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MONDO

Il flagello dei programmi di wellness aziendali

Negli Stati Uniti, i datori di lavoro stanno diventando sempre più ossessionati dal miglioramento della salute dei loro dipendenti. In realtà, il diritto all’assistenza sanitaria viene stravolto in un calcolo econometrico preoccupato solo di ridurre i costi del lavoro

Quando gli insegnanti e il personale scolastico della Virginia Occidentale hanno abbandonato i propri posti di lavoro nel 2018, la copertura mediatica dello storico sciopero si è focalizzata su questioni di base come l’aumento dei costi dei premi assicurativi sanitari e i salari bassi. Esistevano racconti dell’orrore di insegnanti costretti a fare lavori accessori e che avevano difficoltà a pagare le spese mediche di emergenza. Ma c’erano altri fattori galvanizzanti che, sebbene discussi in maniera minore, non erano meno irritanti: affronti che sono divenuti sempre più comuni per i lavoratori in tutto il paese.

Come ha detto Brandon Wolford, un insegnante della contea di Mingo in Virginia Occidentale, a una sala colma durante la conferenza LaborNotes l’anno scorso a Chicago, lui e i suoi colleghi sono stati costretti ad agire quando gli è stato chiesto di pagare una multa oppure partecipare a un programma di wellness aziendale chiamato “Healthy Tomorrows” [“I domani in forma”, Ndt], che penalizzava i membri se non raggiungevano “accettabile” su una serie di misure biometriche. «E improvvisamente ci arriva una lettera», afferma. «Dice che devi andare dal dottore entro tale e tale data. I livelli di glucosio nel sangue non devono superare una certa soglia, il tuo girovita dev’essere di una certa misura e in caso contrario, se non raggiungi queste condizioni, allora ti arriva una penale non rimborsabile di 500 dollari sulla franchigia».

Ma, come dice Wolford, è stato un successivo programma di wellness di fatto a «svegliare il can che dorme». Nel 2018, la Public Employee Insurance Agency (PEIA) [Agenzia sanitaria dei lavoratori pubblici, Ndt] della Virginia Occidentale, la commissione che determina i piani di assicurazione sanitaria per tutti i lavoratori pubblici dello stato, ha annunciato che, contestualmente all’aumento dei premi, avrebbe iscritto tutti a un programma di Humana, una compagnia assicurativa a scopo di lucro, chiamato Go365. Questa iniziativa richiedeva che i lavoratori partecipassero a screening e guadagnassero “punti wellness” attraverso una gamma di attività, per evitare di contrarre ulteriori spese. I lavoratori potevano guadagnare punti se indossavano un rilevatore di attività Fitbit e monitoravano i loro passi oppure mantenendo il proprio indice di massa corporea (IMC) sotto una certa soglia. Secondo Wolford, inoltre, «includeva domande sulla sfera privata come: quanta attività sessuale fa in media in una settimana? È energica?» A chi si rifiutava di partecipare veniva addebitata un’ulteriore somma di 25 dollari al mese – un onere di quasi 300 dollari all’anno per chi spesso guadagna meno di 47.000 dollari, il quinto tasso di stipendio più basso per gli insegnanti nel paese.

Il programma Go365 è stato interrotto in seguito allo sciopero. Ma altrove il flagello dei programmi di wellness aziendali continua senza sosta, sia che si tratti di lavoratori del settore privato che di quello pubblico.

Un sondaggio del 2018 della fondazione Kaiser indica che l’82 percento delle grandi aziende (quelle con più di 200 impiegati) e il 53 percento delle piccole imprese offrono l’opzione di qualche programma di wellness. Alcuni, come Go365, sono chiaramente punitivi, tassando fino a migliaia di dollari in multe i lavoratori che si rifiutano di partecipare a campagne di wellness o non riescono a raggiungere determinati dati biometrici relativi alla salute. Altri hanno “incentivi” più confusi – per esempio un buono regalo o uno sconto per un abbonamento in palestra. La linea tra punizione e incentivo è tuttavia sottile. Se un lavoratore riceve un rimborso per la palestra allenandosi sei volte al mese, non equivale forse a una punizione materiale per quelli con disabilità fisiche, quelli sovraccarichi di lavoro e quelli che semplicemente non hanno voglia di farlo?

