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CULT

Better than silence. Rileggere le memorie conflittuali del Novecento

Memorie contese, manipolate, dolorose, represse, disperse e riemerse: il rapporto tra storia e memoria nel volume “Testimonianze e Testimoni nella storia del tempo presente”, a cura di Gabriella Gribaudi, editpress, Firenze, 2020, pp. 267

Memorie private, individuali; memorie famigliari; memorie collettive, pubbliche, ufficiali; memorie silenti; memorie traumatiche, dolorose, emarginate; memorie contese e manipolate; memorie controcorrente; memorie disperse, represse; memorie riemerse. Sfogliando il volume recentemente pubblicato per editpress – Testimonianze e testimoni nella storia presente – non si può far a meno di notare la pluralità di declinazioni assunta dal termine “memoria”. È una pluralità che può affascinare e sorprendere chi non è avvezza/o agli studi sulla memoria ed è abituata/o piuttosto al lessico del dibattito pubblico contemporaneo. Nel campo politico, infatti, la memoria è primariamente “pubblica”: una rappresentazione di res gestae o di singoli personaggi attorno a cui rinsaldare l’identità di una comunità.

 

La complessità di questa categoria, tuttavia, ha travolto recentemente anche i mass media. Negli ultimi mesi, la riflessione sul rapporto tra storia e memoria è stata sollecitata dalle contestazioni di alcuni monumenti che segnano e significano lo spazio pubblico in cui viviamo.

 

Da una parte all’altra del mondo, è esplosa una “furia iconoclasta” rivolta contro il razzismo perpetuato da statue, iscrizioni, giornate del ricordo, toponomastica: strumenti attraverso cui memorie “forti”, ufficiali e istituzionali, esercitano un potere egemonico nelle nostre città, rendendo presente ciò che si vuole consegnare alla storia. Razzismo compreso. Abbattere il monumento al generale confederato Robert E. Lee in Monument Avenue a Richmond, in seguito all’assassinio di Georg Floyd, significa sradicare violenze e discriminazioni del presente, senza per questo rivendicare automaticamente la rimozione delle statue «dell’imperialista Giulio Cesare». Lo ha spiegato chiaramente Sandro Portelli: la differenza sta nel tempo presente, perché «la memoria non è semplicemente il deposito di un tempo passato, di un’epoca conchiusa, ma una forza attiva nel presente».

 

L’era del testimone?

E proprio alla storia del tempo presente è dedicato il primo volume di una nuova collana di libri promossa dalla Associazione italiana di storia orale (AISO). Curato dalla storica Gabriella Gribaudi, Testimonianze e testimoni nella storia presente raccoglie gli atti di un convegno che si è tenuto a Napoli nel marzo del 2018, a venti anni dalla prima edizione dell’importante libro di Annette Wieviorka, L’era del testimone  (Raffaello Cortina, Milano 1999).

Come scritto da Wieviorka, a partire dagli anni Sessanta la memoria della Shoah è affiorata e ha iniziato a cementare una comune storia europea della seconda guerra mondiale. Gli effetti di questa presa di parola sono stati profondi, su più piani. Il processo Eichmann in Israele non ha soltanto dato la parola ai sopravvissuti dei campi di sterminio, facendo emergere la storia dell’Olocausto e costruendo una “memoria universale”, ma ha legittimamente trasformato il sopravvissuto in testimone: un testimone portatore di storia.

Nei decenni successivi, a est come a ovest, si è registrato in Europa un risveglio di memorie a lungo silenti. La tendenza alla afasia e alla rimozione del passato – cui i regimi totalitari avevano dato una spinta fortissima – non solo si è interrotta, ma alla fine del secolo scorso si è addirittura rovesciata nel suo opposto: un’esplosione di memorie presto sfociata nel culto del testimone. Un culto non innocente dal punto di vista politico e con conseguenze rilevanti sul piano culturale, attraversato sempre più spesso da una contrapposizione radicale tra storia e memoria.

Emblema ed esito di questo processo di dilatazione della categoria di memoria e della progressiva centralità assunta dalla testimonianza è la nascita dei cosiddetti trauma studies. Sono un filone di studi che viene alimentato da quella che Dominick La Capra ha definito «the fascination with victim» (Johns Hopkins University Press, Baltimore 2014). Una identificazione empatica tra lo storico e il testimone di violenze, di eventi catastrofici, di traumi sociali che, anche grazie alle nuove tecnologie digitali, si adatta alla produzione culturale di massa forse più e meglio che alla narrazione storica.

 

A differenza di quelle di epoche precedenti, le atrocità del XX secolo hanno oltrepassato gli steccati della storiografia e grazie alle tecnologie dell’età contemporanea sono diventate rapidamente accessibili a un pubblico globale.

