approfondimenti

CULT

Dieci anni all’inferno: storia dell’altra editoria

Primo Moroni e Bruna Miorelli raccontano gli esperimenti dell’editoria indipendente degli anni ’60 e ’70: come i movimenti abbiano voluto svincolarsi dalla grande distribuzione tra successi e difficoltà ma seminando in ogni caso i germi di una nuova storia culturale e politica

“Un brivido di rivincita” corre nella schiena dell’”intellighenzia” ufficiale italiana. Quanto si è mormorato per anni nei corridoi delle case editrici ora lo si scrive a chiare lettere sui giornali: la generazione del ’68 non ha prodotto nulla. Quanto a cultura in senso stretto, pochi i libri e brutti, solo cronache di lotta e testimonianze “lette-una-tutte- uguali”. I giovani contestatori, insomma, non hanno scalzato nessuno, il “Gruppo 63” continua a mantenere il monopolio della cultura italiana e Arbasino può dire che i giovani scrittori non esprimono che un grande vuoto di memoria collettiva, senza neppure una cultura acquisita per poterla almeno rinnegare.

Dopo la politica, nel 75-76, i sessantottini hanno scoperto la letteratura ma quando si sono messi a produrre i risultati sono stati penosi. Vecchio stile ottocentesco o brutte scopiazzature della cultura mitteleuropea, di Hesse, di Artaud, di Bataille. Balestrini dalla latitanza risponde duro a questo attacco: «Il brivido di rivincita finirà in una farsa – anche se i vecchi intellettuali si trovano accanto i CC di Dalla Chiesa – La nuova politica, la nuova cultura è molto più ricca e forte della vuota violenza che le si oppone. Il ’68 iniziò un lungo periodo di frustrazione per gli intellettuali italiani che ha determinato la perdita definitiva di ogni loro potere culturale. Si sono ritrovati maestri senza pensiero e senza discepoli. Nessuno li ha più ascoltati nelle università, attraverso i libri, la stampa, la televisione. Un nuovo sapere li ha scavalcati e ignorati, si è svolto di là di loro, totalmente fuori dalle istituzioni in cui regnavano e che non è stato necessario occupare né abbattere» (da una intervista a Panorama del 9/7/79).

Proprio da qui nasce il livore e, nel migliore dei casi, l’incomprensione verso tutto quanto prodotto e diffuso dal movimento, dalla rete di piccole tipografie, ciclostili, offset, editori-librai, tipografi-editori, librerie democratiche, cooperative editoriali e di distribuzione. Per costoro non sarebbero altro che zavorra, sottocultura, le tonnellate di carta scritta da aree del movimento in perenne trasformazione attraverso una piccola editoria militante fatta di strane figure che hanno sconvolto la tradizionale organizzazione del lavoro editoriale ricomponendo mansioni divise e creando nuove specializzazioni.

Oramai, il dubbio serpeggia anche nel movimento. In questi anni si è certo riusciti a cambiare il costume, ma spesso ci si chiede se non è poi vero che ai cervelli dei Quaderni Rossi e del Gruppo 63 sia mancata una generazione di ricambio e che la Kultur alla lunga abbia retto. Fachinelli mette i puntini sulle i: «Ogni cambiamento profondo non può che nascere da una sfera extra- culturale, essendo prima un cambiamento di vita. È dopo lì, a un certo punto, che si rifanno i nodi, le reti culturali. È ovvio quindi che il ’68 abbia prodotto i volantini. Chi dice che non ha prodotto nulla è perché ragiona con la mente di chi è già dentro una certa cultura affermata, costituita, che si tratta solo di perpetuare. Ma accanto al volantino c’è stata la forma di scrittura in stretto rapporto con esso, quella delle riviste»: Quaderni Piacentini, Primo Maggio, Aut Aut, Sapere, Ombre Rosse, l’Erba Voglio, A/Traverso, per citare le più note. Su questo terreno difficilmente qualcuno può dare dei punti. Le riviste più vive sono state e sono tuttora proprio quelle della nuova sinistra. La cosa è tanto più rilevante se consideriamo il fatto che questo è uno dei settori più vitali della cultura, dove i laboratori di idee, spesso di persone che fanno anche vita insieme, producono dei dibattiti trasmessi in tempi ristretti su un territorio molto vasto, riuscendo così a stimolare e a promuovere nuovi comportamenti anche nella provincia più lontana. L’effetto moltiplicatore della rivista è stato, tranne qualche caso che si può contare sulla punta delle dita, sempre superiore a quello del libro.

