EDITORIALE

Fra gattopardi, coccodrilli ed avvoltoi: quale svolta per la Palestina?

Le recenti dichiarazioni strumentali e ipocrite dei governi occidentali e di uno spettro ampio di forze politiche devono essere uno strumento per aprire spazi di conflitto sulla Palestina. Il momento potrebbe essere decisivo

Negli ultimi dieci giorni, il dibattito pubblico internazionale è stato scompaginato dalle improvvise e inaspettate prese di posizione delle cancellerie occidentali sul genocidio in Palestina. In prima battuta, c’è chi ha ingenuamente intravisto da parte dei leader europei un inaspettato, quanto tardivo, sussulto morale: il blocco degli aiuti, la conseguente carestia e la ripresa dei bombardamenti, più letali che mai, su una popolazione ormai allo stremo e su un paesaggio apocalittico di macerie e detriti, avrebbero oltrepassato una ritrovata linea rossa, che nessuno, neanche Israele, può attraversare. Secondo questa lettura, la pulizia etnica e lo sterminio finalmente non sarebbero più stati inevitabili, grazie all’intervento dell’Occidente, improvvisamente riemerso dal baratro della complicità con Israele e pronto a compiere passi concreti in questa direzione. La realtà, però, è purtroppo ben lontana da questa interpretazione dei fatti.

L’opinione pubblica e il giudizio della Storia dietro le dichiarazioni occidentali

Quali, quindi, le motivazioni all’origine delle dure dichiarazioni di Starmer, Macron, Borrell et al. e quale la reale portata delle misure adottate? Particolarmente emblematico è il caso britannico. Nel corso del suo intervento alla Camera dei Comuni, il Ministro degli Esteri David Lammy è stato molto duro nei confronti dell’operato del Governo israeliano: la carestia provocata dal blocco degli aiuti umanitari è «abominevole», le parole del ministro israeliano Smotrich sono «mostruose», l’estensione della guerra «indifendibile». Il primo ministro Keir Starmer ha rincarato la dose dicendosi «inorridito per l’escalation» israeliana. Un vero cambio di registro per chi ha rivendicato pubblicamente la conferma del 90% delle vendite di armamenti a Israele (Lammy, 2 settembre 2024 ai Commons) e per chi ha riconosciuto il diritto (!) di Israele di tagliare viveri ed elettricità a Gaza all’indomani del 7 ottobre (Starmer, 11 ottobre 2023 all’emittente radio LBC). Poco credibile un ravvedimento così radicale.

Più plausibile che queste prese di posizione siano stato dettate da un dibattito interno al paese innescato da un duro editoriale apparso sul “Financial Times“ il 6 maggio scorso dal titolo inequivocabile «Il vergognoso silenzio occidentale su Gaza» che ha perfino spinto un deputato conservatore, Mark Pritchard, a riconoscere «di aver sbagliato, nel corso degli ultimi venti anni, a sostenere incondizionatamente Israele», condannando nel suo intervento l’offensiva israeliana a Gaza e in Cisgiordania.

Un ruolo non marginale nel determinare il cambio di rotta narrativo dell’esecutivo britannico è stato inoltre svolto senza ombra di dubbio dall’imponente manifestazione a sostegno del popolo palestinese che ha invaso le strade di Londra sabato 17 maggio: oltre mezzo milione di persone che rivendicavano un immediato cessate il fuoco, l’embargo sulla vendita di armi a Israele, sanzioni, fine dell’occupazione e del regime di apartheid. Una capacità di mobilitazione, a 20 mesi dall’inizio del genocidio, che ha posto diversi problemi all’interno del Labour, in crisi verticale di consenso dopo l’implementazione di nuove misure di austerità e dopo l’ormai chiara indicazione, confermata dai sondaggi, che i democratici US hanno perso le presidenziali dello scorso novembre proprio sul sostegno al genocidio. Queste, quindi, le ragioni di consenso pubblico dietro il cambio di passo del Governo britannico, che, tuttavia, si è ben guardato dal far seguire azioni concrete alle parole roboanti utilizzate nella House of Commons. È stato infatti sospeso il negoziato sul futuro accordo commerciale fra Regno Unito e Israele: per ora, tutto resta come prima, le armi continueranno a fluire verso Israele, nessuna sanzione. Il solito topolino partorito dalla montagna.