Sebbene la gestione d’impresa in genere spacci i programmi di wellness aziendali per generose gratifiche, in realtà per i datori di lavoro sono un modo per risparmiare. L’Affordable Care Act (ACA) [Legge per le cure mediche accessibili, noto come Obamacare, Ndt] permette ai datori di lavoro di “incentivare” la partecipazione ai programmi di wellness; i risparmi emergono da linee guida che, fino a poco tempo fa, consentivano ai datori di lavoro di vincolare il 30 percento dei premi assicurativi per gli individui e il 50 percento per i fumatori all’adesione a questi programmi. Di fatto, ciò equivale a una multa salata, a volte di migliaia di dollari, per coloro che non partecipano.

È un ottimo esempio di come l’ACA, nonostante sia stata elogiata come una svolta per un’equa copertura sanitaria universale, rinforzi il concetto che il datore di lavoro sia da ritenersi responsabile della salute dei dipendenti, rendendola così una spesa commerciale. L’aumento dei programmi di wellness aziendali, insieme alla viscerale opposizione a essi, ha rivelato i limiti e le piccole umiliazioni di questo approccio neoliberale all’assistenza sanitaria. In implicito contrasto, offre motivazioni per un potenziamento più umano della rete di sicurezza sociale – richiedendo allo stesso tempo una risposta collettiva e orientata sui lavoratori ai modi diversi in cui i datori di lavoro influenzano il nostro benessere quotidiano.

 

 

 

Perfino prima dell’ACA, i datori di lavoro stavano iniziando a capire che i programmi di wellness aziendale potevano fargli risparmiare dei soldi. Secondo un rapporto del 2009, il ritorno sugli investimenti in un ente di trasporti ad Austin, in Texas, ammontava a 2.45 dollari per ogni dollaro speso sul benessere dei dipendenti. Lo studio è arrivato a questa cifra attraverso una formula piuttosto imprecisa che ha preso in considerazione l’assenteismo e i costi dell’assistenza sanitaria – due fattori che presumibilmente dovevano aiutare a quantificare la produttività dei lavoratori.

La produttività dei dipendenti è sempre stata una fissazione ossessiva per le società. Secondo uno studio del 2015, «si stima che disturbi relativamente comuni come l’ipertensione, la cardiopatia e la depressione costino rispettivamente 392, 368 e 348 dollari per dipendente all’anno a causa della perdita di produttività».

Il linguaggio della produttività è molto diffuso ed è adoperato perfino quando è proprio il posto di lavoro a causare problematiche relative alla salute. Per esempio, un rapporto del 2017 del Northeast Business Group on Health ha scoperto che «la diffusione di [malattie muscoloscheletriche] arrecate dal posto di lavoro è in aumento», a causa specialmente dell’uso dei millennial della “tecnologia” (per esempio attraverso lo sforzo del mento e della schiena stando davanti a dispositivi per molte ore) e del “lavoro remoto” (portando i lavoratori a essere sedentari durante la giornata). Il rapporto continuava suggerendo che «i programmi di prevenzione possono avere un impatto significante sulla salute e la produttività sul posto di lavoro così come sull’utile netto di un’organizzazione».  Questo regime di prevenzione, tuttavia, comporta educare i dipendenti al metodo RICE (Rest, Ice, Compression, Elevation) [ovvero riposo-ghiaccio-compressione-sollevamento, Ndt] per curare una ferita o comprare un pacchetto assicurativo per le sostituzioni di anca e ginocchio. Il rapporto non ha richiamato specificatamente le società a fornire ai dipendenti periodi di riposo addizionali o nel complesso un miglior bilanciamento tra lavoro e vita.

La produttività è proprio quel tipo di concetto che rientra nell’arena dell’assistenza sanitaria quando i datori di lavoro ne sono i fornitori primari. Nella mentalità della produttività, la salute non è positiva per il benessere della persona, ma soltanto nella misura in cui è al servizio dell’interesse del datore di lavoro. E all’interno di questa mentalità, il costo della salute compromessa di un lavoratore è solamente un’altra spesa da tagliare.

