MONDO

Dubai: la Cop28 nelle mani dell’industria fossile

La conferenza annuale ONU sui cambiamenti climatici è presidiata dall’ad di una azienda petrolifera: ormai la kermesse ha sempre meno l’ambizione di poter gestire gli effetti devastanti della crisi climatica

Si sta svolgendo in questi giorni la COP28 a Dubai, negli Emirati Arabi. Dopo l’incontro dello scorso anno in Egitto, l’annuale Conferenza ONU sui cambiamenti climatici è organizzata nel paese del Golfo Persico che basa interamente la sua ricchezza e il suo potere sull’estrazione di petrolio e gas fossile: sicuramente tra i paesi più “antiecologici” al mondo. Le immagini delle sue autostrade e delle sue città lussuose costruite nel mezzo del deserto, che consumano acqua ed energia in modo totalmente sregolato sono abbastanza esemplari.

Fin da quando è stata annunciata la decisione di svolgere la conferenza negli Emirati Arabi, è apparso chiaro che sarebbe stata una conferenza con poco margine per riuscire a incidere nelle scelte globali riguardanti l’incessante avanzare della crisi climatica.

Infatti, la scelta di Dubai non è solo geografica: il paese ospitante le COP è anche direttore dell’incontro, ha il ruolo di facilitare le discussioni e di mediare verso i documenti finali. Gli Emirati Arabi hanno scelto di far dirigere la conferenza al sultano Ahmed al-Jaber, amministratore delegato della azienda petrolifera di stato, la Abu Dhabi National Oil.  Lo stesso Al Jaber in un video fatto uscire dal “Guardian” poco prima della conferenza ha dichiarato che per fermare il riscaldamento globale non è necessario abbandonare i combustibili fossili perché «nessuna scienza lo afferma». Se non avessimo a che fare con la sopravvivenza sul pianeta Terra, si potrebbe anche ridere.

Ovviamente a Dubai ogni manifestazione è vietata, tranne un limitatissimo spazio all’interno dei padiglioni, e il movimento ecologista globale ha per lo più boicottato la conferenza, in modo ancora più netto rispetto a quanto accaduto durante la conferenza egiziana dello scorso anno. La conferenza di Glasgow nel 2021, che vide una delle più grandi manifestazioni per la giustizia climatica della storia appare ormai un lontano ricordo.

Non hanno invece boicottato l’incontro altri portatori di interesse, legati, guarda caso, all’industria del fossile. La COP28 è la più partecipata di sempre, quasi 100.000 partecipanti, il doppio dell’anno scorso, tra cui il 2.496 delegati che sono di sicuro lobbisti dell’industria fossile. Molti altri lo sono in modo meno evidente, mentre sempre più presenti sono pure i lobbisti a favore dell’industria globale della carne, la seconda per emissioni dopo il fossile, e che pertanto vuole tutelare i propri interessi in una conferenza la cui finalità dovrebbe essere ridurre le emissioni di gas climalteranti.

Il sultano Al-Jaber ha voluto però provare a distrarre l’attenzione dalle polemiche dei giorni precedenti l’apertura, guidando fin dai primi giorni l’approvazione del fondo globale loss and damage, ossia un fondo finanziato da più paesi ricchi per coprire i danni causati dal cambiamento climatico. Tale fondo è stato storicamente una istanza del movimento per la giustizia climatica, perché davanti alla costatazione che i paesi del Sud Globale – che meno hanno inquinato nella storia – sono i più colpiti dalla crisi climatica, si richiedeva che le riparazioni per i danni fossero finanziate dai paesi più ricchi e meno colpiti. Anche se veniva spesso nominato, tale fondo però non si concretizzava mai e veniva rimandato di COP in COP. In pompa magna quindi l’edizione nel Golfo Persico ha celebrato l’istituzione del fondo. La triste realtà è che è stato costituito per 550 milioni di euro, l’0,2% di quanto stimato come necessario. Giusto per dare una idea, l’alluvione in Romagna da sola ha causato danni per nove miliardi di euro.

Un altro tema è costantemente oggetto di dibattito a Dubai: la possibilità di continuare a investire nel fossile grazie alla tecnologia Carbon Capture and Storage, CCS. Il CCS è una tecnica vecchia, costosissima, altamente pericolosa, che si fonda sulla cattura di CO2 e la sua immissione sott’acqua o sottoterra.