Una simile ipocrisia di fondo è riscontrabile in quanto accaduto in seno alle istituzioni europee la scorsa settimana. Sempre martedì 20 maggio (difficile non vedere quantomeno un coordinamento fra le cancellerie UE e UK), il Consiglio UE ha votato, con una larga maggioranza 17 a 9 (la Lettonia si è astenuta), per la revisione dell’accordo di partenariato UE-Israele che, come ben noto, all’articolo 2, subordina l’accordo stesso al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale (per il quale, la partnership commerciale andrebbe sospesa seduta stante, e non da ora). Il voto è stato accompagnato da una dichiarazione dell’Alta Rappresentante per la politica estera UE Kaja Kallas, che intimava a Israele di sospendere le operazioni militari e permettere l’ingresso di aiuti umanitari. Difficile che questa iniziativa europea raggiunga il risultato auspicato pubblicamente: la sospensione dell’accordo di partenariato richiederebbe l’unanimità dei 27 membri, impossibile da raggiungere in virtù del sostegno incondizionato a Israele della Germania, al quale facilmente si aggiungerebbero Ungheria e Italia (che infatti, al pari della Germania e insieme ad altri sei membri, hanno votato contro la revisione dell’accordo). D’altronde, l’interruzione dei rapporti con Israele metterebbe in discussione enormi flussi di denaro e interessi economici e strategici su cui si fondano le strutture di potere occidentali. Più facile che anche in questa circostanza, come nel caso britannico, l’operazione sia più cosmetica che sostanziale.

Di fronte agli evidenti segnali che Israele vuole andare fino in fondo, grazie al sostegno materiale e alla copertura diplomatica e militare dell’Occidente, mai realmente messa in discussione, ecco che il carro di quanti vorrebbero essere giudicati come quelli che in fondo hanno provato ad opporsi (almeno un po’) al genocidio, comincia a popolarsi.

È la risposta, pavida e vigliacca, alla consapevolezza del giudizio netto che le generazioni future daranno alla complicità occidentale nello sterminio del popolo palestinese. La Storia non fa sconti, e questi governanti criminali, pieni di ego, che pensano alle didascalie delle loro foto nei futuri libri di storia, ne sono ben consci, cercando così di salvare faccia e portafogli.

Una simile dinamica è alla base delle motivazioni che hanno spinto il Partito Democratico nostrano a correggere nelle ultime settimane, con una significativa accelerazione in questi ultimi giorni, le indegne posizioni del partito riguardo alla politica di sterminio israeliana. In un partito che ancora fatica, dopo 19 mesi, a pronunciare la parola “genocidio”, che ha al suo interno l’europarlamentare Pina Picierno, che incontra l’organizzazione di estrema destra israeliana Israel Defense and Security Forum vicina alle posizioni dei coloni, e il deputato Piero Fassino che si autodefinisce «il sionista della sinistra» e che descrive come una «fatalità» le morti civili a Gaza, è più che verosimile, per non dire certo, che la posizione allineata con le altre opposizioni sia una scelta soltanto strategica dal punto di vista del consenso pubblico.

Di fronte alle rivendicazioni sempre più “radicali” del movimento cinque stelle e a un’opinione pubblica ampiamente schierata col popolo palestinese, il PD non poteva mostrare titubanza né timidezza, soprattutto dopo le parole pronunciate, strumentalmente, al livello europeo da parte addirittura di Starmer.

Nessuno mette in dubbio la presenza di diverse anime all’interno del PD, soprattutto con l’avvento della segreteria Schlein, ma il tempismo tardivo, per usare un eufemismo, del posizionamento su Gaza, è dovuto più che a un sussulto etico, alle strategie legate ai rapporti interni ed esterni al partito: ingiustificabile di fronte al baratro in cui sta sprofondando la Palestina, da oltre un anno mezzo. Finché all’interno del partito vi saranno personaggi legati a doppio filo con Leonardo, ENI e la cyber-security israeliana, impossibile ritenere genuina e credibile una posizione dell’intero PD che chieda sanzioni verso Israele.

L’ipocrisia europea e del Partito Democratico: uno spazio di possibilità?

L’operazione mediatica dell’Occidente con l’intento, tanto disperato quanto ipocrita, di salvare la faccia, apre, potenzialmente, spazi di conflitto da attraversare per i movimenti che negli ultimi anni hanno costruito iniziative e campagne per la liberazione della Palestina.

Sgomberiamo subito il campo: non verrà mai dimenticata la complicità delle élites al potere e del Partito Democratico con il genocidio portato avanti da Israele.

Il loro sostegno militare ed economico, le coperture politiche e diplomatiche in Europa e nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’uso ripugnante dell’antisemitismo come arma di silenziamento per ogni voce fuori dal loro coro unisono a favore dello sterminio del popolo palestinese e, infine, la repressione violenta di manifestazioni, blocchi e scioperi costruiti per opporsi al genocidio è proprio ciò che ha permesso a Israele di arrivare fino alla situazione attuale, diffusa in streaming 24 ore al giorno: la garanzia dell’impunità e il sostegno occidentale al progetto coloniale sionista hanno legittimato e reso possibile l’utilizzo della fame come arma di guerra nei confronti di oltre due milioni di persone, costantemente bombardate da oltre un anno e mezzo. Non ci sarà alcuna comprensione da parte nostra nel giudicare eticamente e politicamente le posizioni di chi si è schierato al fianco di Israele: il sangue sulle loro mani è indelebile e, quando tutto questo finirà, non verranno fatti sconti.