Una ricerca recente suggerisce però che i programmi di wellness non stiano nemmeno portando a termine gli obiettivi di promuovere la salute o aumentare la produttività. In uno studio su larga scala, 33.000 impiegati dei BJ’s Wholesale Club [magazzini di vendita all’ingrosso per abbonati, Ndt] sono stati assegnati casualmente a un gruppo che prendeva parte al piano di wellness o a un gruppo di controllo che non lo faceva. Lo studio, pubblicato su JAMA ad aprile, dimostrava come mentre i lavoratori mostravano uno slancio in qualche attività di educazione sanitaria con autovalutazione, non c’erano cambiamenti significanti circa le misure cliniche della salute, l’assenteismo o le prestazioni sul lavoro – tutti presunti indici di risparmio per i datori di lavoro.

E in ogni caso, come fanno questi programmi a valutare la salute? Sfortunatamente, il concetto di “salute” è quasi tanto confuso e difficile da determinare quanto quello di “produttività”. Nello studio della catena BJ’s, le persone coinvolte in questi programmi non hanno diminuito le loro IMC, il colesterolo o i livelli di glucosio nel sangue in modo tale da giungere a qualche differenza significativa dal gruppo di controllo. E inoltre quei presunti marcatori della salute difficilmente sono neutrali – che l’idea della perdita di peso, per esempio, sia per natura salutare è nella migliore delle ipotesi non scientifica e grasso-fobica e nella peggiore pericolosa. Molti dei dati biometrici impiegati nei piani di wellness presentano simili difficoltà – per esempio il programma della Virginia Occidentale indica il livello di colesterolo totale come “accettabile”, mentre i Centri per il Controllo delle Malattie e Prevenzione adesso distinguono tra tipologie di colesterolo “buone” e “cattive”.

In generale, semplici numeri non possono includere tutto ciò che è necessario per essere un individuo sano. Un focus ossessivo su quei dati può perfino danneggiare i lavoratori che hanno disabilità o disturbi alimentari o che semplicemente non vogliono essere costretti a pensare ai loro corpi sul posto di lavoro.

Esiste infatti una ricerca che dimostra l’impatto negativo dei programmi di wellness aziendali. In un articolo del 2015 intitolato “I datori di lavoro devono cancellare i programmi di controllo di peso per i dipendenti”, l’American Journal of Managed Care ha affermato che tali programmi potrebbero aver un impatto negativo sul morale dell’azienda ed essere dannosi per la salute dei dipendenti. Gli autori hanno sollevato preoccupazioni circa il fatto che le campagne di wellness potrebbero incoraggiare diete drastiche, l’umiliazione di dipendenti di peso maggiore ed episodi di sovradiagnosi per i troppi screening.

Lo studio dell’AJMC ha inoltre avvertito del fatto che i dipendenti potrebbero iniziare a «essere infastiditi dalle intrusioni delle società» – ma tali intrusioni nella salute del lavoratore stanno sfortunatamente diventando la norma, persino senza lo strumento diretto di un piano di wellness sponsorizzato dall’azienda.

I dipendenti di diverse aziende mi hanno raccontato di competizioni in stile il “più grande perdente” nei loro uffici, innescate sia dall’alto verso il basso dalle risorse umane e tra i dipendenti al centro di un’atmosfera che premiava la perdita di peso, mettendo in conflitto i lavoratori per vedere chi riusciva a diminuirlo di più. Un impiegato nelle pubbliche relazioni mi ha detto di un programma della società dove la perdita di mezzo chilo veniva ricompensata direttamente in dollari. Un assistente sociale mi ha raccontato di un seminario sul lavoro su “stress e nutrizione” che ha esordito con una presentazione delle risorse umane sull’importanza di mettersi a dieta. Perfino la gratifica apparentemente più innocua, come pranzi salutari gratis, può essere sottilmente invasiva – non solo perché permette ai datori di lavoro di osservare quello che i dipendenti mangiano, ma anche perché rinforza in generale la licenza del capo di tenerli d’occhio.

