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Game of Thrones e il potere delle storie

Dopo otto anni, la serie dark fantasy Game of Thrones che ha cambiato le regole della tv è arrivata al capolinea. Un fenomeno di costume globale straordinario e davvero trasversale. L’articolo contiene spoiler dell’ottava stagione

Game of Thrones, fenomeno di massa

Nel 2019, GoT è diventata la serie cult e dei record per antonomasia, rivoluzionando per sempre il linguaggio del prodotto tv, come fecero in parte i Soprano (1999-2007), che ci ha fatto capire che un protagonista può essere davvero bad, Breaking Bad (2008-2013), esempio di scrittura eccellente, oppure una serie corale e mystery come Lost (2004-2010), che riesce a esplorare nella narrazione ogni sub-plot e ogni personaggio, anche tra i comprimari.

Nell’era dello streaming, Il Trono di Spade è il programma televisivo più visto nelle piattaforme, nel Guinness dei primati come la serie televisiva trasmessa simultaneamente nel maggior numero di paesi (173) e poi ben 47 Premi Emmy su 128 nomination totali, diventando il prodotto televisivo di prima serata più riconosciuto dall’Academy of Television Arts & Sciences. Nato come un adattamento televisivo del ciclo di romanzi Cronache del ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire) di George R. R. Martin, è cresciuto sempre di più, anno dopo anno, fino ad arrivare a vivere di vita propria dalla quinta serie in poi, considerando che gli altri romanzi di Martin sono in stand by e la narrazione si ferma temporalmente alla morte di Jon Snow. L’ottava e ultima stagione ha raggiunto picchi di 13,6 milioni, con una media di quasi 12 milioni per episodio. Un fenomeno planetario virale che ha generato un fandom vastissimo, una vera e propria narrazione parallela tra commenti, memes, fumetti, video, videogiochi, merchandising, post sui social, costruzioni di sub-plot, teorie, para-finali, spoiler-fobie e commenti accalorati che difficilmente altri eventi avevano reso possibile. Una comunità vastissima unita nella rete da un racconto. Una costante e inarrestabile narrazione collettiva che dura da 8 anni, assumendo le caratteristiche di un universo espanso. Altro che Bandersnatch, qui ognun* ha già diffuso sui social o al bar la sua personale versione di questa o quella puntata del racconto. E proprio continuando a raccontare, tutto rimane in movimento e i personaggi prendono vita.

Game of Thrones e le sue storie

In tempi in cui siamo sempre più soggett* alle decisioni arbitrarie che si abbattono sulle nostre teste, si sente l’esigenza di osservare a 360 gradi un mondo da tutti i punti di vista: dall’orfana di Fondo delle Pulci, al re di turno nel palazzo reale, in cui i fili si dipanano sotto i nostri occhi e noi ci sentiamo un po’ protagonist*.

«Cosa unisce le persone? Le armate? L’oro? Le bandiere? Le storie. Non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia. Niente può fermarla, nessun nemico può sconfiggerla». Questo è l’inizio del monologo con cui un Tyrion Lannister incatenato, nella veste di simbolo del narratore che tira i fili della storia, convince con il potere della parola i lord e le lady di Westeros rimasti a spezzare  – molto gradualmente – la ruota, passando da un sistema feudale dinastico a un sistema feudale elettivo un po’ sul modello del Sacro Romano Impero. Come siamo arrivati a questo punto?

