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Gli orizzonti ambigui di Animal Crossing

Animal Crossing: New Horizons è il nuovo videogioco messo in commercio da Nintendo. Nella missione del protagonista impegnato a fondare una nuova comunità su un’isola deserta, si trovano le tracce di una mentalità colonialista

Il 20 marzo 2020 è uscito il nuovo videogioco dell’azienda giapponese Nintendo, Animal Crossing: New Horizons per Nintendo Switch. L’opera, con la sua possibilità di giocare insieme ad amici anche online, è sembrata particolarmente adatta a questo momento storico, un’occasione di spendere del tempo in compagnia (e in modo apparentemente non violento, a differenza di altri tanti videogiochi) in uno spazio digitale ora che in molti sono costretti al chiuso e alla solitudine. Ma alcune recensioni di Animal Crossing: New Horizons hanno affrontato aspetti spesso ignorati dalla critica e sottolineati dalla sua ambientazione, un’isola da urbanizzare: le influenze di una mentalità colonialista.

Nella serie Animal Crossing (iniziata nel 2001 su Nintendo 64 e arrivata in occidente nel 2002 su Nintendo Gamecube) sono l’abitante umano di una città di animali antropomorfi. La serie non pone dei veri e propri obiettivi: devo ripagare il debito contratto acquistando la mia casa nella città, ma non ho scadenze e posso spendere il mio tempo come preferisco. Pesco, catturo pesci, aiuto gli altri abitanti e recupero nuovo mobilio per la mia casetta. Animal Crossing: New Horizons parte dalla stessa base, introducendo però importanti novità: come già accennato, sono il fondatore di una nuova comunità su un’isola deserta e non più l’ultimo arrivato in una città già esistente.

La critica e consulente indigena Dia Lacina ha spiegato perfettamente le conseguenze di questo stravolgimento. «Anche se al suo interno ero uno straniero, o forse più un migrante, questo era un gioco che parlava di un luogo già esistente in cui cercavo di inserirmi. Animal Crossing non era un gioco sul rendere mio un posto, era un gioco sul rendermi parte di esso». Negli anni successivi, questa formula è andata a perdersi: chi gioca non era più un abitante qualsiasi ma persino il sindaco della città (in Animal Crossing: New Leaf del 2012) e ora ne è il fondatore. Il mondo di Animal Crossing era prima un mondo che poteva esistere indipendentemente da me, ora è un mondo che dipende interamente dalla mia azione. In questo, Animal Crossing: New Horizons si allinea al comune design che troviamo nei videogiochi, mettendo chi gioca al centro dell’intero mondo simulato.

 

 

Inoltre ora un nuovo sistema, una valuta secondaria all’interno del gioco, mi premia per le mie azioni quotidiane attraverso una serie di missioni. Magari oggi devo vendere cinque frutti, o guadagnare una certa quantità della valuta principale vendendo oggetti, o spendere una certa quantità di questa valuta, o pescare un pesce particolare. Se lo faccio vengo ricompensato con punti che possono poi essere spesi su oggetti altrimenti rari o inaccessibili. Quella che ne emerge è un’esperienza più indirizzata, dove invece di aggirarmi e scoprire cosa il mondo mi offre o decidere in gran parte da solo i miei obiettivi sono incoraggiato a svolgere certe azioni, guidato passo passo dalle sfide e dai premi che il gioco mi propone, in un’ossessionante ricerca di feedback positivi, di numerini che aumentano e mi permettono di accumulare nuove proprietà (digitali). Come accade in tanti videogiochi, l’estremo controllo che Animal Crossing: New Horizons sembra dare a chi gioca è in realtà costruito per indirizzarne l’azione. Il controllore (me) è in realtà il controllato.

Potremmo curiosamente dire che Animal Crossing: New Horizons segua le regole di quel fenomeno noto come “gamification.” La gamification (ma il termine è spesso usato in modo ampio e improprio) è l’introduzione di meccaniche prese dal gioco in ambiti originariamente non ludici, allo scopo di incentivare certi comportamenti. In parte, è quello che succede nelle raccolte dei bollini premio di marche e supermercati, ma è una tattica adottata da molte app per l’educazione e l’allenamento: veniamo premiati per gli accessi giornalieri, riceviamo punti per certe azioni. Il centro della gamification è la sostituzione di ricompense intrinseche (usare un’app per l’apprendimento per appunto apprendere nuove cose, per esempio nuove lingue) con ricompense estrinseche (usare un’app per l’apprendimento per far salire un punteggio), la sostituzione del piacere che potremmo ottenere dalle attività stesse con un semplice e chiaro feedback positivo che ci faccia sentire meglio. Dico che è “curioso” parlare di “gamification di Animal Crossing” perché la serie è a tutti gli effetti già un gioco, ma il fatto che sia possibile individuare tali pratiche al suo interno chiarisce quanto questa esperienza fosse originariamente lontana da ciò che normalmente offrono i videogiochi e quanto si sia alla fine uniformata anche da questo punto di vista.