Questa prospettiva può sembrare lievemente paranoica, ma i datori di lavoro stanno effettivamente controllando sempre di più i dipendenti, con più strumenti a disposizione che mai. Ci sono casi estremi ovvi, come l’azienda del Wisconsin che inserisce microchip nei lavoratori, apparentemente a scopo di accesso, o il sistema di tracciamento e licenziamento automatico di Amazon, che può monitorare e punire i dipendenti senza l’intervento umano. Allo stesso modo, anche i “benefici” del wellness possono fornire opportunità di sorveglianza. Ad aprile sono emersi dei rapporti secondo i quali un’app di tracciamento della fertilità chiamata Ovia mandava dati personali sulle dipendenti ai datori di lavoro, includendo, secondo il Washington Post, dati complessi circa nascite ad alto rischio e tempistiche di ritorno sul posto di lavoro, così come informazioni specifiche circa la cronologia di ricerca su internet (argomenti che includevano fare domanda di disabilità, come gestire i dolori e fare sesso in gravidanza).

E nel 2017, i repubblicani alla Camera hanno presentato una proposta di legge chiamata “Preserving Employee Wellness Programs Act” [Legge di salvaguardia dei programmi di wellness aziendali, Ndt], che avrebbe rimosso alcune protezioni della privacy dei dipendenti che scelgono di condividere informazioni mediche attraverso un programma di wellness aziendale. La proposta di legge è stata bloccata durante le votazioni della commissione parlamentare, ma ciò nonostante rappresenta il consenso emergente sulla sostenibilità della massima sorveglianza del management aziendale nelle questioni della salute sul posto di lavoro.

 

 

Un’app che manda dati al datore di lavoro sul tuo ciclo mestruale e una macchina che ti licenzia in un magazzino Amazon potrebbero sembrare ben distanti in termini di sorveglianza intrusiva sul posto di lavoro. Esistono però sullo stesso continuum di base orwelliano, estendendo ancora di più il controllo delle società nelle vite private dei lavoratori.

Oltre a essere invasivi e inefficaci, i programmi di wellness aziendali sono spesso discriminatori, in particolare nei confronti di persone con disabilità. In una serie di azioni legali dal 2014 al 2016, la Equal Employment Opportunity Commission (EEOC) [Commissione per le pari opportunità di lavoro, Ndt] ha accusato le aziende di punire ingiustamente i dipendenti che non prendevano parte a questi programmi o agli screening, violando perciò l’Americans with Disability Act [Legge degli americani con disabilità, Ndt], che afferma che i datori di lavoro non possono richiedere esami medici a meno che non «siano relativi al lavoro».

L’EEOC ha fondamentalmente fallito nel convincere i tribunali di questo argomento. Nel frattempo, le linee guida dell’agenzia stessa che regolano i programmi di wellness hanno attirato ricorsi giudiziari dall’American Association of Retired Persons (AARP) [Associazione americana dei pensionati, Ndt], tra gli altri gruppi di difesa. L’AARP ha ottenuto una grande vittoria quando, nel 2017, un tribunale ha deliberato che le linee guida dell’EEOC fanno sì che i datori di lavoro penalizzino troppo i dipendenti se non partecipano ai programmi di wellness. Per quanto riguarda gennaio, l’agevolazione dell’ACA di vincolare fino al 30 percento del premio assicurativo alla partecipazione è stato revocato. Adesso, dice Dara Smith, avvocatessa anziana alla Fondazione AARP, molti sono confusi circa quali norme siano ancora valide e alcuni pensano che «semplicemente non esiste nessuna legge». E aggiunge: «Ci troviamo nel selvaggio west» in termini di norme circa i programmi di wellness aziendali.

L’AARP continua a sfidare i programmi di wellness in tribunale. A luglio, i legali dell’AARP hanno depositato una causa collettiva a nome dei dipendenti dell’Università di Yale, che dovevano fronteggiare multe di più di 1.000 dollari per non aver rivelato informazioni mediche private come parte di un programma di wellness.

