EUROPA

I nuovi guardiani dell’Europa

Le responsabilità politiche dei naufragi nell’era degli accordi con la Libia.

Negli ultimi mesi la diminuzione degli sbarchi dei migranti sulle coste italiane è stato in molti casi accolto da istituzioni e media come un “successo” della politica internazionale italiana. Un “successo” per chi pensava che bastasse sedersi al tavolo delle trattative con il premier libico Fayez Al Serraj per ostacolare e frenare il transito di persone in fuga da guerre civili e dittature militari o mosse dal desiderio di un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Un “successo” che in realtà rivela una chiara dichiarazione di guerra all’umano, traducibile esclusivamente in termini di complicità criminale. Mentre l’Europa irrobustisce la sua fortezza e si compiace della diminuzione del transito dei migranti nel suo territorio, migliaia di uomini e donne vengono trattenuti nei lager libici – siano essi prigioni governative o centri gestiti da milizie ribelli e bande criminali – dove sono sottoposti a torture e lavori forzati, soggetti a ricattabilità economica attraverso l’estorsione di denaro in cambio di una promessa libertà di attraversamento del confine. Non mancano episodi come quello del 6 novembre: un naufragio, ma ancor più il paradigma di scelte politiche omicide e della collaborazione con qualunque forza governativa che possa essere utile a supportare il progetto europeo di repressione e sfinimento dei migranti.

L’accordo Italia-Libia, stipulato con il silenzio-assenso dell’Unione Europea, prevede la cooperazione a sostegno delle unità militari o guardia costiera libiche impegnate nel controllo dei flussi migratori, in parallelo con l’apertura di centri di detenzione che saranno supportati (e legittimati!) dalle principali agenzie internazionali. Varie sono state le perplessità sollevate su questo accordo: anzitutto, esso è stato stipulato con il governo di unità nazionale guidato da Al-Serraj, riconosciuto dall’Unione Europea ma che, in realtà, detiene il controllo su una porzione limitata di territorio. In secondo luogo, la Libia non può essere definita Paese sicuro, in quanto non firmataria di alcuna convenzione internazionale per i diritti dell’uomo. Infine, la mancanza di un effettivo governo territoriale ha dato luogo a una situazione di instabilità nella quale è difficile distinguere nettamente tra le forze ribelli, le bande criminali e le milizie ufficiali, che in alcuni casi accertati si mostrano colluse con i cosiddetti “trafficanti”.

L’accordo con la Libia è l’ennesima tappa di una strategia geopolitica europea che prende il nome di esternalizzazione delle frontiere, di cui i passaggi più importanti sono stati il Processo di Karthoum (2014) e la Conferenza de La Valletta a Malta (2015). In particolare attraverso il primo, in prosecuzione della politica avviata con il Processo di Rabat e gli accordi di Cotonou, i governi europei affidavano a Paesi del Sud del mondo, in cambio di aiuti allo sviluppo, il controllo delle frontiere allo scopo di limitare i flussi di migranti attraverso respingimenti o espulsioni collettive. In seguito alla Conferenza de La Valletta, che prevedeva un fondo di 1.8 miliardi di euro in cooperazione allo sviluppo in cambio del controllo delle frontiere e delle missioni di difesa contro i trafficanti, l’allora Presidente del Consiglio Matteo Renzi propose alle istituzioni europee di accettare il Migration Compact, un piano in chiave italiana che ricalcava il tanto criticato patto UE-Turchia, questa volta con i governi africani.

Gli accordi politici con le più feroci dittature si presentano come risultato della volontà europea di subappaltare la gestione dei flussi migratori a Paesi terzi, senza veramente considerare le disposizioni di tali governi in materia di diritti umani. Il nuovo accordo con la Libia si inserisce nella scia della collaboraziona avviata agli inizi del 2000 con l’allora governo del Colonnello Gheddafi, l’ultimo dei quali portò a una serie di violazioni dei diritti che costò all’Italia una condanna alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ciò che appare in maniera evidente e assume i tratti di una dinamica inquietante è l’interesse dell’Italia a intrattenere relazioni economiche con questi Paesi dittatoriali. Nei mesi scorsi, il Ministro degli Interni, Marco Minniti, ha incontrato a più riprese il leader del governo di Tripoli e i sindaci delle città interessate dal transito dei migranti, dichiarando di voler stanziare dei fondi per lo sviluppo del Paese. Tali investimenti economici convergono pericolosamente con le operazioni di repressione dei movimenti migratori e legittimano gli Stati africani sul piano politico internazionale, trasformandoli in attori fondamentali nel controllo dei confini. L’aspetto che suscita maggiore preoccupazione è inoltre la sostanziale opacità di questi accordi che nella loro informalità oltrepassano il controllo e la discussione parlamentare, svuotando dunque di senso alcuni dei principi cardine delle democrazie liberali. Nel caso specifico degli accordi con i “poteri” libici possiamo osservare come i dispositivi di repressione, in continuo aggiustamento, siano parte di una volontà più ampia di governo della popolazione con ogni mezzo, persino l’agire in deroga ai propri regolamenti e ai principi della democrazia liberale. Una volta definito il ruolo della Libia nelle operazioni di controllo del confine marittimo, è stato il turno delle ONG coinvolte nelle operazioni di ricerca e salvataggio. Attraverso l’imposizione del “codice di condotta”, sempre ad opera del Ministro Minniti, è stata ostacolata la loro presenza ed efficacia nelle acque del Mediterraneo centrale.

