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CULT

Essere autori

Essere autori (come essere lavoratori produttivi, come essere dei soggetti) è una disgrazia. Per chi lo è e per chi lo subisce. Elenchiamo qualche dato di fatto, uscendo fuori dall’ambito strettamente artistico-letterario.

Partiamo dal vocabolo: auctor, da augere, greco auxanein, far crescere, prosperare rinforzare, esagerare, promuovere), chi fa, produce, promuove, produce o fa produrre, porta alla luce quanto non esisteva o sviluppa una cosa già esistente, chi dà vita, valore e durata. Sostenitore, tutore, garante, autorità, istigatore. Ovviamente connesso con auctoritas e augurium, componenti simboliche del potere.

Nel mondo antico e alto-medievale il termine è essenzialmente giuridico (sacrale) e politico, la sua applicazione alla creazione artistica è marginale, ciò che si spiega con il carattere “artigianale” dell’operare artistico e con la vicinanza della póiesis alla materia privata, contingente e corruttibile, laddove la praxis (morale, politica, performativa) è pubblica e si connette alle più nobili facoltà dell’anima. È solo con il Rinascimento italiano che l’arte si libera dal “pregiudizio” artigianale (che ovviamente può essere inteso, a rovescio, come un merito, vedi Arts and Crafts e indirizzi analoghi) e l’accento cade sul “genio”, ivi compreso il binomio “genio e sregolatezza”, rilanciato alla stragrande dagli interpreti romantici.

Persone più competenti di me diranno delle controversie contemporanee dell’autorialità in campo artistico, sia nel più tradizionale settore dell’opera individuale (lo scrittore o il musicista davanti al foglio bianco, il pittore con i pennelli o la bomboletta di acrilico, ecc.) che in quello dell’impresa collettiva con molti comprimari (il cinema, ma già il teatro di prosa e musica). Tutti settori in cui, a prescindere dell’impronta artigianale o imprenditoriale della fattura, al termine c’è comunque un pubblico, che chiude il cerchio con discorso e soggetto dell’enunciato – un tema su cui Foucault e Barthes hanno scritto qualcosa di decisivo.

Vorrei limitarmi a un aspetto giuridico-politico, in cui l’autore (ancora senza l’alone mistico dell’artista creativo) è un altro nome per il soggetto – altro supporto di sfiga nelle relazioni sociali.

Se in epoca romana repubblicana l’originaria potestas popolare viene ben presto subordinata all’auctoritas del Senato, cui con il cristianesimo subentra l’autorità della Chiesa, espressione concreta del governo divino sul mondo, saranno i Comuni a riscoprire la politìa, un dispositivo operativo ed elettorale democratico per tenere al loro posto le oligarchie feudali. Contro questa pretesa della plebe dissoluta si leva, nella modernità, la risposta di Hobbes, che però non può appellarsi più all’auctoritas di un Senato o di un comando divino in veste cattolica e deve cambiare destinazione d’uso all’autore affinché l’autorità venga trasferita in mani più sicure.

Nel cap. XVI del Leviathan l’Autore (the people) autorizza l’Attore (the King) ad agire in suo nome, gli cede anzi il monopolio dell’agire, in cambio della tutela della pace, e si impegna a obbedirgli ciecamente; nei regimi liberali il rappresentato elegge e delega I propri rappresentanti, con la stessa abdicazione all’azione e qualche garanzia personale in più.

L’auctoritas si riunifica con la potestas effettiva e formalmente deriva dal soggetto individuale aka autore. Fottuto e contento, mentre l’attore se la gode.

Solo la potentia non ha autori né soggetti, ma semplici agenti conflittuali delle relazioni.

Il soggetto, una volta che si è spogliato del suo presunto potere a favore di qualcun altro (ennesimo avatar dell’Uno cui si presta obbedienza perché così va il mondo) si definisce ormai per interpellazione, deve presentare “documenti” in quanto sospetto “autore” di reati. Chi non avesse presente a cosa si riferiva Althusser denunciando la costituzione del soggetto mediante “interpellazione” si guardi il video virale di quella “musclée” a Mantes-la-Jolie. Evidentemente essere un soggetto, un autore, un lavoratore produttivo è una disgrazia – una sfiga, ein Pech, diceva Marx.

O almeno dipende da per chi l’autore produce, porta alla luce, autorizza, crea. Quel chi qualifica, sussume e gestisce l’autorialità. I rari autori autentici se ne fregano di tale qualifica – ce lo vedete un Lev Nikolaevič o un Charlie Parker che si sbattono a tal fine? Tanto i soldi già ce l’avevano oppure non gli bastavano mai. L’aureola è cascata nel fango di un boulevard parigino a metà Ottocento e nessun più la raccatta, mentre sul palco degli autori laureati si affollano chef, stilisti, influencer del web e creativi assortiti.

In siffatto contesto il discorso dell’Autore è una variante del discorso del Padrone. Senza che il cosiddetto autore comandi alcunché, al massimo intasca i diritti omonimi e si sente tanto fico.

Adesso, forza, articoliamo il discorso, cerchiamo di mostrare perché è un problema politico, come impatta nell’immaginario collettivo, come ci presenta un pezzo di realtà legittima e tanta fuffa ammorbante.