La CO2 che si vuole immettere è però quella prodotta da fonti fossili, gas in primis, pertanto è una tecnologia che giustifica e fomenta gli investimenti verso le fonti fossili (esplorazioni, nuovi pozzi, nuovi gasdotti) con la scusa di nascondere, in modo rischioso, una parte della CO2 prodotta. Il CCS è green più o meno quanto lo è il nucleare che non a caso è spesso rilanciato anche a Dubai come sistema alternativo al fossile.

Inutile menzionare il ruolo dell’Italia alla conferenza. Non siamo soltanto il solito paese provinciale, arretrato su ogni tematica ambientale, siamo pure il paese che ha ora un ministro che davanti alla lettera dei paesi OPEC – che chiedevano di escludere dai documenti finali della COP28 la fuoriuscita dal fossile – ha chiosato con un “sarebbero stupidi se non facessero i loro interessi”. In fondo, a suo modo, Pichetto Fratin è pure coerente. Il governo Meloni è completamente piegato all’interesse di Eni e delle imprese più inquinanti: lo dimostra il fatto che nelle statistiche globali rispetto le politiche sul clima l’Italia è arretrata di 15 posizioni in un solo anno.

Infine, quando ancora mancano pochi giorni alla conclusione della conferenza, è già stato deciso di perpetuare la sua inutilità politica anche in futuro. Si è votato infatti che nel 2024 si svolgerà a Baku, capitale dell’Azerbaijan, non solo una dittatura che ha recentemente compiuto una pulizia etnica contro gli armeni nel Nagorno, ma pure un paese che basa interamente la sua ricchezza sulle fonti fossili.

Già a Glasgow tuttavia, nonostante la grossa mobilitazione, si poteva intuire che le COP stavano ormai diventando spazi in cui la negoziazione era solo una facciata, dove incidere era sempre meno possibile. Sono pure conferenze che hanno fallito a distanza nel tempo, perché anche gli Accordi di Parigi – spesso citati come una vittoria – a oggi non sono rispettati praticamente da nessun paese al mondo e pertanto è lecito domandarsi a cosa possa servire la COP se nessun impegno è vincolante. Il famoso “blah blah blah” con cui Greta Thunberg stigmatizzava la conferenza un paio di anni fa si è materializzato nella convinzione che gli spazi di decisione hanno luogo altrove e che di conseguenza anche le mobilitazioni vanno costruite altrove. In questi giorni, a conferma di ciò, si sono susseguite azioni e mobilitazioni di movimenti ecologisti in varie parti d’Italia e del mondo, inclusa una grossa azione di Extinction Rebellion in contemporanea a Milano, Torino, Bologna e Roma.

Mentre la COP continua nella sua farsa, il tempo per agire rispetto al disastro climatico si riduce drammaticamente. Le statistiche e le ricerche sono sempre più allarmanti e molte stanno venendo pubblicate proprio nei giorni della COP28, forse con la speranza di poter suscitare qualche preoccupazione.

Il 2023 è l’anno più caldo da quando si registrano le temperature e già nel corso dell’anno si sono segnate giornate in cui la temperatura globale è stata di 2 gradi superiore rispetto all’inizio dell’epoca industriale. I due gradi erano la soglia che a Parigi si decise di non superare, appunto. Inoltre, le emissioni di CO2 continuano a essere in aumento rispetto all’anno scorso. Ricordiamo che dovrebbero essere dimezzate entro il 2030 per poter contenere gli effetti più devastanti.

Non solo, altre ricerche dimostrano che effetti collaterali del cambiamento climatico stanno causando danni incontrollabili a catena. Cinque importanti soglie naturali stanno già venendo superate: lo scongelamento del permafrost in Siberia, lo sbiancamento della barriera corallina, l’indebolimento della Corrente del Golfo, il collasso di grandi iceberg dell’Antartide occidentale e della Groenlandia. Altri due soglie sono a rischio: la distruzione delle foreste di mangrovie tropicali e di parte della foresta boreale. Gli scienziati avvertono che quando questi processi saranno conclusi e la soglia di ciascuno sarà definitivamente superata, potrebbe alterarsi in modo permanente il funzionamento del pianeta. Non è facile provare ad avere ottimismo, tanto più quando da due anni a questa parte il sistema capitalista è tornato a investire in modo dirompente in una delle industrie più inquinanti al mondo: l’industria bellica.

Immagine di copertina si International Labour Organization, tratta da Flickr. Immagini nell’articolo, tratte da Flickr UN Climate Change