Questo sistema di gestione dell’umanità migrante ha mostrato esplicitamente il suo volto criminale. Nelle ultime settimane due episodi tragici hanno messo nuovamente in luce non solo l’inefficienza del meccanismo d’esternalizzazione delle frontiere, ma anche il suo sottinteso scopo repressivo della possibilità di mobilità delle persone, inteso non come diritto ma come atto da ostacolare anche a costo della vita stessa di coloro che migrano.

Alla fine di ottobre, una nave della Guardia Costiera Libica consegna un gruppo di migranti alla Marina Militare Italiana. Quest’ultima non può in nessun modo riportarli sul suolo libico perché questo costituirebbe una violazione dei trattati internazionali di non respingimento che vietano la consegna alle autorità di un Paese non considerato luogo sicuro, in quanto non firmatario della Convenzione di Ginevra. I militari italiani consegnano quindi i migranti a Sos Mediterranée che, avendo il medesimo obbligo, li trasferisce in Sicilia.

Circa una settimana dopo, precisamente il 6 novembre, un episodio simile, corredato da tragiche morti, ottiene più risonanza mediatica: Sea Watch (ONG tedesca coinvolta nella Search & Rescue) intercetta un gommone in avaria ed entra in una sorta di strano conflitto con una nave della Guardia Costiera Libica. La tensione in mare è così pressante che le imbarcazioni della Sea Watch si allontanano dal luogo e un elicottero militare italiano chiede “per favore” al personale della Guardia Costiera libica – sì, gli stessi a cui diamo potere con l’accordo sopracitato – di collaborare con la Sea Watch. Un gruppo di migranti tratti in salvo dai libici, e destinati dunque a ritornare a Tripoli, si lancia oltre le murate della nave per raggiungere i gommoni di Sea Watch che avrebbero invece significato l’entrata in Europa. La Guardia Costiera di Al-Serraj non ascolta la richiesta dell’elicottero italiano: non spegne i motori ed anzi riparte velocemente verso la costa libica provocando vari morti in mare e mantenendo 42 persone a bordo, alcuni dei quali con legami familiari con le persone a bordo delle imbarcazioni ONG.

Gli episodi citati mostrano un meccanismo sottile che integra la logica stessa dell’esternalizzazione delle frontiere: dare in appalto la repressione dei movimenti migratori alle milizie libiche che non sono vincolate dalle stesse convenzioni a cui sono, o almeno sarebbero, legate militari e polizia italiani, significa di fatto far fare a terzi ciò che a noi non è consentito fare. Le scienze sociali hanno inquadrato di recente una dinamica molto simile, che viene definita “extraterritorializzazione del controllo”, cioè quella estensione del territorio controllato che oltrepassa i limiti della giurisdizione nazionale evitando così gli obblighi in termini di diritti umani per migranti e richiedenti asilo. In poche parole, le operazioni condotte dalla Guardia Costiera libica avviene sotto l’egida della Marina Italiana, la quale si sottrae dall’esplicita violazione delle Convenzioni internazionali, delegandole, di fatto, ai libici. Ciò appare con chiarezza nell’episodio in cui i migranti vengono consegnati alla Marina Militare Italiana che, sulla base degli obblighi internazionali, non può agire come la controparte libica ed è costretta a indirizzarli sulla nave di una ONG. Questo paradossale intreccio di sovranità crea anche degli effetti perversi, come reso evidente dall’episodio del salvataggio conteso: nel mezzo un gommone in avaria, ai lati due differenti squadre di salvataggio, l’una rappresenta l’inferno libico, l’altra l’Europa sognata.

Nel cielo sopra il Mediterraneo la presenza di un elicottero italiano mostra i paradossi e le contraddizioni delle scelte politiche europee: i militari dal mezzo si rivolgono alla Guardia Costiera libica, che sta picchiando con corde e mazze le persone che tentano la fuga, implorando di spegnere i motori e collaborare con la Sea Watch. Un uomo è appeso a una cima sul lato destro della nave. A quel punto i libici partono a tutta velocità trascinandolo nell’abisso dell’annegamento.

La Guardia Costiera libica non sarà mai un interlocutore politico ragionevole, ne sarà mai in grado effettivamente di gestire il flusso di migranti. La Libia risponde esclusivamente al tentativo dell’Italia di demandare ad altri la responsabilità dei respingimenti collettivi e del controllo dei confini. Il tutto viene giustificato dalla creazione di un immaginario di terrore proiettato sui migranti e da prassi differenziali e selettive nella possibilità d’accesso allo spazio europeo. Le pratiche di restrizione della mobilità dei migranti attraverso la negazione di politiche d’accoglienza adeguate e la mancanza di percorsi sicuri per la salvaguardia dei diritti sono la realizzazione di agende politiche di stampo securitario.

Nel prossimo futuro altre persone si tufferanno in mare da una motovedetta libica per raggiungere un gommone europeo, altri padri e mariti appesi a una cima saranno trasformati in cadaveri annegati nel Mediterraneo, altri elicotteri italiani chiederanno a quei criminali, a cui il loro stesso governo ha dato potere e soldi, di collaborare con l’ONG per salvare delle vite umane alla deriva. Accadrà qualcosa di diverso dall’ennesima strage?