Ma un approccio legale sul posto di lavoro, lento e suscettibile di battute d’arresto e inversioni, non arginerà la marea crescente dei programmi di wellness. Quindi cos’è che lo farà?

Un approccio diretto sarebbe quello di eliminare completamente l’assicurazione pagata dal datore di lavoro. I programmi di wellness sono la logica conclusione di un sistema che, invece di trattare l’assistenza sanitaria come un diritto umano fondamentale, incanala i problemi di salute e benessere in una categoria econometrica ristretta e spietata. L’assistenza sanitaria in questo paese sarebbe più semplice e più umana se i datori di lavoro fossero semplicemente rimossi dall’equazione.

In effetti, l’argomento contro un sistema a pagamento unico, che sottolinea l’importanza della “scelta” nell’assistenza sanitaria, ignora una realtà angosciante: quando si tratta di assistenza sanitaria, i dipendenti sono in balìa dei loro datori di lavoro, che di solito prendono decisioni sulla base dei costi, non su ciò che è meglio per la salute dei dipendenti. I lavoratori continuano spesso a fare lavori che danneggiano attivamente la loro salute, che sia per il livello di stress sia per le lunghe ore, solo per mantenere l’accesso a una copertura sanitaria inferiore alla media. Uno sforzo nazionale per eliminare tali pressioni è un passo fondamentale.

Ma anche con un sistema Medicare-for-All [assistenza sanitaria accessibile a tutti, Ndt], i datori di lavoro eserciteranno comunque un’enorme influenza (e spesso negativa) sulla salute dei propri dipendenti, attraverso bassi salari, lunghe ore, poche pause e poco tempo libero. Queste tendenze sono diventate endemiche sul posto di lavoro negli Stati Uniti, dove la settimana lavorativa di 40 ore è pressoché scomparsa. Molti lavoratori non possono permettersi di vivere con un unico lavoro, mentre i datori di lavoro sembrano aspettarsi regolarmente che i lavoratori siano sempre disponibili, sia che si tratti del centro logistico di Amazon che sfrutta i dipendenti fino all’osso o gli uffici che pretendono una presenza costante al telefono e per email.

Per affrontare il tipo di problematiche quotidiane che possono portare a cattive condizioni di salute, i lavoratori potrebbero guardare agli scioperi degli insegnanti della Virginia Occidentale per trovare motivazione. Nicole McCormick è un’insegnante nella contea di Mercer, nella Virginia Occidentale, e la presidente del sindacato locale. Mi ha raccontato che una volta che i suoi colleghi hanno visto che le loro attività mediche venivano monitorate, sono stati fortemente motivati a unirsi e, infine, scioperare, dicendo «non siamo cani addestrati, che premi il clinker e ci dai il biscottino, che noi cediamo e facciamo quello che vuoi». Quando si tratta di salute e sicurezza, i sindacati parlano spesso di concentrarsi sul pericolo, non sul lavoratore: elimina il pericolo (per esempio, fornendo attrezzature ergonomiche per ufficio) e il potenziale danno (lesioni da stress ripetitivo) scompare. Attraverso l’organizzazione, i lavoratori possono costringere i propri datori di lavoro ad apportare dei cambiamenti sul posto di lavoro che li aiuteranno a rimanere in buona salute.

Inoltre, ciò che lo sforzo sindacale mostra è che l’assistenza sanitaria è una questione olistica. Se anche riuscissimo a eliminare il flagello dei programmi di wellness aziendali, degradanti e inefficaci, avremmo comunque bisogno di affrontare, attraverso lo sforzo collettivo o con delle riforme del governo, tutte le modalità con cui i datori di lavoro influenzano la nostra salute. Quando si tratta di assistenza sanitaria, non stiamo parlando soltanto di copertura assicurativa – per definizione stiamo anche mettendo in luce questioni come un salario di sussistenza, un ragionevole equilibrio tra lavoro e vita, un mondo più umano.

 

Articolo apparso in lingua inglese sul sito The New Republic

Traduzione italiana di Serena Tarascio per DINAMOpress