Ma il libro resta pur sempre uno strumento essenziale di trasmissione del sapere, e quel vuoto di cultura, pure in presenza di un assorbimento notevole di informazione e di un’alta scolarizzazione è forse imputabile al consumo esclusivo di radio libere e del proprio giornale di movimento. Il passaggio alla produzione del libro per il movimento rappresenta un problema. Prodotto di forzature, privo di una reale maturazione, si è risolto quasi sempre nel libro-documento, nel libro che insegue l’attualità, nella finta riflessione o nel resoconto delle lotte. Se il lavoro di controinformazione nei primi anni post-68 era coperto da riviste e opuscoli, il libro, spesso arida rimasticatura dei classici del marxismo e storia della propria organizzazione, serviva alla scuola quadri. Nella fase del “personale è politico” siamo poi passati ai diari, ai manuali sulle erbe, sul corpo e sulla droga, per arrivare alle tristi storie fatte dagli ex- leaders per la commemorazione del decennale. «Il libro è una cosa specifica, implica una riflessione più lunga, un ritmo temporale diverso da quello dell’attualità», e invece lo spessore teorico sembra essere assente tra i dirigenti politici di questo decennio, quasi fosse appannaggio della generazione culturale precedente dei Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Bologna, Negri.

Quello dei libri, insomma, non è un saldo attivo per l’editoria militante. Il rapporto tra giovani di movimento e scrittura è dei più difficili. Pur se la riscoperta della letteratura e della poesia, la profonda rivoluzione del linguaggio imposta dal movimento ’77 e soprattutto la grande, potente trasformazione del costume e della realtà non potranno non avere esiti letterari, anche se in tempi lunghi e probabilmente per opera di una generazione nuova che non è quella dei “politici”. I presupposti ci sono, ma anche una grande domanda insoddisfatta, come ha mostrato il festival dei poeti di Castelporziano.

Il sottobosco delle piccole case editrici e delle micro iniziative di stampa è, comunque, più vivo e vegeto che mai. Senti sempre più gente parlare in termini di costo a pagina, battuta, formato, sedicesimi, tesa a riprodurre in proprio la comunicazione letteraria, poetica e politica puntando all’autosufficienza anche in termini tecnici. A Bologna, Roma, Milano e nella “provincia” è in corso un nuovo fenomeno: almeno dieci piccole editrici in simbiosi con tipografie funzionanti a macchinari poveri, hanno acquistato la offset piana che costa pochi milioni e che permette una buona stampa, e pubblicano anche con tirature molto basse passando poi per un circuito alternativo nella distribuzione. Il fenomeno già conosciuto in Germania in seguito alla brutale repressione esercitata dalle autorità verso qualsiasi forma di produzione non istituzionale, ha trovato da noi altre sollecitazioni, altri moventi.

 

 

La voglia, per esempio, di non dare il tuo prodotto in mano all’industria culturale, di non farlo circolare per canali incontrollabili, il gusto di un lavoro creativo, non parcellizzato e qualche volta anche quello di essere minoritari, la sensazione di portare avanti una ricerca essendo liberi da costrizioni e infine, il piacere del testo quando «Segui dal principio alla fine le bozze, l’impostazione grafica, la copertina, e vedi nascere il libro come una creatura», come dice Maria Caronia che lavora mezza giornata alla Guanda, dedicando tutto il resto del suo tempo alla Edizioni delle Donne e trovando solo nella cooperativa di libri “femministi” la propria realizzazione. Prima di esserne respinti, molti degli autori che pubblicano nell’editoria di base hanno avuto un qualche rapporto con le case editrici affermate. Rapporti difficili perché legati a giri particolari di amicizie con intellettuali conosciuti, direttori i di collana e docenti universitari. Anche quelli che sono riusciti a pubblicare con esse hanno incontrato dei problemi, magari relativi solo all’ammontare dei diritti d’autore su tirature e vendite che non puoi controllare.

Non è che l’apparato industriale della cultura eserciti una forma di repressione esplicita nei confronti delle intelligenze emergenti: semplicemente le ignora. A lungo snobbò, per esempio, un’esperienza come quella dei Quaderni Rossi. Tollera con difficoltà nuovi autori che non siano immediatamente riconducibili a categorie letterarie affermate, quelle dei Moravia, dei Calvino, dei filoni americani, e così via. Arriva spesso ad assumere — anche se in ritardo e quando la struttura interna degli operatori culturali nei suoi assetti lo permette — il personaggio che faccia da tramite diretto con i settori di movimento. Per lo più il nuovo talento viene individuato attraverso le sue prime pubblicazioni su riviste o nella piccola editoria, facendo assumere a quest’ultima una funzione di setaccio, ma ancor più la grossa editrice tende a confezionare essa, dall’interno, libri e autori in un’opera di puntuale pianificazione.

