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“Giovani senza parole”: i partigiani si raccontano

Una nuova edizione di “La sega di Hitler. Storie di strani soldati (1944-1945)” di Manlio Calegari per Editpress, storie di ribelli senza monumentalizzazione

Tracce non secondarie della seconda guerra mondiale erano apparse, martedì 16 aprile 1985, nella “terra di Nisio”, in località Coronelli di Begato, frazione collinare dell’antico comune di Rivarolo Ligure. […] «È una sega di Hitler» [mitragliatrice M42 tedesca], aveva detto Gino mentre io guardavo meglio e mi sporgevo sul terreno sprofondato. «Dopo la guerra mio padre con quella ci tagliava gli alberi» (p. 19).

 

Così inizia La sega di Hitler. Storie di strani soldati (1944-1945) di Manlio Calegari, edito per la prima volta nel 2004 da Selene e ristampato oggi da Editpress per la collana “Storia orale”. Il libro viene rinnovato nel sottotitolo, nella prefazione, affidata alla sapiente penna di Santo Peli, e in una foto la cui didascalia è stata curata dall’autore stesso.

Nell’incipit citato già si intravedono gli elementi che Calegari utilizza nel volume per restituire il tessuto dell’esperienza resistenziale: il racconto orale; il nesso tra il tempo vissuto e il tempo ricordato, ovvero gli anni della seconda guerra mondiale e gli anni in cui l’autore raccoglierà le sue interviste; i luoghi, in questo caso il genovese; le soggettività che si incontrano e le cui storie si intrecciano, in primis quelle di Gino Canepa e dello stesso Manlio Calegari.

Ne La sega di Hitler l’autore ricostruisce la storia e la memoria della brigata Balilla, una brigata partigiana della Sesta Zona che operò a Bolzaneto, a ridosso di Genova, tra la fine del 1944 e il 1945 e che fu la protagonista della controrappresaglia di Cravasco del 4 aprile 1945, quando vennero fucilati 39 prigionieri tedeschi e fascisti dopo essere stati prelevati dal campo di prigionia e condotti al luogo della fucilazione con una marcia di 3 giorni. Il modo in cui Calegari sceglie di studiare e restituire l’esperienza della brigata Balilla è quello della storia orale, dando spazio alle diverse voci, vissuti e memorie dei partigiani che l’autore stesso, nel ruolo di intervistatore, stimolerà con le proprie domande e ascolterà tra la fine degli anni Ottanta e i primi del Duemila: «solo ascoltando è possibile ricostruire; i perché del salire, del restare, del combattere a quel modo, della fedeltà al gruppo e così via» (p. 84).

Dopo il ritrovamento della mitragliatrice, Gino, disertore, suggerisce all’autore di farsi raccontare la Resistenza da chi l’ha agita, cioè da suo cugino Luciano, renitente alla leva e partigiano della brigata Balilla.

 

[Gino si rivolge a Luciano] «Parlighe, digghe tutto, gli aveva detto, t’è capiu?» (Parlagli, digli tutto, hai capito?). E – ancora in dialetto – «è uno storico; deve sapere; devono sapere». Tu, aveva aggiunto rivolto a me – il tono era un dolce invito a superarmi – “cerca di farti capire, fatti dire bene chi erano, cosa facevano, cosa si dicevano, cosa mangiavano… che poi verrà un giorno che di loro non ci sarà più nessuno e non si capirà niente di quello che è successo”. Era sinceramente preoccupato che “dopo” non si venisse a sapere o, peggio sopravvivessero solo storie di comodo. Come succedeva quando si parlava di fabbriche e di operai (p. 33).

 

Si crea così la prima rete di persone, quella necessaria a dare avvio alla raccolta delle storie di coloro che avevano fatto parte della brigata Balilla, gli “strani soldati”, come recita il sottotitolo della nuova edizione, che prende in prestito le parole di una canzone partigiana, La guardia rossa, e fatte sue da Ezio, partigiano della Balilla e protagonista insieme a Luciano de La sega di Hitler.

 

E poi la banda […] Un esercito straordinario che non assomigliava agli eserciti che Ezio aveva conosciuto […] fatto di persone che Ezio non si aspettava di trovare lì; per questo “inattesi”, “strani” (p. 97).

Da quelli […] non aveva mai sentito pronunciare, neppure timidamente, le parole della politica; non riconosceva in loro l’impegno di vecchia pezza, non sapeva di martìri familiari, non gli risultavano frequentazioni politiche: erano giovani senza parole (p. 111).

 

“Giovani senza parole”: tra coloro che salgono in montagna negli ultimi anni della seconda guerra mondiale tanti non hanno un’alfabetizzazione politica, per tanti l’antifascismo è una «vaga consapevolezza» (p. 81), ma la loro è una «scelta che in seguito ha avuto l’approvazione della storia» (p. 78). Questi giovani entrano nella Resistenza per motivi diversi, provengono da realtà diverse e si fermano a combattere con la brigata per ragioni diverse, scelgono di essere “ribelli” prima ancora che antifascisti: i nemici dei tedeschi e dei fascisti erano i renitenti alla leva, i banditi e i partigiani.