 

Il caso della Shoah Foundation – fondata da Spielberg nel 1994 in occasione della regia di Shindler’s List –, nel volume ricostruito e problematizzato da Giovanni Contini, ne è un esempio. Nell’archivio sono conservate 53.000 interviste in varie lingue e con persone di tantissime nazionalità, circa 80.000 ore di memorie registrate in audiovisivo con macchine professionali, non trascritte ma indicizzate minuto per minuto e rivolte, più che a studiosi, a “gente comune”: il trionfo completo del testimone, ma anche dell’anti-intellettualismo americano (p. 48).

 

Memoriale della Shoah a Berlino

 

Dai monumenti ai memoriali, dai memoriali ai tribunali

Gli atti del convegno di Napoli parlano di tutto questo: di un tema scivoloso e di grande attualità come il valore storico e sociale della memoria, della concretezza e della complessità della figura del testimone, dell’importanza e dei limiti degli archivi della memoria, infine dell’uso pubblico delle memorie dei traumi. Ma oltre a interrogare il nostro presente come «era del testimone e della vittima», gli undici saggi che compongono il libro gettano sul piatto un tema specifico nuovo, insidioso quanto accattivante: la raccolta di testimonianze in occasione di transizioni politiche e i possibili usi di questa particolare fonte nella ricerca scientifica.

Se da un lato la pratica della storia orale è arrivata a un livello di maturità metodologica, deontologica e teorica notevole (per averne un’idea, si legga la nuova versione delle Buone pratiche di storia orale dell’AISO, o si vedano i tanti interrogativi metodologici sollecitati da una ricerca recente di Francesca Socrate: dall’altro, capita sempre più spesso che studiose/i si confrontino con fonti prodotte con criteri e finalità distanti dallo studio della memoria autobiografica e dalla metodologia della storia orale. Tra queste, ci sono le testimonianze sollecitate e rese in sedi istituzionali, come i tribunali. È infatti attraverso l’elaborazione del ricordo che vari paesi scelgono di affrontare un passato drammatico. La raccolta di testimonianze (con ricercatori e testimoni, ma anche con vittime e perpetuatori di violenze), mediate da corti più o meno formalizzate, è diventata uno strumento cruciale nelle transizioni da dittatura a democrazia e nei processi di ricomposizione che seguono conflitti, guerre civili, massacri…

 

Una parte rilevante del volume (la terza, in particolare) è dedicata pertanto al ruolo che le memorie individuali e collettive ricoprono nelle pratiche sociali di pacificazione, ma anche alle loro potenzialità nella ricerca storica.

 

È questo un tema spinoso perché tira in ballo tanto questioni teoriche, morali, giuridiche e politiche (il diritto all’oblio, gli effetti delle amnistie, la tutela della privacy…), quanto problematiche tecniche (la struttura e la forma delle interviste, le modalità di trascrizione o indicizzazione, la presenza o meno di mediatori linguistici…). L’interrogativo posto riguarda, in sostanza, l’uso di fonti che sono state costruite per finalità altre rispetto a quelle tipiche della storia orale. Vediamo alcuni esempi. Maria Cristina Ercolessi affronta il caso forse più noto: quello della Truth and Reconciliation Commission in SudAfrica. La TRC è una commissione per la verità e la riconciliazione voluta da Nelson Mandela e Desmond Tutu con l’obiettivo di superare la violenza e la divisione dell’apartheid, mitigare gli odi e interrompere la spirale delle vendette. Per evitare la scelta apparentemente obbligata tra l’assoluzione politica (considerata una strategia dell’oblio) e l’approccio “retributivo”/punitivo dei tribunali internazionali, la TRC sperimenta una terza via: un’amnistia politica per i reati di carattere politico commessi nel periodo 1960-1994 tanto dal governo, quanto dai militanti di partiti e dai movimenti di resistenza all’apartheid, col fine di raggiungere una giustizia riparativa, non fondata sulla vendetta, ma sulla relazione indivisibile fra individuo e comunità/umanità.

Altri casi analizzati, non meno problematici e complessi da valutare, sono quello della International Criminal Tribunal for Rwanda, restituito da Ornella Rovetta, e quello dell’Italia. Il saggio di Irene Bolzon (incentrato sui procedimenti penali intentati dalle Corti d’Assise Straordinarie tra il 1945 e il 1947 in un territorio difficile per i processi di ricomposizione, quale quello di Trieste) fa riflettere sui modi in cui è stata percorsa la via della pacificazione nel nostro paese e, in particolare, sugli effetti delle amnistie. Queste, secondo l’autrice, avrebbero finito per legittimare autentiche amnesie sui fatti avvenuti durante la guerra civile, ostacolando una effettiva metabolizzazione dei conflitti e dei traumi (p. 33).