Erano fondamentalmente due le linee narrative principali che “sembravano” andare di pari livello: da un lato il motore narrativo vero e proprio di tutta la serie, il “gioco dei troni”, intriso di realismo politico, con il problema di definire ciò che conferisce sovranità, che è un punto centrale della saga, per arrivare al miglior ruler dei Sette Regni; dall’altro, la linea horror-fantasy della minaccia ultraterrena, la glaciazione e la morte della Terra. E di qui, un po’ la demarcazione tra i vari players del gioco dei troni con tutti gli individualismi del caso: chi pensa di essere legittimato ad arrivare al trono in virtù del sangue (Daenerys, “ultima” erede Targaryen), o per linea dinastica dell’ultima casa regnante legalmente (Stannis). C’è chi sperimenta con i giochi di potere (economico) da palazzo (Margery per i Tyrell), chi tenta di instaurare una teocrazia attraverso un sovrano “debole” (High Sparrow in versione Girolamo Savonarola con re Tommen), chi diventa sovrano con la forza e l’assolutismo (Cersei distruggendo ogni contropotere nella capitale). E poi c’è chi pensa che il sovrano migliore sia colui che, a dispetto del lignaggio, non vuole esserlo (Varys con Jon-Aegon Targaryen).

Nel frattempo, in Game of Thrones, lo Stato centralizzato – i Sette Regni di Westeros uniti – è un ente in equilibrio su un filo, sempre vulnerabile ai capricci dei power-brokers delle varie terre.

Mentre ognun* cercava il suo posto tra i vivi, per otto stagioni, ci hanno disvelato lentamente una minaccia collettiva sopita da millenni, pronta a colpire tutta l’umanità e che pochi si erano organizzati per contrastare, non in virtù di un interesse singolo, ma collettivo (Jon che riunisce il Popolo Libero).

Il femminismo in Game of Thrones

Inizialmente la serie è stata criticata per le scene di sesso troppo hot per la tv, anche se in perfetto stile HBO. Eppure sono molti i ritratti femminili degni di nota. C’è la cortigiana Ros  – personaggio creato ad hoc per la serie TV, ispirato a una “prostituta con i capelli rossi” nominata nei libri di Martin –, che con grazia e intelligenza arriva fino alle camere alte del potere, collaborando con Varys, per poi essere uccisa brutalmente per mano del sadico re Joffrey, venduta da Ditocorto, il personaggio più laido di tutt*.

Anche Gilly ha una forza e un candore che non temono nulla e riescono a emergere davanti al patriarca razzista Tarly (padre di Sam).

Osha – la bruta – si prende gioco delle norme di genere e di classe della società di Westeros nelle sue conversazioni con Theon e tenta di scardinarle, ma nulla può contro il sadico Ramsay.

Pensiamo anche al matriarcato de facto di Alto Giardino sotto Olenna Tyrell. Ma Yara, Ygritte sono figure queer degne di nota. Brienne non ha bisogno di mostrare il proprio valore con la forza fisica e il coraggio, anche se le incarna più di molti altri suoi “colleghi”. In un mondo medievale, in cui viene meno il mito della cavalleria che protegge “i più deboli” e in cui viene rigettato il mito politico che gli stati esistano per proteggere le popolazioni dalle minacce esterne, qui solo Brienne è davvero la personificazione di quelle gesta cavalleresche che abbiamo ascoltato nelle leggende tramandate.

Cersei Lannister è una evil woman iconografica, come una star della Golden Age di Hollywood: Barbara Stanwyck in Double Indemnity o Joan Crawford in The Women o Marylin Monroe in Niagara. Lena Headey è bravissima e intensa nel rappresentare questa donna classista, affamata di attenzione paterna e di potere, a dispetto del suo essere nata donna in «un mondo governato dagli uomini». Si serve di quelle che ritiene siano le uniche armi che una donna può utilizzare per allargare la propria influenza, ma riproduce logiche “maschili” per niente femministe di accentramento e schemi comportamentali individualistici che sono sempre destinati a escluderla, in un modo o nell’altro. La donna cinica a cui non importa di niente e nessuno, tranne di se stessa e del suo sangue: «Tutti quelli che non sono noi, sono i nemici». E Jaime. Sì, l’amore e la passione di una vita che si spezza solo con la morte. Le riesce tutto, infatti, anche diventare la prima regina dei Sette Regni, tranne proteggere i propri figli e la famiglia. La sua è una fede incrollabile nei confronti dei simboli di quello stesso potere patriarcale che le crollerà letteralmente addosso (la Fortezza Rossa) o verrà liquefatto (lo stesso iron throne). Una tragedia da girone dantesco.

