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DIRITTI

Diario di bordo sulla Iuventa

Iuventa significa gioventù. È un peschereccio ribattezzato così dai ragazzi dell’ONG tedesca Jugend Rettet per prestare primo soccorso nelle acque scure del Mediterraneo centrale, al largo della costa libica. Iuventa è anche il titolo dell’ultimo documentario di Michele Cinque, che verrà presentato oggi al cinema Farnese a Roma

La Iuventa ha preso il largo per la prima volta nell’estate del 2016 ma dall’agosto successivo è ancorata sotto sequestro nel porto di Trapani con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. È recente la notizia del respinto ricorso da parte della Cassazione dopo la richiesta presentato dagli avvocati dell’ONG. Nel suo anno e mezzo di attività la Iuventa ha portato a termine sette missioni e tratto in salvo oltre quattordicimila vite.

Da oggi è anche un film documentario della durata di 84 minuti, frutto di un’opera di selezione e montaggio di cinquecento ore di girato, di cui centoventi in mare. Chi narra la vicenda, come fosse un diario di bordo, è il regista stesso: «Non sono né un marinaio né un medico, ma sono riuscito a imbarcarmi», la storia inizia così.

Nessuno lamenti lo spoiler, questa vicenda è già avvenuta.

Iuventa segue la traiettoria del romanzo di formazione. Un gruppo di giovanissimi studenti (il fondatore dell’ONG Jacob Schoen nel 2015 ha appena 19 anni) compra un peschereccio tramite crowdfunding e dalla Germania lo trasporta a Malta. Il gesto vorrebbe denunciare le politiche europee sull’immigrazione e l’ipocrisia delle istituzioni. Procedono nelle missioni fino al sequestro del mezzo, poi l’accusa della procura di Trapani e respinto ricorso dello scorso 23 aprile. E con ciò sembra finire un’esperienza di lotta quantomeno per come era stata immaginata e subentra la presa di coscienza delle conseguenze di essere attivi in uno spazio altamente politicizzato come il Mediterraneo. «Ogni punto che discutiamo per avere un equipaggio professionista, una nuova base, un nuovo motore fuoribordo, un sistema di navigazione migliore; questi passi le istituzioni statali non devono farli», dice Jacob durante una riunione per pianificare una nuova missione a fronte del dato che rivela che i salvataggi privati sono passati dall’11% al 24% in soli dodici mesi. Nella riflessione sul rapporto tra la gestione pubblica e quella privata degli sbarchi emerge una prima necessità di riconfigurare il progetto.

 

Ma il film non è la storia della perdita dell’innocenza di un gruppo di giovani della borghesia media tedesca. O perlomeno non solo. È un film che resta radicato al mondo nonostante descriva il passaggio dall’illusione allo scetticismo, e per questo è un film che merita di essere definito politico.

 

Non descrive una frattura con il mondo ma una presa di coscienza. Quella che impone di smettere di confondere la morte dei migranti in mare con una disgrazia o una tragedia. Non è il Mediterraneo a essere ostile, né la natura degli esseri umani a essere di per sé crudele, bensì le politiche ormai piegate alla difesa degli stati-nazione in barba al diritto internazionale.

 

È nello scenario storico attuale che le immagini del documentario Iuventa esplicano la loro valenza politica.

 

Tre anni fa naufragava nel Canale di Sicilia un’imbarcazione eritrea: 58 vittime, tra i 700 e i 900 dispersi, 28 superstiti. Era il 18 aprile del 2015, periodo successivo alla sospensione dell’operazione Mare Nostrum, finalizzata al controllo delle frontiere ma anche al soccorso dei migranti, e che aveva comportato il ripristino delle normali regole della navigazione. Queste prevedono che qualsiasi tipo di imbarcazione sia in prossimità di un’altra in pericolo debba prestare soccorso. Ossia farsi carico privatamente dei flussi migratori. Da allora numerosi sono stati i soccorsi da parte di navi umanitarie come la Iuventa, divenuta simbolo della lotta contro chi criminalizza le persone e le organizzazioni che offrono primo soccorso in mare. Ma già la Aquarius, attraccata in fine al porto di Valencia, ci consegna un altro pezzo di storia triste che procede a ritmo di respingimenti e della trasformazione violenta della solidarietà in reato. Intanto, mentre la preoccupazione è assorbita dal tatticismo politico del governo gialloverde, anche su quella nave il tempo ha avuto la sua durata come ci racconta Alessandro Porro nel suo diario di bordo sulle pagine de Il Manifesto.

