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Filosofia della pandemia

Esce in questi giorni il nuovo numero della rivista «aut aut» dedicato ad alcune “Riflessioni sulla pandemia” a cura di Alessandro Dal Lago e Massimo Filippi. Una raccolta di voci di studiosi di filosofia che riflettono sul rapporto tra pandemia e pensiero, con particolare riferimento all’antropocentrismo, e una serie di sociologi e antropologi che invece riflettono sulle dimensioni sociali e culturali del virus

Che la nottola di Minerva spicchi il suo volo solo sul far del crepuscolo significa che la veggenza che ci può (se mai) fornire è e può solamente essere una “post-veggenza”, una comprensione ex-post data da uno sguardo a ritroso. La filosofia deve ovviamente portare il suo sguardo sul presente e non trincerarsi in questo “post-”, ma ha pur sempre bisogno di uno scarto, di una sfasatura, di una certa distanza dal brusio dell’attualità e di una certa altura che permetta allo sguardo di spaziare oltre l’immediato. Il contesto socioculturale e tecnologico del nostro inizio secolo, e soprattutto le metamorfosi sociali e istituzionali della professione di “filosofo”, questa distanza l’hanno schiacciata sull’altura e temporalità del tweet e dell’instant book, per cui il filosofo si è visto (quasi) costretto a mescolarsi al vociare dissonante e assordante degli “esperti” pronti a commentare tutto in qualsiasi momento (e volentieri a grida). Niente di più evidente in quest’anno di pandemia da Covid-19, che ha visto un proliferare di filosofie della pandemia nelle più svariate forme ideologiche e mediatiche e nella fretta che caratterizza il nostro tempo.

A poco più di un anno dall’inizio della pandemia «aut aut» pubblica un numero dedicato ad alcune Riflessioni sulla pandemia a cura di Alessandro Dal Lago e Massimo Filippi, che esplicitamente rivendicano invece la distanza temporale necessaria al pensiero e scelgono di entrare nella discussione solo in seconda battuta (anche se entrambi hanno già pubblicato altre “riflessioni” più a caldo nel 2020). Ovviamente a marzo 2021 nella pandemia ci siamo ancora pienamente dentro, ma la situazione può dirsi già (almeno da un punto di vista filosofico) abbastanza definita, tanto da permettere alcune riflessioni propriamente filosofiche e un po’ più “a freddo”. Inoltre, questo numero include contributi non solo di filosofi, ma anche di sociologi, di antropologi e di uno storico, dal momento che la pandemia presenta una multidimensionalità con un enorme impatto sociale e culturale che lo sguardo filosofico deve ben prendere in considerazione. Questo rende il numero decisamente composito ed eterogeneo, il che rispecchia la scelta esplicita dei curatori di presentare un ampio ventaglio di voci e di problematiche, con la consapevolezza che a questo stadio le riflessioni non possono andare oltre un “primo tentativo” di pensare la pandemia.

 

Quello che dà una certa unità a questi testi è una sorta di premessa che implicitamente in qualche modo li sostiene tutti (o quasi) e che ricorre esplicitamente nelle varie modalità di approccio al problema, e cioè che la pandemia abbia rivelato e portato alla luce una serie di nodi problematici che le nostre società fingevano di non vedere o si ostinavano a ignorare. Il virus avrebbe quindi agito come una sorta di rivelatore che ha smascherato e messo in crisi non solo le nostre credenze e convinzioni, ma le stesse basi ontologiche del nostro vivere comune.

 

Da questa crisi non è possibile (né auspicabile) un ritorno alla tanto (ma non da tutti) rimpianta “normalità”, perché questa stessa normalità è, come direbbe Benjamin, proprio la catastrofe il cui volto mortifero la pandemia ci ha ormai inevitabilmente rivelato. Implicita nello svelamento e nella rivelazione è però anche l’apertura di uno spazio di possibilità, un’opportunità di cambiamento che la crisi delle vecchie categorie ci offre, e forse anche questo secondo pensiero accomuna i vari testi nell’urgenza e nell’appello che implicitamente – e a volte esplicitamente – tutti contengono.

Nessuno dei saggi si centra in modo specifico ed esclusivo su una critica al neoliberalismo, le cui fondamenta filosofiche, antropologiche ed economiche si sono sgretolate al primo avanzare della pandemia (un ritorno a questa normalità sarebbe non solo catastrofico ma criminale). L’intervento in chiusura di Edoardo Greblo (che non fa propriamente parte delle Riflessioni sulla pandemia e non le nomina) sulla costruzione della soggettività neoliberista può essere letto in negativo come premessa e capo d’accusa, e una più o meno esplicita critica al capitalismo e in particolare alla sua declinazione neoliberale, informa molte delle altre riflessioni. La prospettiva dei primi quattro saggi (i più propriamente filosofici) è però quella più ampia di una critica dell’antropocentrismo, che è messo direttamente in relazione alle cause e al diffondersi della pandemia.