La separazione tra queste forme di editoria è netta. C’è nelle grosse editrici un preciso progetto culturale che quasi sempre manca nelle piccole, le quali però hanno percorsi culturali più agili e soggetti a modificazioni. Ancora: c’è la programmazione dei titoli, elemento basilare e impianto di tutta la politica editoriale, le 80-90 piccole case che operano oggi in Italia fondano invece la loro esistenza proprio sul contrario, non tanto perché manchino di strutture, organizzazione del lavoro, personale adatto e sufficiente, ma perché ciò che conta ed è vitale per loro è uscire con il libro giusto nel momento giusto. Per realizzarlo bastano anche due o tre mesi. Il pubblico col quale comunicano è ristretto, il bisogno cui dare risposta spesso è emergente o in via di formazione, per cui le tremila copie di media di tiratura sono quasi sempre sufficienti.

Per questo molte volte la piccola editoria si trova a giocare d’anticipo rispetto a fenomeni sociali che poi esploderanno o alla riscoperta di filoni che in seguito verranno rivangati dalla grossa editoria. È stato il caso del libro su Radio Alice pubblicato nel dicembre ’76 da l’Erba Voglio che al momento non ebbe nessuna risonanza e che poi alimentò un interesse enorme sul linguaggio, radio libere, nuova immaginazione: tutti elementi che troveranno la carica dirompente nella primavera del ’77. È stato il caso della riproposta dei poeti surrealisti, delle grandi scrittrici del passato come Virginia Woolf, ripresa dalle edizioni « femministe » e poi ristampata in grandi tirature dai grossi editori sempre pronti a cogliere al volo le indicazioni.

Guardiamo il caso della Tartaruga, Dalla parte delle Bambine ed Edizioni delle Donne. Queste tre case editrici nate in stretto rapporto col movimento femminista, con i fogli e le riviste che sono state primo momento di comunicazione del movimento, con collettivi di discussione sulla scrittura come quelli romani e della Libreria delle donne di Milano, propongono storie di donne, cronache di lotta, libri per piccolissimi, trasformano classici in fumetti, creano manuali di autoeducazione, pubblicano scrittrici e poetesse affermate e sconosciute in un dialogo che per una fase è tutto interno al movimento. Immediatamente la grande editoria entra in concorrenza sul loro medesimo terreno e sul piano della traduzione di autrici straniere riesce ad avere decisamente la meglio. Così quando la Edizioni delle Donne decide una certa traduzione trova che i diritti sono già accaparrati dalle rivali più forti, e quando chiede “Le lettere di Silvia Plath” si sente proporre cifre talmente vertiginose da dover rinunciare all’idea. Non è semplice insomma portare avanti una proposta culturale: sono innumerevoli gli ostacoli di tipo economico e può anche succedere che un autore straniero, importante in un certo contesto politico, venga invece tenuto fermo per cinque-sei anni nei cassetti di una casa editrice che ne ha acquistato i diritti.

Ciò che mantiene in vita esperienze come quelle della piccola editoria di movimento è il filo diretto intessuto con un pubblico specializzato che nella sua produzione vede quasi un marchio di garanzia e che si riesce a raggiungere con costi sopportabili grazie alla rete di librerie di sinistra e alla distribuzione alternativa. Questi canali, a volte, funzionano più di quelli ufficiali. Ottaviano, un piccolo editore che per primo ha scelto il linguaggio del fumetto, importando l’esperienza cilena dei fumetti di Unidad Popular, usandolo all’inizio in modo del tutto strumentale, passando poi per il discorso didascalico alla Brecht e arrivando infine alla ricerca specifica sull’immagine e il mezzo, per poter reggere è dovuto passare dalla grande distribuzione alla media. «Una casa come la nostra non ha interesse a raggiungere tutte le librerie in modo indiscriminato. Per farlo avresti bisogno di una tiratura di sei-sette mila copie quando sai che la tua utenza non supera in media le tre mila, il resto sono rese, quindi costi altissimi. Invece voglio arrivare alle librerie frequentate da quello che so essere il mio pubblico, e lo posso fare solo con una distribuzione particolare».