«Al gioco del trono o si vince o si muore, non c’è una terza possibilità». Questa sua frase pronunciata all’inizio della serie è stata il leitmotiv del grande monopoly di GoT, tra famiglie schierate negli angoli dei due continenti, candidati più o meno probabili a contendersi l’agognato trono simbolico e tutte le pedine in azione, tra fermi giro, prigioni, accumuli e perdite di terre e ricchezza.

Daenerys Targaryen- Stormborn. Come non seguire con stupore le vicende di una ragazza venduta, stuprata, abusata nel corpo e nella mente, a partire dal fratello idiota. Che da schiava è diventata distruttrice di catene. Come non rabbrividire di fronte al suo incitare gli schiavi a Meereen: «Kill the masters», o nei suoi monologhi «Io non sono qui a concedervi la libertà. La libertà non si elargisce dall’alto. Si strappa». Dany è subito diventata icona femminista-pop. La guerriera predestinata, la speranza dei popoli oppressi, venuta dal continente orientale – Essos – luogo di arretratezza per il “civile” Ovest di Westeros. La predestinata che trascorre il suo tempo a cercare eserciti invincibili per arrivare a “liberare” la Capitale dell’Ovest. La speranza in Terra. Eppure, al di là dei risvolti che la serie doveva approfondire molto di più nella scrittura, bastavano queste premesse.

«Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire». La speranza, una parola incrostata di secoli di tradizione, di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza.

Varys, il ragno tessitore, sopravvissuto agli ultimi sovrani e a tutti i possibili intrighi di palazzo, è il primo a rendersi conto che quando un monarca cita il destino, non starà forse per diventare un tiranno? «Per quale motivo sono sempre gli innocenti a soffrire di più, mentre voi potenti giocate al vostro gioco del trono?» – già preannunciava Varys nella prima serie a un Ned Stark incredulo, passato da Primo Cavaliere a condannato a morte.

Il finale previsto da Martin, aveva questo scopo, quello di mostrare l’altra faccia della medaglia, quando il potere ti racconta un’unica verità. E qual è allora la “verità” del Trono di spade? Che non esistono verità assolute e immutabili.

Ci ricorda GoT, che essere femministe non vuol dire prendere le armi del patriarcato per farle nostre come Cersei e Dany. Che non si combatte con le armi del più forte, ma c’è un altro tipo di forza che arde, più forte del fuoco di un drago che annienta e distrugge tutto.

Arya Stark, amazzone guerriera. Icona queer, identità fluida e irriverente. Per chi ha amato Fantaghirò, un po’ le assomiglia. Fin da bambina vuole essere libera di scegliere da sola cosa fare da grande nella vita, ribellandosi al suo status di nobile dama che le impone un matrimonio di rango – «Non sono una Lady!» – a vendicatrice che si ribella anche al suo mentore Jaqen H’ghar quando le impone di diventare una sicaria. La creazione del personaggio di Arya è figlia del movimento femminista transnazionale del nuovo millennio. Il motore narrativo che porta avanti la sua storyline, oltre al forte senso della giustizia dal basso è la sua autodeterminazione, dai vincoli impositivi familistici, al “lavoro” – a Braavos –, dalle proposte di matrimonio alle logiche stesse del branco.

Un suo turning point importante è nella puntata The Long Night, in cui l’attenzione di tutt* era volta alla nemesi maschile del Night King, l’eroe dei due mondi Jon Snow e all’oracolo Bran – il Corvo a 3 Occhi. E invece, Arya, come Pentesilea, regina delle Amazzoni, è davvero il soggetto imprevisto che taglia trasversalmente il buio campo di battaglia e irrompe all’improvviso. Non si disciplina in eserciti già schierati, ma muove la sua guerra giusta e sorprende con la sua forza combattente. Si decostruisce così in tv, in pochi frames il mito della forza virile dell’eroe più forte, interrogando nel profondo la dimensione della violenza all’interno di una comunità collettiva – quella degli eserciti schierati nel Nord. Una messa in scena teorico-pratica della forza che si può originare da un corpo-mente femminile, che supera la lettura unidimensionale della forza – concetto spesso evocato nella celebre saga fantasy Star Wars ma in ottica Jedi – come forza coercitiva strutturalmente legata alla violenza, di cui i corpi maschili sarebbero maggiormente dotate. Un ribaltamento di quei dispositivi patriarcali che leggono nella divisione mente-corpo, natura-cultura la negazione di altri generi di forza, connettendo, appunto, la forza a un binarismo di genere che si esplica in un rapporto tra dominante più forte e dominata più debole.