 

Ayacucho, Perù. Foto di Santiago Stucchi

 

Esemplare è, infine, l’esperienza raccontata da Maria Rosaria Stabili: La Comisión de Verdad y Reconciliación in Perù. Questa commissione di inchiesta è stata istituita per lavorare sulle violazioni dei diritti umani consumate tra il 1980 e il 2000, nel “ventennio dell’orrore” segnato da terrorismo di stato e guerriglia e dalla contrapposizione di una pluralità di forze variamente responsabili (da un lato le Forze armate, quelle di polizia e i gruppi paramilitari; dall’altro i gruppi sovversivi, tra cui il Partito comunista peruviano-Sendero Luminoso e il Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru).

La CVR appare un caso particolarmente interessante perché presenta delle novità sia sul piano politico, sia su quello prettamente scientifico. Rispetto alle altre commissioni d’inchiesta ufficiali istituite in America Latina, ad esempio, la CVR si è avvalsa della collaborazione delle organizzazioni femminili e femministe e, facendo riferimento alle sentenze dei tribunali del Rwanda e dell’ex-Jugoslavia, ha adottato una concezione larga delle violenze contro le donne (ha quindi incluso la violazione, la mutilazione e umiliazione sessuale e prostituzione forzata nella lista dei crimini contro l’umanità da accertare). Dal punto di vista del rapporto tra memoria, storia, politica e morale, invece, la CVR costituisce un caso di studi rilevante perché il suo archivio è stato reso consultabile subito dopo la fine dei lavori della commissione. Al di là dei problemi metodologici legati alla natura dell’archivio (non da ultimi quelli linguistici, visto che le interviste sono state raccolte in spagnolo e non in quechua), la sua accessibilità ha prodotto, indirettamente, un ulteriore oggetto di studio: oltre alla memoria individuale e collettiva, anche il processo di negoziazione attraverso il quale la CVR è riuscita a redigere, nel 2003, la relazione finale ed ha quindi prodotto la sua verità.

 

«From the other side of the divide»

Per concludere, i casi presentati sono numerosi e discutono raccolte di testimonianze eterogenee: da quelle della Shoah a quelle rese in ambito carcerario e processuale/giudiziario. Ma un filo rosso si dipana da un saggio all’altro: è quello del dialogo tra intervistatore/intervistato. È un tema caro alla storia orale, si potrebbe dire costitutivo di una metodologia della ricerca storica fondata sulla intersoggettività e sulla costruzione di relazioni. Eppure, in questo volume si fa strada una sfida totalmente nuova per gli studi sulla memoria: quella dell’incontro, del dialogo e dell’inter/vista con soggetti distanti e “altri” da chi l’intervista la raccoglie.

Non più soltanto storie di vita e memorie autobiografiche, ma anche “testimonianze”. Non più soltanto soggetti sub/alterni e marginali a cui dare centralità politica e culturale e verso cui coltivare, con fascinazione ed empatia, un sogno di prossimità; ma ora anche carnefici, avversari politici, soggetti controversi o più semplicemente antagonisti, analogamente portatori di storia, ma di una storia dalla quale si misura la distanza.

È una sfida che la narrativa si è posta già da tempo (si pensi al Murakami di Underground o, come segnalato da Gribaudi, al Carrère di Limonov e di L’avversario) e che ora anche storici e storiche hanno iniziato ad accogliere, come mostrano vari esperimenti condivisi nel volume. Tra questi, segnalo il saggio The Witness and the Archive: Between Two Memory Cultures – The Discourse Between Written Testimonies from Zionist & Israeli Archives and Palestinian Oral Testimonies, che invita a riflettere sulle potenzialità di dialoghi non semplici ma “necessari”. L’autore è Kobi Peled, architetto e storico israeliano («member of the hegemony») che ha incontrato testimoni palestinesi che hanno vissuto personalmente la Nakba («testimoni della minoranza senza potere», p. 19): un caso che ci ricorda come la storia orale sia, innanzitutto, una questione di confini da riconoscere, attraversare e vivere.

«Essere stranieri non è solo uno svantaggio, poiché a volte possiamo raccontare a uno sconosciuto ciò che nascondiamo alle persone a noi più vicine. I rapporti di potere, che pure potrebbero sembrare ovvi […], non sono così semplici […]. Inoltre, nonostante parlare dell’ “altro” e interpretare le altrui memorie non siano attività prive di implicazioni morali […], credo che la parola, per quanto fallace e problematica possa essere, sia incommensurabilmente meglio di silenzio, ignoranza e alienazione.» (p. 114).

 

 

Immagine di copertina: Pictures of Genocide Victims at the Genocide Memorial, Jenny Paul, 2018. 

Immagini nell’articolo: 1) Memoriale della Shoah a Berlino 2) Familiari di desaparecidos durante il conflitto armato in occasione della presentazione della Commissione della verità e la Riconciliazione ad Ayacucho (2003) in Perù. Foto di Santiagostucchi