Quello della distribuzione è il problema per eccellenza, mai risolto una volta per tutte. Chi si avvale della grande distribuzione ha la sicurezza di venire pagato, anche se a 120 giorni regalandole un margine di valuta di due mesi visto che i libri la pagano a 60 gg., ma deve sopportare una tiratura esagerata rispetto alla vendita. Chi si serve della Punti Rossi e di altre strutture non può contare certo sulla puntualità dei pagamenti ma ha la sensazione di raggiungere meglio il suo pubblico e di non subire condizionamenti in termini di tempi di uscita, quantità di titoli, confezionamento esterno (pare che le Messaggerie abbiano preteso dalle Edizioni delle Donne una figura in copertina).

Il rapporto tipografia-casa editrice-distribuzione è dei più vari, c’è tutta una gamma che va da La Salamandra, nata da un tipografo (Com- pograf) che si è messo a fare il libraio e poi l’editore, a Stampa Alternativa, che produce e diffonde in modo assolutamente autonomo. Finora le tipografie italiane hanno stampato quasi di tutto senza porre veti al materiale di movimento. È da qualche tempo però che carabinieri e agenti della Digos sussurrano all’orecchio dei tipografi che è meglio lasciar perdere con certa roba, meglio non cercarsi rogne. Qualche mese fa, giubbotto antiproiettile e mitra spianato, hanno fatto irruzione alla Virgola di Catania che stampa “Anarchismo e Controinformazione”, sequestrando tutto l’archivio. Il potere ha mal tollerato la produzione editoriale alternativa di questi dieci anni e anche in passato non sono mancate forme di repressione diretta. Catalanotti non potendo pensare che non esistesse un collegamento centralizzato a dare il fuoco alle polveri del movimento ’77 nel maggio di quell’anno ordinò una serie di perquisizioni che colpirono le redazioni di Lotta Continua (e non fu l’ultima), Primo Maggio, Senza Tregua, L’Erba Voglio, Rosso, le librerie Calusca , Il Picchio, Porto di Mare, la Cooperativa di distribuzione Punti Rossi, le case editrici Ar&a, Bertani, Ottaviano. «L’Emilia rossa si vuole vendicare perché Alice ha scoperto che non esiste il paese delle meraviglie e criminalizza la comunicazione antagonista» si legge in un volantino di protesta cicl. in prop. uscito subito dopo.

Ma quali sono i percorsi culturali di questa disomogenea produzione? È vero che manca qualsiasi retroterra, che non c’è memoria collettiva? La periodizzazione ormai acquisita sono gli anni 68, 75, 77, anche se la divisione può sembrare arbitraria visto che il vecchio non sparisce ma si mescola al nuovo e che il nuovo nasce ben prima di quando non si affermi completamente.

Nel 68, benché di effettiva rottura culturale si tratti, c’è di tutto. Tutti i rivoli di un dibattito precedente legato alle diatribe della seconda e terza internazionale conoscono nuova vita. Non c’è molto dell’elaborazione degli anni 50-60 del PCI sulle due culture e sull’egemonia culturale del movimento operaio che veniva ricercata anche con mezzi come le case editrici democratiche — gli Editori Riuniti, la Editrice Sindacale, la De Donato — (recentemente ripercorsa da Ferretti nel suo libro II mercato delle lettere), ma vengono però riprese quelle parti emarginate della cultura e dei comportamenti soggettivi della generazione della resistenza tagliati fuori dalla storiografia ufficiale del PCI. Proprio contro la storiografia ufficiale, accademica e di partito, è una delle opere più diffuse in quegli anni, Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria, che fa la fortuna delle Edizioni Oriente, un piccolo collettivo editoriale che produce materiali sulla Cina della rivoluzione culturale e li diffonde in gran parte con una rivista: Vento dell’Est. Sul maoismo di nuova scoperta il Movimento Studentesco (poi MLS) innesta la cultura della resistenza, quella dei Secchia, il realismo socialista e certe tradizioni terzointernazionaliste. In termini editoriali questa spinta viene raccolta dalle Edizioni di Cultura Popolare, una delle tante piccole strutture in proprio che si davano i nascenti gruppi politici, ma anche da Mazzotta, da Bertani, da La Pietra.

