approfondimenti

ITALIA

Di pirati e altro

Gli spostamenti dei migranti, come un tempo le figure del pirata e del partigiano, hanno sconvolto il diritto a base territoriale e oggi fanno toccare con mano i limiti di un semplice (quanto buono e necessario) approccio umanitario, chiamano in causa una nuova strategia politica

Cicerone, dopo aver distinto, nel primo libro del De Officiis, varie cerchie di prossimità con i reciproci diritti e doveri – dalla famiglia ai popoli all’immensa società costituita dal genere umano, individua in III 17, una particolare categoria di nemici per cui non valgono i limiti e le garanze dell’ordinario diritto di guerra, nemici illegittimi non di questo o quel popolo ma di tutto il genere umano, nemici con cui non si debbono stringere patti né osservare giuramenti e regole di lealtà: i pirati (preaedones). Ma questa figura irriducibile ai canoni del diritto bellico internazionale – e sui cui paradossi ha scritto esaurientemente Daniel Heller-Roazen nel libro Il nemico di tutti, già recensito da Marco Mazzeo su Dinamo ‎ – non si limita al mare e alle scorrerie, ritorna anche nel diritto interno statuale e terrestre, quando entrano in scena personaggi che vanno trattati da fuorilegge, per esempio Antonio in Filippiche IV, 14-15, che è nient’altro che «un assassino, un brigante, uno Spartaco». Non dunque un nemico pubblico da punire ma da considerare a suo modo legittimo, ma un combattente illegale, uno schiavo ribelle, il prototipo del sovversivo da trattare senza pietà e senza procedure legali, perché con lui non abbiano niente in comune. Basta (per lui e per noi, con eco opposto) il nome: Spartaco.

Esaurita la grande stagione della pirateria atlantica e caraibica, oggi la localizzazione del pirata si è espansa ad altri mari, alle profondità oceaniche (guerra sottomarina), all’aria, allo spazio informatico e a tutti i territori materiali e metaforici dove la legge è violata o sospesa da forme di insorgenza secondo diverse logiche pubbliche o private. E gli stessi soggetti sono mutati, applicandosi lo stigma e le sanzioni non più a “predoni” ma a migranti, scafisti, stati canaglia – dopo che l’emergere del guerrigliero “tellurico” nei secoli XIX-XX aveva spostato la figura in ambito terragno e strategicamente sempre più rilevante. Il “pirata”, come Spartaco, ha ricevuto una connotazione resistenziale e libertaria.

Ne è conseguito che la stessa “guerra perpetua” contro pirati marittimi e partigiani terrestri – con cui non è possibile stringere accordi per porre fine a uno stato di belligeranza– è diventata la forma standard di ogni guerra, ormai interminabile per definizione, mai dichiarata e mai conclusa per la natura stesa irriducibile degli avversari. Il fatto che in luogo di guerra si chiami “polizia internazionale” non fa che esplicitare il suo carattere di arbitrarietà, assolutezza e durata illimitata. Se il nemico è assoluto e non c’è più justus hostis, ma solo canaglia, “Spartaco” o fondamentalismo o mafia narcotica o scafista, ogni operazione di polizia è una crociata senza scadenza e regole, ogni conflitto è apocalittico. Carl Schmitt, che pure aveva una coda di paglia alquanto vistosa, l’aveva capito benissimo e aveva pure individuato nel cielo la dimensione punitiva. Ma questi sono discorsi scontati, dopo l’esito disastroso delle guerre “umanitarie”.

L’umanitario ci interessa ora in tutt’altro senso: non, beninteso, quale giustificazione della polizia contro pirati e assimilati ma, a rovescio, come forma di comprensione, tutela e aiuto alle figure malevolmente assimilate ai “pirati”, cioè ai migranti, che ricevono, prima ancora di sbarcare, l’etichetta equivoca di clandestini (a rigore attribuibile soltanto a coloro cui, una volta sbarcati, non fosse stato concesso asilo o altra forma di protezione). Certo, invocare l’umanità e il restare umani davanti alle tragedie che si compiono sulla rotta balcanica e nel Mediterraneo (ma anche in molte altre parti del mondo e con cifre maggiori delle nostre) è cosa buona e l’aggettivo “buonista” che viene affibbiato a chi pratica o difende il soccorso è un obbrobrio politico e morale.

