ROMA

Due anni dopo Cardinal Capranica. Sgomberare non è mai la soluzione

A Roma, sempre più spesso, l’emergenza abitativa è trattata esclusivamente come ordine pubblico: si sgomberano le occupazioni e si lascia la gente in strada. Esemplare il caso dell’ex scuola media di Cardinal Capranica

Le immagini dello sgombero di Cardinal Capranica, con i minori costretti a portare in salvo i propri libri scolastici dalla violenza poliziesca, si sono impresse nella retina e nella memoria di migliaia di cittadini romani e italiani. La notte tra il 14 e il 15 luglio 2019, una straordinaria concentrazione di forze dell’ordine, dalla municipale alla celere, sin dalle 23,30 si era radunata nei pressi dell’ex scuola media don Calabria.

«Tutti i giorni prima dello sgombero c’erano gli elicotteri che venivano a volare sopra di noi, a filmare. Il giorno dello sgombero c’erano cinquanta camionette delle forze dell’ordine: più di quattrocento agenti tra polizia e carabinieri, guardia di finanza e vigili. Mia moglie è ancora traumatizzata».

A parlare è Sahid, uno degli occupanti. Sgomberato con moglie e figlio da Cardinal Capranica, Sahid ha vissuto per qualche settimana in strada, dentro la propria automobile. «Il giorno dello sgombero c’era l’assessore alle politiche abitative del municipio, Laura Baldassare, e lei ha ammesso chiaramente che non c’erano soluzioni: solo i centri di accoglienza per senzatetto».

A Sahid e ai suoi famigliari, addirittura, hanno proposto differenti destinazioni: «Io da una parte, mia moglie da un’altra e mio figlio da un’altra ancora: noi non abbiamo accettato. Abbiamo deciso di dormire per strada, dentro la macchina, per stare uno vicino all’altro, per non dividerci».

Arrivato in Italia dal 1990, Sahid nel tempo ha ottenuto la cittadinanza, ma nel 2002 è stato costretto a trasferirsi all’occupazione di Cardinal Capranica. Resta lì per ben diciassette anni: in quelle mura vede crescere il figlio, oggi venticinquenne, e sviluppa un buon rapporto con tutte le oltre trecentoquaranta persone occupanti. «Più di centoquaranta nuclei familiari, di tutte le nazionalità e culture: rumeni, italiani, marocchini, africani, anche asiatici. C’era una convivenza pacifica, tranquilla tra di noi, mai stato qualche problema». Dopo lo sgombero, il XIV Municipio e il comune di Roma hanno offerto soltanto due case popolari, altrettante ne ha messe sul piatto l’Azienda territoriale per l’edilizia residenziale (Ater). Altrimenti la strada o dentro i centri di accoglienza.

Radwan durante un’assemblea a viale del Caravaggio (immagine di Nicolò Arpinati)

Condizioni inaccettabili per Sahid, che soffre di diabete, ha un’invalidità civile al 70% e deve iniettarsi l’insulina regolarmente. Requisiti che lo inseriscono a pieno diritto tra i destinatari di una casa popolare. «Nei giorni successivi allo sgombero, c’era una macchina dei vigili davanti all’occupazione. Sono andato là e gli ho detto che mi avevano buttato per strada e non sapevo dove andare, che stavo dormendo in via Pietro Bembo, dentro la macchina.

Mi hanno detto di chiamare la Sala Operativa Sociale del comune», racconta Sahid tra dolore e incredulità: «Quando ho chiamato, mi ha risposto una persona molto arrogante. Ho spiegato che sono cittadino italiano, di origine marocchina, che sono malato, che ho l’invalidità civile al 70% e che devo iniettarmi l’insulina. Mi hanno risposto di andare sotto un palo della luce e fare lì l’iniezione. Oppure di entrare in un bar per farla».

Anche Radwan, che attualmente vive nello stabile occupato di viale del Caravaggio, ha dovuto affrontare una vicenda simile a quella di Sahid. Anche lui viveva a Cardinal Capranica, anche lui è invalido civile al 70%, per uno scompenso cardiaco.

Radwan non ha assistito allo sgombero: era in Marocco in quei giorni. Quando è tornato, non ha più trovato le sue cose: «Al mio rientro mi sono recato in comune e mi hanno detto che non c’era nulla per me. Forse potevano trovarmi un dormitorio, giusto per passare la notte». Radwan si è rimboccato le maniche e ha affittato un monolocale: «Spendevo 420 euro al mese, in nero». Troppo per lui. «Tre mesi prima dello sgombero di Cardinal Capranica, erano passati per un censimento e mi avevano confermato che, con la mia invalidità, non mi sarei dovuto preoccupare perché una sistemazione si sarebbe trovata. Invece nulla».

Le storie di Sahid e Radwan sono simili a quella di tant* altri e altre che sono stati buttat* fuori dall’occupazione dell’ex scuola media. Sahid ricorda un signore anziano, di circa settant’anni, malato terminale di cancro: «Lo hanno fatto uscire con la sedia a rotelle. Lo hanno buttato per strada così. Sono cose che non devono succedere in un paese democratico come l’Italia, in un paese di diritti: al lavoro, alla casa. I bambini sono ancora traumatizzati, si ricordano quel giorno. Ci hanno trattato come terroristi, come criminali. Con i bastoni, i manganelli, con le minacce».

Come Radwan, anche Sahid continua a vivere in occupazione: dopo il periodo passato in strada, lui e la sua famiglia sono entrati nell’ex clinica occupata di Valle Fiorita, in via di Torre Vecchia. «Qui mi trovo bene. Ho un tetto sopra le testa, ho una doccia per lavarmi, ho la luce, posso guardare la televisione: vivo da persona, da essere umano insomma». Vive anche con la paura di essere nuovamente sgomberato, soprattutto dallo scorso 11 di maggio.

In quella data, infatti, le forze dell’ordine hanno bloccato l’intero quartiere e sono entrate, manu militari, con la scusa di un censimento.

«Son venuti con casco e manganello. C’era mia moglie, io no: ha detto che era la stessa identica cosa che è successa a Cardinal Capranica. Dice che si ricorda pure le stesse facce che erano là, della polizia», racconta Sahid: «Ma per fare un censimento ci vogliono duecento persone? C’è bisogno di scavalcare da sopra il muro per entrare? Per fare un censimento bastano due persone che bussino, che entrino. Non fare i blitz come per arrestare un camorrista». Purtroppo, però, sempre più spesso le occupazioni abitative sono viste soltanto come un problema di ordine pubblico e non come espressione di un più profondo disagio sociale.

Sahid con Donatella, un’altra occupante di Villa Fiorita (immagine di Nicolò Arpinati)

«Noi non stiamo qua perché vogliamo stare qua: noi stiamo qua per necessità. Siamo costretti perché non sappiamo dove altro andare, non abbiamo altra scelta, non abbiamo soldi per affittare una casa. Quando lavoriamo, guadagniamo poco, pochissimo: non abbastanza per affittare una casetta, un monolocale a Roma». La soluzione, dunque, sarebbe quella indicata dalla trattativa in corso dall’altra parte della città, a viale del Caravaggio: uscire dall’occupazione con, in mano, le chiavi di un’abitazione. «Se davvero le istituzioni vogliono bene alla cittadinanza collettiva, allora devono pensare anche alle persone come noi. Devono sistemarci, non buttarci fuori, peggiorando le condizioni. L’importante è che uno esce da qua con la chiave di una casa in mano, non che esce da qua e non sa dove andare a dormire».

Immagine di copertina di Daniele Napolitano