A ritrovare vitalità sono però soprattutto gli esiti dei Quaderni Rossi, la sola grande rottura culturale di tutto il dopoguerra, l’esperienza che ha sprovincializzato il confronto teorico rompendone l’asfissia, da cui derivano i Quaderni Piacentini, tutto il filone operaista e in qualche modo anche il Gruppo 63. Un dibattito nato dentro la corrente, per così dire, leninista del PSI, e che arriva al 68 oltre che attraverso i Quaderni Piacentini, con Classe Operaia, Classe, Contropiano. Nasce un grande laboratorio in cui sono presenti stalinisti, libertari, consiliari, leninisti, operaisti, spontaneisti, che nella prima fase miscelano le tematiche più strettamente politiche con Marcuse, Laing, Cooper, la scuola di Francoforte, a quelle antiautoritarie largamente presenti. Ricordiamo l’effetto gigantesco che aveva provocato Lettera a una professoressa di don Milani, pubblicato da una minuscola editrice cattolica, la Libreria Editrice Fiorentina, nel suo rapporto organico col territorio. Se adesso ci sembra niente più che un atto d’accusa civile ma populista, allora raccolse tutta la radicalità aggressiva contro il sistema. Vengono consumati libri e simboli della lotta internazionale: Vietnam, Cina, Cuba. Le librerie Feltrinelli smaltiscono quintali di posters di Che Guevara. Al vecchio pubblico fatto di intellettuali, sindacalisti e funzionari di partito si aggiunge un nuovo tipo di acquirente, il giovane studente e operaio. Erano state una vera e propria invenzione queste librerie, nate parecchi anni prima recependo consciamente o inconsciamente il significato del luglio 60 e capendo quella generazione di giovani comunisti che avevano scatenato una specie di insurrezione nazionale contro un governo fascista — obiettivo se si vuole arretrato, ma che aveva messo in campo un antagonismo di classe realmente elevato.  Viene superato con esse sia il vecchio concetto ottocentesco della libreria come luogo di cultura che quello più moderno del market del libro aperto sulla strada. Forniscono un reale servizio fino a quando non vengono superate dalle nuove librerie democratiche — una trentina in tutta Italia con punte arrivate fino a cinquanta — più sensibili ai bisogni del movimento e alle sue dinamiche interne.

Si dà un taglio netto con la cultura della borghesia (la rigida divisione tra cultura di destra e di sinistra era già nella tradizione del movimento operaio italiano), si abbandona velocemente la lettura di poeti, scrittori e romanzieri. La nuova scoperta sono il saggio e il libro politico. I classici del marxismo nelle loro infinite variazioni, dal marxismo libertario, al trotzkismo, al maoismo e via dicendo, conosco tirature mai viste. Cominciano a entrare in produzione le piccole iniziative editoriali create dai gruppi politici. Avanguardia Operaia, il Manifesto, il MS, ricopiano la struttura editoriale della propaganda di tipo comunista che pubblica in funzione della politica del partito la storia delle proprie lotte e della propria organizzazione, producono materiali per le scuole quadri, intervengono sul terreno culturale più ampio mettendo a fuoco in termini di teoria il rapporto cultura-rivoluzione, marxismo-letteratura. Un ruolo notevole riveste in questa fase la casa editrice Sapere. Dal 68 al 74-75 si realizza così in Italia un ambito di dibattito politico talmente ampio che probabilmente trova riscontro soltanto negli anni della repubblica di Weimar.

La talpa del femminismo e riviste come L’Erba Voglio stanno intanto sondando altri terreni. Sono già nate o stanno nascendo in quel momento la Tartaruga, Ottaviano, Arcana, La Salamandra, la 10/16, con le loro proposte sul corpo, la sessualità, la musica, il fumetto. Prende vigore l’area della controcultura, si riaffermano tematiche neo- situazioniste. Re Nudo, Licola, i festival del proletariato giovanile, esplicitano nuovi bisogni personali relativi alla vita quotidiana, alla coppia e la crisi della militanza. Il 12 maggio 75, giorno del referendum sul divorzio, registra il punto più alto e più debole del movimento. Dopo lo sforzo militante e di propaganda c’è un subitaneo sgonfiamento per poi riprendere la corsa, un po’ irreale, verso il governo delle sinistre che ci si ripromette dal 20 giugno 76. Ma in questo anno succede di tutto, cominciano a sciogliersi le prime organizzazioni. Come se si fosse spenta la luce, nel giro di cinque-sei mesi tutto muta, le librerie democratiche, spesso con una violenta crisi di identità vissuta nello smarrimento, vedono passare il proprio cliente dalla saggistica al libro sulle erbe, la macrobiotica, l’India, i viaggi, la droga, lo yoga, alla poesia e al romanzo latino-americano. Entrano in crisi le edizioni dei gruppi politici. Per non perire c’è chi tenta di riciclarsi, come la Clued di AO che essendo situata alla Facoltà di Agraria di Milano scende sul piano della scienza applicata all’alimentazione e fa i Quaderni di erboristeria, di controinformazione alimentare, l’Abc dell’alimentazione. Le edizioni Red di Como pubblicano libri di medicina democratica.