Nondimeno – ed è il paradosso più vistoso di quella definizione ciceroniana del pirata come nemico del genere umano – è che quell’insieme, che abbraccia popoli, gentes e tutto il resto della specie a prescindere dalle cerchie di appartenenza più organiche, è un insieme vuoto. Non solo il “genere umano” con cui il pirata nulla avrebbe in comune resta nebuloso, ma quella categoria resta inefficace anche se la si vuole usare, a rovescio, per rivendicare uno statuto di protezione per le vittime, anche per quelle vittime che sono assurdamente bollate come pirati (i profughi a qualsiasi titolo, i naufraghi, le Ong “buoniste” alias “taxi del mare” che li soccorrono).

Nel mondo antico “umanità” come definizione della specie è concetto vago e retorico (al massimo humanitas indica simpatia o cultura letteraria): per i giuristi “homo” è un essere umano, un dato di natura senza qualificazione giuridica o quasi, mentre è la “persona” che, invece, ha “personalità giuridica” e appartiene al diritto civile. “Homo” senza altra specifica equivale a schiavo, servo, un individuo privo di diritti positivi.  Il semplice uomo è una categoria quasi zoologica, che ricalca la distinzione greca fra nuda vita (zoé) e vita qualificata (bios).

Le cose cambiano con il cristianesimo (gli umani hanno un’anima), con il nuovo diritto internazionale dal Seicento, che postula qualcosa di superiore al diritto delle genti, e con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, che proclama i diritti dell’uomo e del cittadino. Mentre però quelli del cittadino sono precisi e cogenti, quelli dell’uomo restano indeterminati e il cosmopolitismo va in crisi non appena si registrano imponenti fenomeni migratori con la conclusione della prima guerra mondiale e l’avvento dei totalitarismi. Appare allora una ben chiara distinzione tra i profughi dotati di solo residuali titoli umani e profughi che conservano diritti di cittadinanza. Scrive efficacemente Hannah Arendt che i secondi sono «cani con collare» e hanno più speranze di sopravvivenza dei cani senza collare, le vittime soggette a sola protezione “umanitaria” in quanto apolidi.

Qui si palesa un problema o, se vogliamo, un’insufficienza. Se è sacrosanto rivendicare per i migranti, come per altre figure, una condizione di vulnerabilità da sanare con mezzi e aiuti solidali, in tal modo però resta incompleto il loro riconoscimento: tanto il soccorso in mare o al confine quanto la successiva “integrazione” a terra, è un primo livello minimale e corrisponde alla natura di intervento umanitario propria delle Ong e della stessa operazione Mediterranea. Il rifiuto di demonizzare i migranti in fuga, compresi  quelli arruolati come scafisti con uno sconto sul prezzo di trasporto, il rifiuto di restituirli alla Guardia costiera libica,  cioè ai veri scafisti e schiavisti, e la stessa inosservanza delle prescrizioni arbitrarie sulle Sar e la chiusura dei porti, lavorano sulle discrepanze fra legislazione italiana e ordini legali gerarchicamente superiori – la “legge del mare” e le convenzioni positive internazionali – nonché sulle contraddizioni intra-normative italiane medesime. Solo simbolicamente possiamo attribuire loro, allo stato presente e almeno fino all’approvazione del secondo decreto sicurezza, il carattere di un’infrazione diretta della legalità in nome di una superiore legittimità. Tanto che addirittura è stato proprio Salvini a sottrarsi al processo, mentre finora le Ong sono state assolte dalle accuse e le loro navi dissequestrate.

Del pari, limitarsi a “integrare” i rifugiati nelle strutture del paese di arrivo (obiettivo peraltro sul quale siamo assai più carenti che nel resto d’Europa) riduce in tendenza il fenomeno ai margini della società, fallisce la risposta al loro duplice irrompere sulla scena del paese ospite, mediante “diritto di fuga” e con l’aspirazione a una piena “cittadinanza”, che faccia interagire in modo plurale le loro peculiarità con una tradizione nazionale, non funzionando da semplice apporto demografico o forza-lavoro in nero o sottocosto.

Il paradigma, in particolare italiano fra Minniti e Salvini, che filtra questo tipo di accoglienza (chiamarla inclusione selettiva sarebbe una beffa) è quello del “clandestino”, il residuo risultante per sottrazione da pratiche molteplici di asilo o riconoscimento, e popolarmente assimilato alla devianza nell’arco fra accattonaggio molesto e piccola e grande criminalità, spaccio e predazione sessuale (l’immaginario corrente alimentato da governo e mass media).