Non è dunque colpa del Mar Mediterraneo se in quelle acque – dati delle Nazioni Unite alla mano – sono oltre 600 i migranti che vi hanno perso la vita durante quest’anno non ancora terminato. Un morto ogni sedici migranti. La tendenza è dunque opposta rispetto a quanto viene propagandato, gli sbarchi diminuiscono ma in proporzione i morti aumentano. Intanto, in queste ore, la nave Diciotti della Guardia costiera italiana rimane bloccata in mare con oltre 500 migranti a bordo di cui 42 superstiti del naufragio avvenuto al largo della Libia la scorsa settimana.

 

Michele Cinque progetta e rende produttivo il materiale visivo raccolto lungo il viaggio, usando il montaggio come agente creativo per svelare la genesi del racconto.

 

In questo modo fa emergere un’ovvietà dura a manifestarsi altrimenti: la Iuventa era un progetto che rendeva operativa un’immaginazione concreta. Dire che fosse in combutta con i trafficanti è come affermare che i migranti che partono dalla costa libica si gettano in mare per il canto delle sirene. Bisogna credere a questo mondo e non proteggersi da esso o si finirà per accostare al dramma il satiresco, facendo incontrare sul palcoscenico dell’antico continente le superstizioni con la realtà politica e sociale. Il regista, già autore di Sicily Jass (2015), sceglie questa storia e la guarda al microscopio affinché il suo valore simbolico produca una qualche eco. Nel fare ciò rifugge ogni tipo di sensazionalismo. I salvataggi in mare sono immagini rubate dalle GoPro poste sui caschetti dei volontari e montate attraverso uno sguardo cauto e mai invadente o eccessivamente dominante. È riproposto un principio di casualità che certamente governa lo scandire del tempo percepito sull’imbarcazione, poi orchestrato da un rigore della struttura generale del racconto che segue prevalentemente i ragazzi della Jugend Rettet e le loro scelte. Una prima parte a bordo del peschereccio, una seconda a terra tra Berlino e altrove. Perché la storia della Iuventa è anche la storia delle duecento persone che hanno preso parte alle missioni e dell’incontro con le donne e gli uomini che sono approdati in quel primo porto in movimento mettendosi in salvo. Michele Cinque ci lascia per la prima metà del film sulla nave. È un luogo intermedio tra la partenza e lo sbarco, tra il gommone e il centro di primo soccorso. È un luogo di accelerazione e di incontro da elaborare collettivamente più in là e insieme all’insoddisfazione per i paradigmi dominati da concetti e categorie etnocentrici e teleologici. Prendendo parte a quella prima missione il regista è come se avesse aderito al progetto con il fine ultimo di renderlo visibile a coloro che su una nave umanitaria non saliranno mai.

Il nodo politico che riguarda la Iuventa è stato parallelamente sollevato anche dall’accurato lavoro di ricerca del gruppo Forensic Architecture dell’università Goldsmiths di Londra che ha studiato il caso smascherando le bugie fattuali, fabbricate omettendo ed estrapolando gli elementi dal contesto per bloccare il progetto. Nonostante la decisione di respingere la richiesta di ricorso, infatti, il materiale prodotto da Forensic Architecture scagiona completamente la Iuventa da qualsiasi accusa mossa dalla procura. La nave resta comunque in porto.

 

 

Ciò che le due inchieste hanno in comune è la volontà di sottrarsi da una normativa precostituita attraverso una strategia d’uso del materiale visivo volta all’affermazione del suo valore testimoniale.

Il montaggio è lo strumento di elaborazione di questo processo euristico che interroga il rapporto tra verità e metodo, tra mondo e immagine. Più che darci delle risposte, questa reciprocità degli sguardi da qualche parte ci condurrà o, quantomeno, ci aiuterà a non passare dall’illusione al cinismo mettendo una distanza dal mondo.

Se non per mare, sarà via terra. We Shall Overcome.

 

Venerdì 22 giugno il documentario verrà proiettato alle ore 21 all’Angelo Mai a Roma