 

Decisiva in questo senso è l’impronta di Filippi, uno dei maggiori esponenti dell’antispecismo italiano, che sia nella Premessa scritta con Dal Lago (in realtà un saggio in sé) sia nella sua “riflessione” (il primo saggio) sottolinea le enormi responsabilità umane nello scoppio e nel diffondersi della pandemia, che non è affatto un “flagello naturale”. È proprio la “normalità” specista a creare le condizioni ideali per il “salto di specie” con cui i virus passano dagli animali agli umani e si diffondono poi su scala planetaria, e niente di meno che un radicale ripensamento del nostro rapportarci alla natura e alle altre creature con cui dividiamo il pianeta potrà moderare o ridurre l’impatto di nuove, inevitabili pandemie.

 

L’impianto anti-antropocentrico è, se possibile, ancora più marcato nel secondo saggio, in cui Felice Cimatti propone non di pensare il virus, ma di pensare con il virus, di prendere il virus come modello del pensiero a venire – giacché il suo impatto ha diluito tutte le categorie del pensiero tradizionale. Cimatti usa come griglia interpretativa la filosofia di Deleuze e Guattari per identificare nel virus la figura esemplare del divenire e dell’immanenza assoluta, mettendo un po’ a sorpresa tra parentesi le conseguenze (anche terribili) che la pandemia ha avuto e continua ad avere sulle società umane e focalizzandosi invece sul significato e sulla portata ontologica del virus come tale. I due saggi che seguono, rispettivamente di Claudio Kulesko e Antonio Volpe, usano invece la pandemia come trampolino, il primo per allargare lo sguardo sulle nuove forme che il potere assume nell’epoca dei cambiamenti e disastri climatici (il Leviatano Climatico, il Behemoth Climatico…) sulla falsariga di Hobbes e delle sue re-incarnazioni contemporanee, e il secondo per una critica, impostata sulla filosofia di Nancy, delle pulsioni escatologiche e apocalittiche che paralizzerebbero il pensiero contemporaneo (e in particolare quello che si affanna – inutilmente – a imprigionare la pandemia in categorie rigide e collaudate). Volpe sembrerebbe andare controcorrente rispetto all’impostazione generale del numero quando conclude che «al di là di produrre conoscenza scientifica, la pandemia virale non rivela un bel niente, neppure un irrivelabile» (p. 92), ma in fondo questo è un altro modo di ribadire l’assioma di fondo secondo cui, come afferma esplicitamente anche Cimatti (p. 32), quello che il virus ci ha rivelato lo sapevamo già.

 

La seconda parte del numero (anch’essa composta da quattro testi) vede invece sociologi e antropologi riflettere sulle dimensioni sociali e culturali del virus. Alessandro Dal Lago si centra sull’incertezza generalizzata delle nostre società che il virus ha non prodotto ma svelato (o piuttosto messo più in evidenza): incertezza che si declina non solo nelle disuguaglianze, fragilità e ingiustizie che sono state esasperate dalla pandemia, ma anche e in modo evidente nell’impotenza del “sovrano” (dall’esperto allo scienziato al politico), che non sa più né prevedere né decidere, e nella conseguente fragilità del potere.

 

Questa stessa incertezza è declinata come precarietà esistenziale da Mariella Pandolfi, che delinea il nuovo (o forse solo rivelato) paradigma antropologico dell’Homo pandemicus, sospeso tra l’angoscia di un presente frammentato e l’impossibilità di immaginare un futuro. Didier Fassin ribadisce, attraverso il concetto di “biolegittimità” che ha coniato qualche anno fa, come intrinseco al comandamento foucauldiano di “far vivere” che caratterizza il biopotere contemporaneo sia il corollario di “lasciar morire” alcune forme di vita che sono considerate meno degne di vivere e sono quindi ridotte all’invisibilità. La pandemia ha solamente «sollevato il velo» che copriva questa invisibilità strutturale, ma in questo modo ha anche evidenziato l’urgenza di profondi cambiamenti strutturali. Serena Giordano analizza infine l’iconografia del virus nella narrazione televisiva tra retorica patriottica ed escapismo kitsch.

Le Riflessioni sulla pandemia si concludono con un contributo dello storico della medicina Giorgio Cosmacini, che fornisce preziosi chiarimenti e precisazioni lessicali e concettuali sull’idea di pandemia nella medicina e nella cultura occidentali. Ciò che evidenzia quest’ultimo testo, opportunamente posto a conclusione, è che le pandemie hanno accompagnato tutta la storia umana e che l’evoluzione stessa di Homo sapiens, come ribadisce ancora Cimatti nel suo contributo, si declina in una stretta e inscindibile interazione (che è una co-evoluzione) con i virus (e ovviamente con tante altre specie viventi). Come ci sono sempre state, le pandemie accompagneranno gli umani anche nel tempo a venire, e l’attuale crisi, per quanto presenti caratteri decisamente estremi e drastici, non può essere sotto alcun aspetto considerata un’eccezione. Come sanno bene i filosofi, la crisi (che è in origine un termine medico) è il momento della decisione e, per quanto oggi ci troviamo nell’epoca paradossale e ossimorica di una crisi permanente, è a questa decisione che il pensiero è chiamato. A questa chiamata contribuiscono anche i testi qui raccolti.