Il fatto stesso che con grande disinvoltura si stimi “l’esercito” dei clandestini fra 90mila e 650mila unità, secondo come si svegliano al mattino politici e giornalisti, fa capire che si tratta di una categoria arbitraria e fasulla, un’arma di distrazione di massa per la propaganda elettorale e il lavoro sporco di caporali e agenzie interinali. Stiamo al livello del piano Kalergi, della sostituzione etnica e dei rom che rubano i bambini (eredi degli ebrei che li dissanguavano per impastare le ostie) – solo che è un discorso reso “rispettabile” dall’uso sulla stampa mainstream e in studi sociologici e statistici ufficiali.

L’umbratile “clandestino” è il soggetto dell’aiuto umanitario una volta trapiantato nel paese d’arrivo o di transito. Per definizione se ne sta acquattato, guardandosi bene dal rivendicare diritti, nella speranza di sanatorie o di trasferimento in paesi con maggiori risorse occupazionali. La provvisorietà del clandestino e la carenza di politiche di integrazione anche paternalistiche e di assimilazione, drammaticamente aggravata in Italia dalla chiusura degli Sprar e dai tagli all’assistenza e ai permessi umanitari, segano alla radice ogni prospettiva di una società meticcia bloccando l’Italia in una condizione di totale decadenza, segnata in modo complementare  dall’emigrazione dei giovani scolarizzati e dall’immigrazione di manodopera spesso dequalificata cui si rifiuta formazione professionale e competenza linguistica.

In un articolo sul “manifesto” che sintetizza un lavoro di lunga data, Sandro Mezzadra fa interessanti riferimenti al più recente dibattito statunitense sull’argomento che mette in primo piano il problema della rottura dei vincoli normativi nel momento del passaggio dei confini e dopo lo stanziamento, certo oltrepassando il terreno neoliberale del governo dei flussi per passare piuttosto a quello del rivendicare e praticare materialmente i diritti. Cioè, forzando una politica capitalistica accorta dell’integrazione (peraltro ignota al turpe sovranismo italiano giallo-verde) in direzione di un pieno dispiegamento degli effetti sovversivi della migrazione e della contaminazione fra culture – con esseri umani integrali che sono arrivati travestiti da braccia da lavoro o da creature vulnerabili.

La rottura di una legalità illegittima, come il rifiuto di piegarsi ai divieti di accesso nelle acque e nei porti italiani – quasi un’assunzione simbolica di un atto di “pirateria”,  anche se è stata una forzatura, infatti non sanzionata,  di un garbuglio di ordinanze amministrative immotivate e incoerenti – fu non solo una risposta adeguata che ha messo in crisi il dispositivo securitario salviniano, ma il prologo in mare di quanto resta ancora da fare in terra, la prima presa d’atto di una libertà di movimento che prosegue nella città frammentata dove vanno a collocarsi gli attori della fuga, con la doppia alternativa di accelerare la disgregazione o rianimare processi di ricomposizione moltitudinaria delle lotte. Un compito che chiaramente eccede le funzioni delle organizzazioni che si occupano dei migranti, gli sportelli di assistenza legale, le scuole di lingua e perfino il sindacalismo che lavora sul caporalato o sulle occupazioni, ma che sta diventando centrale per una strategia politica complessiva, come è emerso in paesi che hanno registrato un maggiore impatto delle seconde e terze generazioni e sono stati costretti a farsi carico della loro eredità coloniale – l’ingombrante rimosso dell’opinione pubblica italiana anche di sinistra.

Il grande merito dell’operazione Mediterranea è stato quello di aver deciso di agire proprio nel luogo dove i migranti si trasformano in pirati, il mar Mediterraneo. Pur operando in pratica con mezzi e iniziative non dissimili da quelli di altre organizzazioni umanitarie di mare e di terra, Mediterranea ha agito con la consapevolezza che andare a salvare in mare i pirati fosse un primo passaggio necessario. Inoltre questa iniziativa a guida italiana nel settore è riuscita a coinvolgere sul piano politico e organizzativo un settore radicale, aprendo così la strada a un livello qualitativo più alto di impegno, tutto da costruire e verificare.