Gino racconta che «i manifesti non erano contro l’antifascismo ma contro i ribelli; l’antifascismo c’era anche prima, il ribelle no» (p. 31). Per la maggior parte di loro non esiste dunque la “scelta partigiana”, ma le scelte individuali che sono conseguenza delle storie personali. «Perché quelli e non altri? […] Il ‘chi erano’ faceva infatti tutt’uno con le loro azioni, il loro stile militare» (p. 84). I partigiani della brigata Balilla, che Calegari incontra e intervista quarant’anni dopo il ’45, raccontano che alla base delle loro scelte politiche non c’era l’antifascismo, di cui prenderanno consapevolezza solo stando in montagna o negli anni successivi alla guerra. Dice Luciano: «io sentivo l’ingiustizia della guerra sulla mia famiglia ma so che allora non avrei detto le parole guerra fascista. Il fascismo era una cosa più lontana» (p. 54).

 

Rivarolo (da commons.wikimedia.org)

 

Ciò a cui approda Calegari con le sue ricerche rovescia quindi quell’immagine “monumentalizzata” dei partigiani che si è andata costruendo nel discorso pubblico e in larga parte della storiografia. I partigiani di Manlio Calegari sono prima di tutto uomini, sulle cui scelte hanno pesato i loro vissuti: «sono salito in montagna perché era l’unico sistema per sopravvivere. In città prima o poi sarei stato preso. Quelli come me li impiccavano» (p. 249), racconta Ezio. Uomini che, nell’incontro con Calegari, intervistatore e uomo, riflettono su quelle scelte a distanza di anni, con il bagaglio di esperienze maturate nel periodo intercorso tra la fine della guerra e il momento dell’intervista, ponendosi degli interrogativi che sono prima di tutto morali, come vuole ogni guerra. Ripensando alle domande degli studenti, quando negli anni Ottanta i partigiani andavano nelle scuole a raccontare la Resistenza, Ezio si chiede: «tutto questo è sufficiente per spiegare perché uno va ad accoppare altri come lui?» (p. 249).

Nell’opera i testimoni, principalmente Luciano ed Ezio ma anche Badoglino, Mauro, Zorro, Bufalo, Johnson, Miranda – la moglie di Ezio –, non raccontano esclusivamente l’esperienza della guerra e della vita in brigata, ma intrecciano a questa narrazione episodi che precedono e seguono tali avvenimenti: è la storia orale. Manlio Calegari incontra e intervista i suoi interlocutori molte volte negli anni, creando fra l’altro un’intimità con l’intervistato/a, instaurando una relazione amicale: è una possibilità della storia orale perché «l’intervista è un’occasione: curiosità, conoscenza; non sai cosa metterà in movimento», mi racconta quando lo incontro a Genova nel 2019 per fargli un’intervista.

La sega di Hitler è dunque un importante lavoro di storia orale in cui l’autore racconta questa metodologia storica trasmettendone la capacità interpretativa e la forza emotiva: come si creano le reti delle persone da intervistare, cos’è la relazione fra intervistato e intervistatore, cosa l’intervista può suscitare nei due interlocutori ­– interrogativi, riflessioni, rimozioni –, come si intrecciano il tempo del vissuto e il tempo della narrazione, come si intersecano nei racconti la memoria individuale con quella collettiva e quella pubblica. E tutto questo senza mai esplicitarlo, ma portando esempi concreti di esperienza sul campo.

 

Dopo mesi di incontri, Ezio ha scoperto come anche lui, semplicemente sdoppiandosi, può rivolgersi delle domande che, se a volte non hanno una risposta, non sono per questo meno utili. Interrogarsi su cosa pensava al momento in cui votavano la controrappresaglia di Cravasco è ad esempio una domanda che difficilmente può trovare risposta. Ma il fatto di porsela sposta l’attenzione su comportamenti propri e altrui, battute e gesti che hanno relazione col fatto e che possono aiutare a ricostruirlo. Ecco perché da qualche tempo un intercalare di Ezio è diventato «bisognerebbe chiedere» oppure «bisognerebbe sapere». (p. 211)

 

Scelta poi tutt’altro che scontata nelle opere storiografiche, Manlio Calegari mette al centro della narrazione anche se stesso: scrive in prima persona, segno di quanto l’intervistatore possa essere parte attiva nella creazione della fonte orale.

 

Hanno scoperto – non c’è voluto molto – che faccio parte dello stesso gioco: li interrogo e mi lascio interrogare. Mi sono assunto il compito di restituire “a un certo punto” una storia. Come sarà? Lo sapremo solo giocando. Un risultato concreto i nostri incontri lo hanno avuto comunque: sono le visite reciproche, le discussioni, le cene, le letture; un ottimo risultato. Dentro il gioco c’è la nostra vita. Quest’anno Ezio compirà 80 anni e Miranda 77: cosa riserverà il futuro alla coppia che hanno interpretato fino ad oggi? (p. 200)

 

La sega di Hitler non è un classico saggio storico, è un’“indagine-racconto”, come giustamente la definisce Santo Peli nella prefazione alla nuova edizione, in cui le citazioni delle parole dei testimoni sono ridotte al minimo e intessute nella trama densa della narrazione.

 

(da commons.wikimedia.org)

 

In questo modo Calegari non solo conduce, come accade con i migliori romanzi, le lettrici e i lettori a immedesimarsi nelle vite dei protagonisti, ma riesce anche a far sentire quella carica emotiva che connota l’incontro tra persone, fra intervistato e intervistatore. «Devi portare chi legge a condividere quello che vedi e senti tu: la tensione, il sorriso, il disprezzo, o il distacco che provi. […] Nel momento in cui non c’è più una citazione mi sembra che ci sia una familiarità», mi racconta Calegari e con La sega di Hitler l’intento riesce pienamente.

 

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org