ITALIA

Elly, Elly… e le primarie Pd

Al momento il dibattito politico e social su Elly Schlein è tutto emozionale e gossipparo. Ha esordito con maggior efficacia dei fantasmi che la precedevano o ne contendevano il successo, sulle sue intenzioni per il partito stiamo a vedere e sulla guerra si muoverà con prodiana cautela, più lontana da Biden

Lasciamo che ognuno (tranne le merde antisemite e omofobe) legga il risultato delle primarie Pd secondo le proprie “pulsioni”, in attesa di sfogarle in lotte di massa vere, e parliamo degli effetti politici dell’ascesa di Elly Schlein e perché abbia sbancato lo sperimentato apparato di partito.

Lo statuto del Pd alla voce “primarie” è assurdo, distrugge la natura stessa di un partito sottomettendo la pur blanda militanza alle scelte di indirizzo e leadership di ancor più indefiniti simpatizzanti al costo di due euri, ma la sua ratio profonda e stavolta controproducente consisteva nell’illusoria certezza che allargando la platea dei presunti decisori sottratti a ogni dibattito interno fosse più facile far “scegliere” loro la rapida metamorfosi da un partito riformista di massa a un’oligarchia neoliberale indifferente agli interessi e ai desideri di massa. Ma il susseguirsi di sconfitte della formazione emersa dall’opzione veltroniana, fuori tempo massimo e mai rimessa in discussione, per la “terza via” ha prodotto un effetto controintuitivo: con il silenzioso allontanamento dei militanti più impegnati dal partito e il loro spostamento in aree periferiche (Sinistra italiana) o populiste (M5S, soprattutto dopo la sua riorganizzazione con Conte) o  addirittura, forse in misura preponderante, verso l’astensione, i non tesserati sono diventati più radicali di quanti erano rimasti nel partito per conservatorismo o per coinvolgimento nei sempre più ridotti privilegi  di sottogoverno e di pubblica amministrazione centrale e periferica.

La constatazione che un ciclo di fortune elettorali e di incidenza politica stava svanendo e l’evidente disgusto per il regime correntizio interno hanno fatto confluire un dissenso crescente dei tesserati (intorno al 35%, ma la maggioranza nelle grandi città, si era espresso nel primo turno delle primarie per Schlein) con il ritorno, in parte pilotato, di astenuti ed ex-militanti radicalizzati nel secondo turno “aperto”. I dinosauri provenienti dall’ex-migliorismo e dalla Dc (eccetto i più furbi, tipo Franceschini) si sono cullati nel tranquillizzante esito del primo turno e hanno affrontato il secondo con la faccia assonnata di Letta, Orfini e del “figlio del partito” Bonaccini. Per non parlare degli endorsement portasfiga di Fassino, Renzi e Calenda. Risultato, una tramvata pazzesca.

Fin qui la valutazione positiva di Schlein, al di là del grado di empatia (scarsa la mia, che ho pure diritto alle mie “pulsioni”), che si fonda esclusivamente – ma non è poco – sull’avversione per gli sconfitti, raddoppiata dai commenti furenti e spesso laidi della stampa mainstream e degli opinionisti al guinzaglio del neoliberalismo di centro e di destra.

Da adesso occorre però giudicare cosa in effetti Schlein vorrà e riuscirà a fare. Gli inizi sono stati promettenti, nel facile confronto con lo stordito e mugolante atlantista Letta.

Schlein è intervenuta con decisione alla Camera contro Piantedosi e si è presentata a Firenze e Crotone contro il vuoto di pronunciamenti e di presenza di Meloni – di quella Giorgia materna e cristiana che Letta e Bonaccini, con disarmante senso di opportunità avevano elogiato alla vigilia della sfida finale delle primarie. Meno chiaro è come rimaneggerà il partito, con quali sostituzioni nei posti chiave e con quali compromessi con le correnti, tenendo presente i condizionamenti rispetto a chi l’ha sostenuta (Orlando, Boccia e Franceschini) e a chi in potenza potrebbe sostenerla – l’area Cuperlo, circa un 10% dei circoli, che finora non l’ha riconosciuta, pur probabilmente votandola. Deve inoltre costituirsi un gruppo dirigente credibile e la scelta per esso (o l’autoproposizione) della sardina-capo Santoni sembra un cattivo segnale. Ma restiamo in attesa.

Promettente è invece la decisa presa di posizione contro il Jobs Act e a favore del salario minimo, nella misura in cui costringerà la Cgil a prendere una posizione chiara su questo obiettivo, rimuovendo il maggiore alibi offerto agli altri sindacati e alla destra di governo per mantenere i contratti pirata, i sindacati gialli di comodo e livelli salariali indegni. Promettente, naturalmente, nella misura in cui passerà dalla proclamazione alla pratica dell’obiettivo. Stesso discorso per la linea ecologica, il cui primo concreto riscontro è il discusso e tuttora futuribile termovalorizzatore di Roma, che finora ha incenerito alleanze elettorali nazionali e regionali con il M5S più che rifiuti urbani.