Tuttavia, questo nuovo posizionamento è, per chi si batte per la liberazione della Palestina, un’opportunità per incalzare chi improvvisamente sembra essersi ravveduto e ora moltiplica le iniziative cercando di battere sul tempo gli appuntamenti già in programma (ad esempio la manifestazione nazionale “StopReArm” del 21 giugno a Roma) con una smania di protagonismo e visibilità mediatica che non prelude a nulla di buono.

L’intenzione sembra ricalcare il classico solco della tanto triste quanto non lungimirante sinistra italiana: appropriarsi della causa palestinese, neutralizzandone le rivendicazioni, ma provando a capitalizzarne il consenso.

Facile prevedere infatti che la piattaforma politica di queste mobilitazioni sarà totalmente al ribasso, limitandosi al cessate il fuoco e all’apertura dei varchi agli aiuti umanitari, come esplicitato chiaramente da Veltroni sul “Corriere della Sera” di tre giorni fa in un editoriale che di fatto ha dato il nulla osta della destra del PD a Schlein per l’organizzazione della manifestazione, definendone nettamente, però, il perimetro politico.

Sia chiaro, il cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti sono punti essenziali, l’urgenza immediata è fermare lo sterminio quotidiano. Ma gli unici reali strumenti di pressione politica sul Governo Netanyahu sono sanzioni, boicottaggio accademico ed embargo sulle armi, fino all’unica azione in grado di fermare probabilmente e realmente il genocidio: l’invio di una forza di interposizione internazionale a protezione dei/lle palestinesi, come ha ricordato Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU per il Territorio Palestinese Occupato. La risoluzione 377 A del 1950 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “Uniting for Peace” prevede infatti espressamente questa possibilità nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza non adempia al proprio mandato di mantenere la pace e la sicurezza nel mondo. Non si capisce d’altronde perché una “coalizione di volenterosi” sia all’ordine del giorno per l’Ucraina, ma non per la Palestina. Inoltre, il richiamo, ora tornato di moda, al rispetto del diritto internazionale non può essere à la carte: il parere del luglio scorso della Corte Internazionale di Giustizia dichiara illegale l’occupazione dei Territori Palestinesi occupati e di Gerusalemme Est e condanna il regime di apartheid cui è sottoposta la popolazione palestinese.

La conseguente risoluzione dell’Assemblea Generale il 18 settembre 2024 impone il ritiro di Israele dagli stessi, l’espulsione dei coloni, lo smantellamento degli insediamenti nonché la ricostruzione e la riparazione per questi 58 anni di occupazione. Non sono elementi di rivendicazione secondari, così come centrale è il diritto al ritorno dei profughi palestinesi sancito dalla risoluzione 194 del 1948 del Consiglio di Sicurezza.

Tutti questi punti dovrebbero essere il minimo comune denominatore delle mobilitazioni per fermare il genocidio e intraprendere un percorso verso la giustizia e, quindi, un orizzonte di convivenza. Di queste posizioni bisogna chiedere conto a chi oggi cerca di pulirsi la coscienza, sfruttando quindi lo spazio che si è aperto e le contraddizioni che lo abitano. Così come è imprescindibile pretendere che il nuovo corso “filo-palestinese” del PD per essere minimamente credibile rompa i rapporti strutturali che legano la propria classe dirigente con le partecipate statali che beneficiano direttamente dal genocidio, ENI e Leonardo in primis.

Infine, un’amara considerazione su un silenzio assordante e su un’immobilità che perdura, quasi ininterrottamente, da oltre 19 mesi: il più grande sindacato italiano ha rinunciato ad assumere iniziative incisive, aderire in massa a manifestazioni pubbliche e generalizzare il boicottaggio spontaneamente promosso da organizzazioni locali, per es. i portuali, per il blocco della spedizione delle armi

Qual è la funzione sociale e politica di un sindacato se di fronte a uno sterminio, alla violazione sistematica dei diritti umani e del diritto internazionale, non avverte l’urgenza di una grande mobilitazione e di un blocco della produzione? Confidiamo che questo mutamento delle posizioni politiche al livello europeo e nazionale possa ricordare alla dirigenza del sindacato il proprio ruolo nella società.

Il momento, quindi, potrebbe essere decisivo. Il cambio di narrazione di questi ultimi giorni sta iniziando a produrre effetti rilevanti dal punto di vista sociale: la frustrazione e il senso di impotenza stanno mutando in un’urgenza di mobilitazione, in uno spazio di possibilità dettato dalle prime fratture nel muro a protezione di Israele. Sta all’intelligenza collettiva mettere in tensione questo campo, evitando facili e miopi chiusure identitarie e settarie, per produrre mobilitazioni di massa contro il genocidio a sostegno alla popolazione palestinese. Quelle che non siamo stati in grado di costruire nell’ultimo anno e mezzo.

Palestina Libera!

Immagine di copertina da WikiCommons

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