Cade la pratica di lettura degli anni precedenti che realizzava una sintesi altissima tra quello che veniva letto e l’intervento nel reale, stornando alle proprie esigenze la parte più seria dell’industria culturale come i Paperbaks e la Serie Politica (i famosi libri viola) dell’Einaudi, e i Nuovi Testi Feltrinelli. Un blocco storico viene frantumato. Il compagno perde la chiave di lettura di ogni cosa. Se l’editoria di movimento comincia a inseguire i nuovi filoni, c’era chi da tempo aveva già preparato sapienti percorsi: Calasso con l’Adelphi, che aveva proposto la raffinata edizione delle opere complete di Nietzsche, Hesse, Walser, e con Kierkegaard, Artaud, le storie zen, la letteratura fantastica e una puntuale piccola collana economica, e tutta la letteratura della crisi degli anni 20-30. Ci si poteva identificare con la crisi dell’individuo mitteleuropeo, cadeva la frattura con la grande cultura di destra, ma in una implosione che lasciava smarriti e portava l’insegnante democratico a proporre i libri di Morselli come testo scolastico nella scuola media.

Con il 20 giugno si spengono le ultime illusioni. Il grande balzo del PCI ha come contrappeso la sconfitta dei gruppi della nuova sinistra. Dinamiche già in moto subiscono un’accelerazione. Case editrici piccole ma di un certo rilievo, contando sulla caduta del tasso di politicità vanno alla rincorsa delle modificazioni in atto, che salvo qualcuna le porterà a separarsi dal movimento e perfino ad esaurirsi. La Marsilio si lega ai socialisti, la Guaraldi chiude il settore educazione e si inaridisce, la Bertani vive a intermittenze, Mazzotta cambia volto. La Savelli riformula il suo progetto editoriale e con “Il pane e le rose” percorre con fortuna la strada del “privato è politico”.

Già nel 75 tuttavia escono i primi numeri di A/Traverso, come ricerca aperta sui problemi globali e complessivi del linguaggio, del privato, e dell’intelligenza nei confronti del potere, oltre i rigidi schemi ideologici delle organizzazioni ma anche oltre il terreno “banale” del dibattito sulla crisi della militanza e sull’emergenza dei bisogni; per cui vengono ricercate vie più complesse che si riallacciano a un impianto culturale che va da Majakovskij a Bataille, dai Quaderni Rossi e Deleuze e Guattari. È un progetto di piccola rivoluzione culturale che nasce, non a caso, come riscontro speculare proprio a Bologna, dove il modello di “socialismo realizzato” risultava oppressivo, debole, poco attraente. Di qui anche un certo percorso parallelo con i nuovi filosofi alla Henri-Levy e alla Gluksmann che sposando la critica di ogni dissidenza portavano avanti un violento attacco ai paesi dei “gulag”.

Tra l’inverno 76 e il luglio 77 esplode un fenomeno senza precedenti: la nascita di 69 nuove testate con una tiratura complessiva di 300 mila copie di cui 288 mila vendute, stampate in nove regioni diverse d’Italia, nelle metropoli ma anche in situazioni incredibili come Pero, Sesto San Giovanni, Brugherio, in provincia di Catanzaro, Ascoli Piceno, Ferrara, Rimini, Savona, Imperia. Sono Zut, A/Traverso, Wow, Bilot, giornale della Brianza, Nel morbido blu, catanzarese, in una sorprendente omogeneità di linguaggio a dimostrazione di rivoli e percorsi culturali comuni, ad esprimere i contenuti del movimento 77. Si teorizza la trasversalità all’interno dei grandi temi sociali fuori dalla costrizione di categorie come proletariato, borghesia, ormai consunte dall’ideologia. Così come ha fatto il femminismo ci si oppone ad ogni sistema ideologico, l’antagonismo radicale di una forte emergenza rompe con l’entrismo e l’illusione di modificazione di partiti, sindacati, regioni, scuole, industria culturale. La quotidianità vissuta come momento rivoluzionario in tutte le sue componenti deve bruciare il massimo di inventività e creatività. Di qui l’uso ironico del linguaggio, i non sense, la rivendicazione del diritto a viaggiare (con i biglietti del treno perfettamente falsificati), il diritto allo spettacolo, non quello delle periferie ma quello delle prime (proprio per questo i circoli giovanili occupano le sale del centro), la teoria dell’intelligenza tecnico-scientifica (che fa impazzire i semafori di Bologna e svuota le gettoniere telefoniche di mezza Italia), il totoismo rivoluzionario, cioè la comune passione per la maschera geniale di Totò riscoperta nelle sue radici popolari. Radio Alice rompe tutti i termini della comunicazione. Cosa mai fatta nella sinistra italiana, il movimento rivoluziona il linguaggio con una ricerca consapevole. Inventa nuovi metodi di stampa, con ritagli di giornale, pennarelli e carta bianca battuta a macchina e applicata su lucido crea un nuovo esecutivo di stampa che permette .una libera impaginazione uscendo dagli schemi tipografici. Il movimento 77 vive una breve stagione, viene represso dai carri armati a Bologna ma soprattutto viene soffocato da forze come l’Autonomia romana e anche padovana — che partecipano alla grande assemblea di settembre non per comprendere quella intelligenza emergente ma per ricondurne la capacità eversiva al proprio progetto politico — o come Lotta Continua che guarda alla creatività espressa per ricondurla alla propria componente spontaneista in una fase di crisi della propria formazione.