A proposito, lo schema delle alleanze cambierà, dopo il cocciuto istinto suicidario di Lette e dei suoi complici? Uno schieramento diverso, non urgente, da collaudare con le prossime regionali più che con le elezioni europee del 2024, dove si vota con il proporzionale, ma decisivo per l’impostazione strategica – se puntare a una convergenza larga a sinistra o sfruttare l’effetto primarie e ricambio per riassorbire voti in libera uscita verso M5S e SI. A breve si vedrà, intanto è caduto l’alibi termovalorizzatore, sul resto funzionerà il buon senso.

Resta l’Ucraina, l’invio di armi e in generale la guerra – che l’attuale Pd sostiene per l’Europa e Meloni vorrebbe estendere all’area indo-pacifica, magari fornendo i marò a Modi.

Questione cruciale, il cui andamento dipende in modo prevalente dall’evoluzione della situazione strategica – se cioè Usa e Russia e magari la Cina si mettono d’accordo per un cessate il fuoco e una soluzione “alla coreana”, ma che ha riflessi importanti per l’orientamento dell’Europa e qui conterà l’esito delle consultazioni del 2024 e l’eventuale maggioranza popolari-conservatori a traino polacco che potrebbe nascerne. E naturalmente per l’Italia, dove comunque è difficile che la coalizione di governo, malgrado le divisioni interne con i putiniani presenti fra gli alleati e dentro FdI, possa assumere una posizione moderata, dato che si regge proprio sull’atlantismo canino. L’unico punto su cui può far breccia Schlein, e scusate se è poco, è l’orientamento del Pd, il paradossale garante dell’unità della coalizione di governo e dunque dell’egemonia di Meloni.

Sappiamo benissimo che finora Schlein ha votato, esibendo patemi d’animo pacifisti, per l’invio di armi all’Ucraina, compreso il decreto-base per il 2023 – ed era impensabile che potesse candidarsi alla guida del Pd con un atteggiamento diverso. Manterrà quella scelta ora che è diventata segretaria e tuttavia deve garantirsi ancora il vero potere? Cosa possiamo aspettarci da lei nei prossimi mesi? Qui non dobbiamo guardare al suo passato e ai capicorrente che l’hanno appoggiata per sopravvivere, ma al suo vero sponsor, a Romano Prodi.

Quale forza ha Prodi? Non molta in Italia (a parte l’amicizia con Gentiloni e il grosso colpo con Schlein, la vendetta sui 101), ha invece buoni legami cinesi (ben anteriori a Xi); il suo europeismo lo fa schierare per l’asse franco-tedesco contro quello polacco-baltico e, risalendo ai signori dell’Impero, lo avvicina alla sinistra dem (per affinità generazionale a Obama più che AOC e BLM, che lascia alla pimpante allieva Schlein) e ai repubblicani pragmatico-riflessivi dell’esigua cerchia di Kissinger, insomma ai non-antipatizzanti verso l’Europa e ai fautori di un confronto concorrenziale non distruttivo con la Cina, che si distinguono dalla senile strategia sinofoba e spacca-Europa  di Biden. Quindi sul versante opposto della Meloni “polacca” e misogalla e adesso anche filo-Modi, nella speranza da mosca cocchiera di abbinarsi all’identitarismo indù costruendo un’alternativa alla Via della seta, nel quadro di un atlantismo illiberale. L’atlantismo liberale di Prodi (e Schlein) slitta invece verso un interesse per il piano di pace cinese che oggi acuisce i contrasti con Biden e servi Nato assortiti, da una parte, con i deliri nazionalistici di Putin dall’altro. Il confronto, afferma Prodi, in Ucraina è fra Usa e Cina (il ruolo della Russa è di facciata, offre solo il pretesto e il terreno dello scontro), quindi sono loro a dover trattare. Per questo il piano di pace cinese è un momento decisivo, rispetto a cui la diatriba su aggrediti e aggressori e la trattativa sui nuovi confini sono di peso ma secondari.

Tuttavia la spinta a una soluzione, che non dipende da Zelenskij e neppure da Putin, viene dallo stallo sul terreno, dall’esaurimento delle forze contrapposte e dal rischio di tracimazione dell’escalation.  L’andamento della guerra d’attrito diventa così la pietra di paragone delle scelte – sempre che gli Usa si comportino razionalmente, cosa di cui non hanno dato dimostrazione recente né in Siria né in Afghanistan, ma lo stesso vale per il 24 febbraio di Putin. Alla mediazione cinese si rivolgeranno una volta cadute tutte le illusioni di vittoria sul campo, sempre che non subentrino tentazioni nucleari. Solo in quelle circostanze l’Europa e il Vaticano tornerebbero a far sentire la loro voce e Schlein giocherebbe un ruolo che il Pd di Letta, nel suo ottuso atlantismo bideniano si era precluso. E allora sì che il progetto baltico-polacco di Meloni crollerebbe.

È poco? Certo, ma è una possibilità realistica che può aprirsi a ogni momento e che i generali Usa hanno diagnosticato con molta chiarezza. Se la guerra non si trasforma in rivoluzione come nel 1917-1918 (e non è il caso nostro), si ferma solo per esaurimento. Magari per prepararsi alla “vera” guerra, quella con la Cina. Per ora infervorarsi per le intenzioni di Elly o scomunicarla è fatuo. Quanto poi al Pd reggerà unito alla svolta Schlein è tutto da verificare, meglio aggiornarsi.

Immagine di copertina di Sinigagl da Openverse