 

 

Questa gamification e soprattutto questo senso di controllo applicati al territorio, al suo sviluppo, alle sue risorse e alla sua esplorazione è ciò che ha sollevato le discussioni sull’influsso di politiche e meccaniche colonialiste in Animal Crossing: New Horizons. L’isola del videogioco è un ambiente personalizzabile, manipolabile, un territorio da rendere mio: le erbacce vanno rimosse, la morfologia viene rimodellata secondo i miei gusti, piante aliene, recuperate da altre isole, possono essere inserite nell’ambiente senza dovermi preoccupare degli effetti che questo avrebbe in ecosistemi reali. Ci sono risorse da estrarre e trasformare tramite un nuovo sistema di “crafting,” di creazione di oggetti (abiti e mobilio) e strumenti capaci di estrarre risorse in modo ancora più efficiente. Meccaniche di crafting sono diffuse nei videogiochi attuali, ma erano assenti nella serie Animal Crossing fino al suo rapace episodio per smartphone, Animal Crossing: Pocket Camp. Se le risorse non bastano, posso spendere i punti ottenuti attraverso le missioni di Animal Crossing: New Horizons per raggiungere altre isole e depredarle. Sono isole che non vedrò più, isole da sacrificare e svuotare in nome del progresso. Il mondo del gioco smette così di essere uno spazio digitale, una comunità, da godere e diventa qualcosa da aggredire e sfruttare. Animal Crossing diventa violento. In questo contesto, anche il museo di Animal Crossing: New Horizons, dove vengono raccolti pesci e insetti catturati e fossili estratti scavando, sembra ricordarci le radici fortemente colonialiste dell’istituzione museale.

 

 

Non bisogna neanche pensare che leggere in questo modo Animal Crossing: New Horizons sia una forzatura, un obbligare in forme occidentali l’opera di un’altra cultura: come spiegato dal critico Kazuma Hashimoto, il Giappone ha un passato violentemente colonialista di cui sono state vittima le popolazioni dell’arcipelago che ha occupato. Il problema è che lo Stato giapponese ha prevalentemente deciso di ignorare sia l’esistenza di minoranze etniche all’interno del territorio occupato sia, più in generale, la conquista violenta di questo e di altri territori. «Il partito al governo in Giappone, LDP [Partito Liberal Democratico], incoraggia il revisionismo storico, quindi la conoscenza del passato coloniale del Giappone è limitata anche nelle scuole», ci ha scritto Hashimoto via email. Il massacro di Nanchino (i crimini di guerra compiuti dal Giappone nella città cinese di Nanchino durante la seconda guerra sino-giapponese) è stato per anni definito come «una montatura della Cina» ed escluso dai libri di testo, in modo non totalmente dissimile da come in Italia lo Stato incoraggia una narrazione delle “Foibe” ripresa direttamente dalla propaganda nazista e celebra sui telegiornali nazionali l’irredentismo dannunziano, mentre non parliamo ancora dei campi di concentramento che l’Italia costruì per Sloveni e Croati. «Le leggi giapponesi riconoscono oggi che esistano delle minoranze etniche», ci ha spiegato Hashimoto. «Ma nella maggior parte dei casi non sono specificatamente riconosciute le identità delle persone indigene. In più, si parla delle popolazioni indigene (degli Ainu, dei Ryukyuani…) come se fossero popoli ormai scomparsi e questo è falso. E i Ryukyuani, che eppure sono la popolazione nativa di Okinawa, non sono ancora riconosciuti come popolazione indigena. […] Una legge del 2019 riconosce invece gli Ainu come popolazione indigena di Hokkaido, ma gli stessi Ainu considerano la legge inadeguata e incapace di soddisfare i requisiti richiesti nel 2007 dalle Nazioni Unite per le leggi che riconoscano l’esistenza delle popolazioni indigene».

Animal Crossing: New Horizons non è solo questo. È anche stare insieme ad amici lontani, è anche vedere crescere una comunità attraverso gentilezza e amicizia. Ma decolonizzare il videogioco è un processo attivo e faticoso, e non basta ignorare il problema per risolverlo. Durante lo sviluppo del gioco Sunless Skies lo studio Failbetter ha assunto una persona che si occupasse unicamente di decolonizzarne contenuti e meccaniche (insieme ad altre consulenze per gli elementi orrorifici e per la rappresentazione di personaggi di genere non binario e in generale transgenere). Sunless Skies è ambientato in un’epoca di colonialismo fantasy/fantascientifico, con un’Inghilterra vittoriana pronta a colonizzare lo spazio, ed era prevedibile che nella sua realizzazione avrebbe potuto trattare nel modo sbagliato alcuni temi o alcuni personaggi, o avrebbe potuto includere meccaniche (come l’estrazione di risorse dal territorio) problematiche in una simile ambientazione (o problematiche in generale). È un po’ triste, ma non sorprendente, che grandi multinazionali come Nintendo non riescano a raggiungere gli standard rispettati da studi relativamente piccoli come Failbetter.