Nasce il progetto Ar&a, teso a recepire la complessità intellettuale del movimento nei suoi vari spezzoni, attraverso l’aggregazione di una decina di nuovi editori, completamente autonomi nella scelta dei titoli, ma collegati da un unico servizio che coordina l’aspetto tecnico organizzativo, cioè stampa, editing, distribuzione, diffusione, pubblicità, promozione. È un’esperienza fuori dall’ordinario che riproduce la contraddittorietà e la ricchezza del movimento.

C’è un salto di qualità rispetto alla storia precedente della piccolissima editoria, soffocata dai problemi finanziari e di diffusione connessi alla sua debolezza sul mercato, come anche rispetto al contrastato rapporto con le istituzioni culturali degli enti locali, del movimento operaio, e.della grande industria culturale che condizionano e tarpano le ali.

Ogni singolo editore è un operatore culturale particolare: sa pescare nel posto giusto. Vive quotidianamente i segmenti di realtà che corrispondono al suo progetto editoriale. Nascono così le Edizioni delle Donne; i Libri Rossi che recepiscono il terreno della sovversione sociale violenta; l’Erba Voglio, che rompe con le strutture codificate del linguaggio della psicanalisi e dei nuovi comportamenti; Squi/Libri, che propone la letteratura prodotta dal movimento giovanile e la musica come linguaggio; le Edizioni del NO legate ai “Volsci” romani; Lavoro Liberato, del vecchio filone m-1, scientifico e serio di Leonetti e della Fiorani. Si vuole unire le qualità dell’editoria di movimento ai pregi della media editoria che si impone al mercato e alla grande distribuzione grazie alla sua forza per numero di titoli e tiratura. In un anno e mezzo-due di attività l’Ar&a pubblica quasi 200 titoli. Fallisce per errori e, probabilmente, ingenuità economico-amministrative. Quello della distribuzione è comunque il punto dolente di tutta la piccola editoria. Per contenere le tirature spesso ci si rivolge alla distribuzione alternativa dei Tiboni-Ghisoni, della CDS, o delle due più consolidate come la Punti Rossi. Le piccole editrici pensano così di riuscire a raggiungere un pubblico particolare, diffuso in modo disomogeneo sul territorio, che sfugge alla distribuzione indiscriminata. Paradossalmente per queste aziende distributrici la crisi arriva nella fase del consolidamento. È il caso della NDE fiorentina che ha chiuso il 78 con un giro di un miliardo, ma che proprio raggiungendo una grossa dimensione, con tutti i problemi relativi alla centralizzazione amministrativa e all’organizzazione del lavoro si ritrova ad essere in contraddizione con i materiali che esprime e a trovare difficoltà di adeguamento alle variazioni del Movimento. La Punti Rossi per ovviare a questo inconveniente e recuperare elasticità fin dall’inizio ha fatto la scelta di decentrare la propria struttura creando una serie di magazzini indipendenti a Milano, Roma, Palermo, Molfetta, Firenze. Fra i magazzini funziona una specie di baratto: i materiali pubblicati nella propria zona vengono mandati agli altri. Questo meccanismo però per forza di cose rivela uno scambio ineguale ai danni, talvolta, dei due magazzini centrali di Milano e Roma che si ritrovano a dover inviare una quantità maggiore di materiale di quanta non ne ricevano. Ai problemi della distribuzione si aggiungono poi quelli della promozione. Le grosse case hanno legami molto stretti col mondo dei media, con poca fatica raggiungono radio e televisione ancor meno impiegano ad usare quotidiani e settimanali per la recensione promozionale dei propri prodotti. Per le edizioni di movimento questo è invece un terreno dove ci si muove con molte difficoltà.

