cult

CULT

Home Damn Home

Inizia oggi a Bologna (fino al 10 marzo) “Atlas of Transitions Biennale” che per dieci giorni rifletterà sull’immaginario delle migrazioni con un fitto programma di performance artistiche, interventi nella città, incontri e processi partecipativi. Tema di quest’anno è la “casa”: luogo proprietario e securitario per eccellenza, continuamente messo alla prova dal diritto di fuga

Non può certo essere casuale che quando si parla di migrazioni si finisca ben presto a parlare di “case”. E non è solo il salviniano “aiutiamoli a casa loro” – preludio in realtà ad ammazzarli in mare – ma anche alla consunta metafora del “… se venissero a casa tua” o del “non sono mica a casa loro”. La casa è lo spazio dove vigono delle regole ben precise, di cui il responsabile e l’estensore è una figura sola: il padrone (di solito maschio e bianco). Lo dice anche la celebre scritta che campeggia da decenni nel grande campo di Pontida dove la Lega celebra i suoi raduni (e che generazioni di attivisti bergamaschi hanno vandalizzato in ogni modo): “padroni a casa nostra”. Non si può essere più chiari di così: la casa è lo spazio dove c’è il padrone. E se non bastasse il senso comune razzista, potremmo rivolgerci alla psicoanalisi o alle statistiche dei reati per arrenderci a un’evidenza lampante: che la casa è in assoluto il luogo più pericoloso e foriero di violenze che esiste nella società. Basta varcare le soglia di casa perché la possibilità di subire violenze o molestie crolli drasticamente.

È allora tanto più interessante assumere questo sguardo obliquo che parta dal concetto di casa – la home – per riflettere di immaginari migranti come fa la serie di iniziative che fa capo a Atlas of Transitions Biennale che dopo il successo della scorsa edizione incentrata sulla città, torna a Bologna dall’1 al 10 marzo.

Promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione con Cantieri Meticci e Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia dell’Università di Bologna (ma con un mare di collaborazioni con realtà politiche ed associative del territorio, tra cui Centro delle Donne | Biblioteca Italiana delle Donna, Associazione Ya Basta! Bologna, Làbas, TPO e moltissime altre), questo festival internazionale di arti, performance (ma anche tanta politica) curato da Piersandra Di Matteo, prova a fare ciò che per l’atmosfera ideologico-politica italiana attuale sembrerebbe essere impossibile: riflettere di migrazioni senza cedere all’ipoteca securitaria e poliziesca che da anni incombe su questo tema. Ma anzi ribaltando questo immaginario nella direzione più avanzata possibile.

La casa “propria” allora è quella dove le donne subiscono mutilazioni genitali, come si vede in Fatou t’as tout fait della coreografa maliana Fatoumata Bagayoko (che sarà ospite venerdì 8 e domenica 10 al DAMSLab), o quella dove viene sfruttato il lavoro “di cura” di molte donne dell’Est Europa, come si vede nella docu-performance Home Is Where I Stand dell’artista estone Kristina Norman – i cui materiali, le riflessioni e le riprese filmiche verranno discusse in un incontro pubblico domenica 3 marzo, in dialogo con le donne coinvolte nel percorso artistico, e Sabrina Marchetti, sociologa dei processi culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ma gli spazi domestici sono anche al centro di Samedi Détente, il nome di uno spettacolo radiofonico che da bambina ascoltava l’artista e coreografa Dorothée Munyaneza a Kigali, poco prima che scoppiasse uno dei più grandi genocidi della storia recente, quello del Ruanda (lo spettacolo sarà presentato in anteprima nazionale a Teatri di Vita, il 3 marzo). Così come la negoziazione degli spazi interdetti, preclusi, in una costante dialettica tra pubblico e privato, corporeità e materia organica, sono indagati dalla coreografa ivoriana Nadia Beugré in Quartiers Libres (anche questo in anteprima nazionale il 2 e 3 marzo al DAMSLab).

E anche se il programma di incontri, eventi e iniziativa sarà densissimo per tutti i 10 giorni del festival (il programma è scaricabile qui), un posto di primo piano ce l’avrà senz’altro un lavoro che porterà a Bologna l’artista e attivista cubana Tania Bruguera, che da anni lavora sul tema delle migrazioni camminando sul sottile filo che separa la politica e la performance artistica. Tra i diversi interventi che farà a Bologna (e di cui parleremo in un prossimo articolo), Brugera porterà Referendum, una performance – già sperimentata in alcune città del mondo tra cui New York, Toronto e San Francisco – della durata di 10 giorni, che vede l’attivazione di una sorta campagna referendaria urbana rivolta agli abitanti bolognesi. Simulando la forma del referendum, i cittadini sono invitati a esprimere il proprio voto su una questione riguardante le migrazioni, nata da un dibattito pubblico che ha coinvolto realtà del territorio, attivisti, operatori impegnati nell’accoglienza e cittadini, attraverso tre incontri assembleari che si sono svolti nel mese di gennaio e che hanno condotto, dopo un intenso dibattito, alla formulazione del seguente quesito referendario: «I confini uccidono. Dovremmo abolire i confini?». Sembrerebbe scontato, in un ambiente che si penserebbe “amico” e vicino a posizioni progressiste sulle migrazioni, e invece non lo è. A Toronto vinsero addirittura i “no” per una manciata di voti (2686 contro 2667). E tutto sommato ci sta, dato che si sta parlando di un gioco. Ma forse non lo sono diventate anche le nostre competizioni elettorali? Forse il senso della performance di Tania Bruguera è anche questo e vuole esprimere la ritualità vuota di una performance elettorale. Segno che per una democrazia radicale che ponga il problema del diritto alla migrazione avremo bisogno di molto, molto altro…