Anche in questo senso, Sansa Stark è un’altro dei personaggi più riusciti. Il suo è un arco narrativo davvero compiuto. Dalla ragazzina allevata tra privilegi e sogni di principe azzurro, cresce negli schemi patriarcali, ritrovandosi in una città corrotta e con al fianco principi e re psicopatici.

Sarà lei, però, ad apprendere tutte le lezioni machiavelliche dalla capitale Approdo del Re, a Nido dell’Aquila a Grande Inverno e ad avere una maturazione che la porterà a diventare regina di un Nord indipendentista e a liberarsi da sola, liberando, nel contempo la gente del Nord dal dominio crudele dei Bolton. «Tutto quello che ho passato mi ha fatto arrivare dove sono ora». Certo, discutibile il punto di vista sullo stupro come esperienza che l’ha forgiata, nel dialogo con il Mastino nella quarta puntata dell’ultima serie.

Ma è davvero chiaro a tutt*, che Little Bird, nella sua assertività e nei suoi silenzi meditativi, ha intrapreso in pieno un percorso di autodeterminazione difficile e incredibile, passando per la sperimentazione di tutti i mali fisici e mentali che il patriarcato può usare contro una donna: matrimoni forzati, umiliazioni, torture psicologiche, violenza, stupro, per nominarne alcuni.

Sansa, come una novella Elsa, legata alle sue origini è pronta a governare da sola e anche l’iconografia della sua incoronazione stessa nella puntata finale, ricorda quella di Elisabetta I d’Inghilterra.

L’ultima serie di GoT

Le ultime serie hanno voluto (anche per questioni di budget) sbrigarsi a chiudere il cerchio e ne sono usciti malconci un po’ tutt*, anche l’Universo di Dorne, con le Vipere, che da potenziali guerriere-amazzoni diventano caricaturali, macchiette peggiori delle divinità mitologiche comprimarie di telefilm anni ’90 come Xena o Hercules. Eppure Dorne è stata fondata dalla regina Nymeria e la principale caratteristica era che il titolo ereditario del Principato si tramandava indipendentemente dal sesso degli eredi.

«La parte fondamentale di un’opera è il suo finale. Perché è con quello in testa che il pubblico torna a casa» – diceva Alfred Hitchcock riferendosi all’opera cinematografica. Ecco, anche tra 10 anni probabilmente non ci ricorderemo di GoT per il suo finale, anche se ha riannodato diligentemente tutti i fili narrativi rimasti, mettendo ogni personaggio sopravvissuto (dal bonario Podrick al dimenticabile Edmure) letteralmente al posto doveva stare.

Siamo stati abituati a molti shock nella serie, la distruzione di Approdo del Re è stato tra questi. L’emozione nel sentire il suono delle campane, la resa della città che avrebbe dovuto portare alla fine della conquista e invece dà il via alla tabula rasa. Il drago che abbiamo visto nascere, simbolo fantasy nella veste di arma di distruzione. In pochi secondi, cambia la nostra prospettiva su quella che nel bene e nel male era stata una protagonista positiva della serie. Ma lei non teme il fuoco come Anakin Skywalker, e non indosserà nessuna maschera nera. E i draghi bruciano, devastano, non sono i draghi delle favole buoni che vedevamo nella Storia Infinita. GoT non è un fantasy vero e proprio e ce lo dimostra ancora.

