono stati gli estremisti buddisti (tra cui alcuni monaci) con il beneplacito della polizia birmana a dare fuoco ai villaggi. In effetti, sebbene sia possibile ipotizzare che i ribelli abbiano commesso atrocità, la versione che una minoranza si bruci da sola i propri villaggi (Human Rights Watch ne ha contati 214 in fiamme dalle immagini satellitari) è chiaro che non torna. Eppure è proprio questo che le autorità birmane continuano a sostenere. In questi giorni, al confine si parla di circa 430mila persone, su un totale di un milione e 100mila individui di etnia Rohingya che si stima vivessero nello stato del Rakhine. Impossibile conoscere con esattezza il numero di coloro che sono rimasti vittime della rappresaglia dell’esercito birmano e di quanti non ce l’hanno fatta a raggiungere il confine. Probabilmente non lo sapremo mai.

I PRIMI SEGNALI

Guardando indietro, che la tensione stesse in qualche modo salendo, si era capito quando a inizio agosto l’ufficio delle Nazioni Unite del Paese aveva allertato gli operatori umanitari di un crescente malcontento da parte dei buddisti dello Stato del Rakhine sull’operato delle organizzazioni umanitarie. Questi argomenti saranno in seguito ripresi alla fine di agosto, come pretesto per non far entrare nessun operatore umanitario. Infatti, i buddisti del Rakhine hanno cominciato ad accusare le ONG di complicità con i terroristi (si vede che ultimamente quest’argomento va di moda un po ovunque): la prova sarebbe una foto dove si vede un pacco di biscotti con l’etichetta del World Food Program, scattata dentro un presunto nascondiglio dei terroristi.

DALL’ALTRA PARTE DEL CONFINE, IN BANGLADESH

Le autorità bengalesi stanno gestendo come possono la situazione. Sono accorse molte organizzazioni umanitarie, anche vista l’impossibilità di entrare in Myanmar. Per il momento c’è una situazione abbastanza confusa, le autorità bengalesi hanno designato un’area di circa 8mila ettari per l’allestimento di un campo profughi, ne hanno affidato la gestione a varie agenzie delle Nazioni Unite e stanno procedendo alla designazione di altri luoghi. Il Bangladesh è un paese di circa 170 milioni di persone, poverissimo, che a inizio agosto ha anche subito delle pesanti inondazioni che hanno fatto 150 morti e lasciato il segno nella vita di quasi sei milioni di bengalesi, tra chi ha perso la casa o i propri mezzi di sussistenza.

È innegabile che un esodo inaspettato di queste dimensioni e di questa intensità metterebbe a dura prova anche il più efficiente schema di aiuto umanitario. Chissà cosa sarebbe successo da noi, se in meno di un mese 430mila avessero passato la nostra frontiera e si fossero ammassate lungo le strade limitrofe, in cerca di tutto, cibo, riparo, vestiti, conforto. Chissà cosa avrebbero detto i vari Salvini & co….

IL SILENZIO DEL PREMIO NOBEL

In questa situazione, un altro tassello molto importante è stato l’atteggiamento del Primo Ministro birmano e premio Nobel Aung San Su Kyi. Dopo dieci lunghi giorni di silenzio, l’esponente politico ha finalmente preso parola rilasciando una dichiarazione in cui addossava le colpe dell’esodo alla fake information che i terroristi avevano messo in circolo. A questo punto, il coro di proteste si è levato ancora più forte, dato che la mancanza di informazioni è una diretta conseguenza della scelta del governo, di cui Aung è a capo, che ha impedito a giornalisti e operatori umanitari di accedere all’area.

Aaung San Su Kyi viene insignita del Premio Nobel nel 1991, politica birmana, fonda il proprio partito, la National League for Democracy (NDL), nel 1988 e partecipa alle elezioni nel 1990. Le vince, ma la giunta militare al potere le invalida nella pratica, rifiutandosi di consegnarle il potere. Da quel momento e fino alla sua liberazione, nel 2015, Aaung trascorre più di 15 anni agli arresti domiciliari, costretta dalla giunta militare. Il partito di Aaung ha sempre goduto dellappoggio delle potenze occidentali, Stati Uniti in testa, interessate a un cambio di orientamento politico rispetto alla giunta militare, strettamente legata alla Cina e che privilegia gli interessi cinesi nelle proprie scelte di politica estera e economica.

In queste settimane, la voce più forte contro la Premio Nobel è stata quella di un altro premio Nobel, il sudafricano Desmond Tutu che ha tuonato che se il costo per ottenere la più alta carica politica birmana è il silenzio, il prezzo è decisamente troppo alto. C’è chi ha anche lanciato una petizione per ritirarle il premio Nobel, che ha raccolto 300mila firme in pochi giorni. Nonostante ciò, l’istituzione norvegese che consegna i Nobel ha già chiarito che non esistono procedure né casi per ritirare il premio.

L’opinione pubblica mondiale è divisa sulle ragioni di un silenzio così assordante di Aung. Da un lato, c’è chi sostiene che lei sia per la democrazia in Myanmar, ma appartiene alla maggioranza buddista: sarebbe quindi tutto sommato poco interessata alla questione dei Rohingya. Dall’latro, c’è chi afferma che Aung non ha modo di parlare di questo tema e che se lo facesse metterebbe a rischio ciò che di buono ha costruito, con difficoltà, fino ad ora. Sebbene risulti difficile pensare che Aung sia veramente razzista, al di là delle sue responsabilità individuali è il caso di concentrare l’attenzione sulla superficialità del “processo di apertura” della Birmania alla democrazia, iniziato nel 2015. In effetti, malgrado l’elezione di Aung, larghe quote di potere sono rimaste ben salde nelle mani dei militari, come lo erano prima delle elezioni. E questo va al di là dell’interpretazione dei media occidentali della situazione birmana, propensa a dare per assodato un passaggio a un regime rispettoso dei diritti umani. Sebbene sotto la crescente pressione internazionale i militari birmani abbiano acconsentito a celebrare in Myanmar “elezioni libere”, permettendo ad Aung di candidarsi, vincere e diventare Primo Ministro, ciò potrebbe non aver significato la cessione di (almeno un po’ di) potere.

Dunque, sebbene è difficile credere che Aung abbia il potere di fermare il massacro in atto e posto che in Myanmar il livello politico e militare è ancora controllato dai capi dell’esercito, non si può negare che, comunque, la sua figura di eroina democratica ben voluta dagli Stati Uniti cozza contro le immagini che ci vengono dal confine con il Bangladesh, di una minoranza disperata e perseguitata. E che la dichiarazione sulle fake information, definizione inflazionata da Trump, non depone certo a suo favore.