Per finire bisogna ancora citare tra i problemi della piccola editoria quelli legati alla vitalità della produzione editoriale. Il catalogo dei piccoli editori ha una obsolescenza elevatissima, la maggior parte dell’editoria di movimento è in fatto congiunturale; è legata a momenti politici precisi, a dibattiti circostanziati nel tempo: spesso nel giro di pochi mesi questa produzione è già datata, superata dai fatti. Il rapporto tra catalogo e novità è invece gestito con estrema accuratezza dalle grandi editrici. Einaudi, per esempio ha un progetto editoriale che le permette di vendere il 60 per cento di catalogo a fronte del 40 per cento di novità. Per altre case editrici il rapporto si risolve in quello sfavorevolissimo di 20/80. Per superare quest’altro scoglio una delle condizioni sta nella costruzione di una rete di venditori che si identifichino con un progetto politico-culturale della casa editrice. Tale identificazione ci voleva poco a farla scattare e gli editori legati al movimento ne erano addirittura favoriti: il banchetto è un’invenzione di questi anni, ma poi la stentata economia e la demotivazione politica seguita alla crisi della militanza lo hanno reso insuperabile.

 

Ritornando al consumo. Grande interesse sembra trovare il dibattito sulla lotta armata. Controinformazione, una rivista che spesso pubblica documenti clandestini è arrivata a vendere fino a 30mila copie ‘per numero. Ma i più rifiutano qualsiasi collocazione. Pescano un libro qui, uno là, sfuggendo alle briglie di qualsiasi politica culturale. Probabilmente, come dice Fachinelli, «Non c’è una identità che si riempie in questo momento, c’è piuttosto l’estraniazione rispetto a una realtà che si rifiuta. Una non-identità». Le case editrici delle donne, perduto il filo diretto col movimento femminista, più diffuso ma ormai quasi impalpabile, da una parte cercano referenti più precisi — è il caso della Tartaruga con la Libreria delle donne — dall’altro trasformano il proprio collettivo da ambito che cercava spasmodicamente l’omogeneità politica, in cooperativa editoriale che tollera e si nutre di una pluralità di posizioni.

La cultura neosituazionista fortemente negata in Italia dalla stratificazione culturale precedente, solo ora sembra acquistare piena legittimità e viene proposta dalle edizioni pirata, da Vallecchi, Arcana, La Pietra. La rivista Sapere, sotto la direzione di Maccacaro ha acquisito un numero notevole di lettori, i numeri sulla droga e sul nucleare hanno raggiunto le 25 mila copie.

Al riscoperto interesse per i libri di cinema, teatro, poesia, si aggiunge quello per la letteratura erotica e fantastica. Grande fortuna ha pure la science-fiction, che viene esaltata nei suoi aspetti politici, di rilancio, in un mondo pragmatico e di tante disillusioni, dell’utopia possibile allo stesso tempo temibile: l’Ambigua Utopia si chiama proprio per questo, una rivista di critica marx/z/iana che sull’onda del successo è giunta a promuovere un convegno di tre giorni sulla fantascienza. I percorsi di ricostruzione della politica sembrano sbocciare per caso: Lavoro e capitale monopolistico di Huberman viene inaspettatamente venduto in migliaia e migliaia di copie.

Qualche interesse si aggrega intorno ai temi ecologici, dell’energia, del nucleare. È insomma un mercato, quello a cui stiamo facendo riferimento, frantumato in mille rivoli. Ma se è difficile intuire le sue dinamiche è anche vero che gran parte dell’editoria si muove alla coda delle modificazioni che si intravvedono, senza il coraggio di una proposta progettuale stimolante. Per ora, resta difficile stabilire se i difetti della piccola editoria non siano anche i suoi pregi; se la marginalità teorica, la molecolarità sparsa possono sfuggire alla condanna della ghettizzazione per realizzare una sorta di guerriglia culturale.

(estate 1979)

(Primo Moroni, Bruna Miorelli)

 

 

P. Moroni e Bruna Miorelli, “Dieci anni all’inferno. Storia dell’altra
editoria”, in Pasquale Alferj e Giacomo Mazzone (a cura di), “I fiori
di Gutenberg. Analisi e prospettive dell’editoria alternativa,
marginale, pirata in Italia e Europa”, Arcana, Roma, 1979