Proprio Drogon, compirà il gesto simbolicamente più forte dell’ultima puntata: l’incenerimento del trono di spade forgiato sul sangue umano e sul fuoco dei nemici dagli antenati Targaryen di Dany 300 anni prima, ha davvero un significato polisemico. Per usare i termini dell’epistola dantesca a Cangrande della Scala: anagogico in quanto costituisce la pluralità dei poteri contro il desiderio, sempre frustrato, del dominio dell’Uno (a prescindere dal genere); morale, in quando mostra la chiusura ciclica della saga di GoT.

Riprendendo i parametri danteschi, chiare problematiche vengono riscontrate nella brusca chiusura dei gironi in pochi secondi. Il girone infernale delle anime morte che hanno invaso le terre degli Wildlings e oltrepassato la Barriera, viene meno nei pochi secondi in cui No one – «the girl with no name» – trafigge il Night King. Un riferimento omerico traslato anche alla sua epigona Lyanna Stark che “acceca” il Gigante. Il Purgatorio è iniziato con la Guerra dei Troni che ha coinvolto Sette Regni e due continenti, ma il Paradiso in Terra promesso da Dany ai Dothraki è solo cenere.

E anche la conquista dell’agognato trono, che Dany riesce solo a toccare, senza sedercisi sopra, è effimera, ashes to ashes e si chiude anche qui, con un coltello nel cuore. Le visioni della Casa degli Eterni, non mentivano. Una scena che però non raggiunge il necessario pathos, perché «l’amore che è la morte del dovere», in queste ultime stagioni, non è riuscito a inscenare quella tragicità amorosa senza tempo che sarebbe stato necessario rappresentare tra Dany e Jon e che, nell’ultima serie, spesso sfiora il patetico. Una tragicità shakespeariana che hanno, invece, rappresentato fino all’ultimo respiro, Cersei e Jaime.

Il personaggio di Kit Harrington, dopo averci regalato un percorso di formazione degno di un guerriero Jedi, da Snow-Bastardo alla ricerca di un posto nel mondo che non è mai riuscito a trovare, dopo essere morto e risorto, è dovuto stare al servizio di una trama intricata, diventandone una banale pedina. Solo l’ultima scena, in marcia insieme al Popolo Libero con Ghost al fianco, ci fa ritornare in mente il posto dove è sempre voluto essere, in barba a troni e regine.

Non poteva che finire così nell’Universo di Martin, dove uno scudiero ha un monologo più potente di quello di un re. Gli eroi se ne vanno ai confini del mondo, gli abili giocatori e giocatrici ricevono la corona e la riabilitazione, tagliagole ed ex contrabbandieri siedono nel Concilio Ristretto, i nani, come i vari ragni tessitori-signori dei sussurri, che hanno a cuore il “Popolo” più del sovrano di turno, non verranno mai menzionati in nessun librone scritto a mano dai “saggi” che decidono la verità per le future generazioni. «Nessuno piange per ragni e prostitute» – diceva il buon Varys.

GoT è stato sempre eccellente nel porre i vari cliffhanger al posto loro: pensiamo alla morte di Ned, alle Nozze Rosse, a Jaime che perde la mano, alla morte di Joffrey. GoT ha avuto la sua forza anche grazie all’uso di questi espedienti sin dalla prima puntata, con Bran scaraventato giù dalla finestra in pochi secondi. Bran che fin da subito era stata la prospettiva del pubblico che guardava. Un bimbo estasiato, affascinato in un mondo di castelli, leggende e miti in lande sconosciute. Un bimbo che si è arrampicato fino in cima per guardare meglio, novello Icaro che pensava di vedere meglio il sole, ma è stato buttato giù perché così le storie iniziano. «Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio». E noi abbiamo volato nei cieli e nelle terre di un mondo inventato ed estremamente reale, per poi atterrare un po’ ammaccati ma cresciuti e pronti, dopo aver conosciuto la storia a formularne un giudizio. Perché solo così le storie vivono e si tramandano.

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