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Chi è il pirata?

Quella del pirata è una figura ambivalente: suscita paura quanto fascino, minaccia l’ordine capitalistico pur mirando, al contempo, all’arricchimento privato. Il libro di D. Heller-Roazen, Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni, analizza nel profondo questa ambivalenza.

Il pirata è una figura che terrorizza. Il 21 giugno del 2018 il ministro italiano degli Interni, alle prese con navi in naufragio piene di africani intirizziti, evoca lo spauracchio della pirateria al fine di sequestrare passeggeri e imbarcazione.

Il pirata è, però, anche una figura di sicuro fascino. Il genere letterario chiamato «romanzo borghese» affonda le radici nelle storie piratesche raccontate nel 1678 dal misterioso Alexandre Oliver Exquemelin. Il lungo titolo olandese dell’edizione originale ha una connotazione feroce (De Americaensche Zee-roovers, vale a dire «predatori marittimi delle Americhe») che, solo dieci anni dopo, è edulcorata nell’esotico Storia degli avventurieri che si son distinti nelle Indie (Histoire des aventuriers qui se sont signalés dans les Indes, 1686). Nel mondo anglosassone l’antifona è la stessa. Nel 1724 un non meglio identificato Capitan Johnson pubblica quel che sarà l’altro classico della pirateria e del romanzo europeo (A general History of the robberies and Murders of the most notorious Pirates). Non è un caso che nel 1934 qualcuno identificherà nell’opera la penna di Daniel Defoe (R. Moore, Defoe in the pillory and other studies).

 

Per mettere a fuoco un’ambivalenza tanto profonda, il libro di D. Heller-Roazen, Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni (Quodlibet, 2010, 286 pp., 22 euro) costituisce una guida insostituibile. Rappresenta il complemento filosofico di classici della piratologia come le ricostruzioni storiche di Markus Rediker o il panorama lessicologico circa il mondo antico offerto da Claudio Ferone. Sin dal titolo, infatti, il volume mette al centro della scena la spada con la quale infilzare il pirata, la nozione di «nemico». A un primo sguardo si tratta di un concetto rudimentale. Il nemico non indica, in fondo, colui contro il quale bisogna combattere? La situazione, sottolinea Heller-Roazen, non è così semplice. La tradizione occidentale lega il nemico a quel complesso giuridico-comportamentale chiamato «guerra». Questo legame intreccia tra loro un paio di precondizioni. La prima: con il nemico deve esser possibile stabilire un qualche tipo di patto, stipula, convenzione. La seconda: i belligeranti devono dunque appartenere al genere umano. Chi dichiara guerra alle zanzare tigre, ad esempio, può farlo solo in senso metaforico poiché si impegna in uno sterminio unilaterale contro una specie sprovvista di parola.

Già in un’opera classica come il De officiis emerge quanto il predone dei mari metta in subbuglio questa nozione. È proprio Cicerone, infatti, a render celebre la definizione che fa del pirata il «communis hostis omnium». Come può, però, il nemico a essere comune a tutti? La formula è problematica. Se il pirata incarna il nemico comune a tutti gli umani, allora il pirata non può appartenere alla nostra specie. Non è un caso che, nella sua storia tormentata, il predone dei mari sia vittima di epiteti animali. Nel XVI secolo, ad esempio, John Hawkins e Francis Drake si guadagneranno l’epiteto di «cane dei mari». Per disattivare del tutto la loro carica inquietante li si includerà nel novero dei «lupi di mare», la figura ancora oggi protagonista pubblicitaria di una nota marca di tonno in scatola. Nel momento stesso in cui diviene una specie animale il pirata cessa però di essere un nemico perché, come abbiam visto, per assumere questo ruolo egli dovrebbe appartenere al genere sapiens.

Forse, allora, il pirata è solo il nemico contro il quale si coagula uno schieramento di forze ampio ma non onnicomprensivo. Anche questa ipotesi, però, profila «conseguenze […] profonde e drammatiche». Se si accetta di includere il pirata tra gli umani, si inserisce nella cerchia una figura che mette in mora un’istituzione centrale per la tradizione d’Occidente, il giuramento. Della parola del pirata non ci si può fidare poiché è un attore sociale privo di “fides”: manca di affidabilità morale, ha poco credito economico. Riconoscere l’umanità di un personaggio del genere significherebbe, dunque, riabilitare la plausibilità antropologica dello spergiuro, minare l’idea stessa di un contratto verbale che duri più a lungo di un battito di ciglia. L’antico adagio secondo il quale «tra dire e il fare c’è di mezzo il mare» (o che esorta a diffidare dalle “promesse da marinaio”) ha la forma della sineddoche: parla di acqua per proteggere l’ignaro cittadino dai briganti che solcano gli oceani.

Non è difficile capire perché per Carl Schmitt, autore esemplare del pensiero autoritario novecentesco, il pirata costituisca un autentico rovello. Per un verso, con le sue sortite il terrore dei mari contribuisce a sovvertire l’ordine garantito dagli Stati nazionali. Per un altro, il pirata somiglia invece al «partigiano»: a colui che difende la terra patria e resiste al processo di disgregazione statale. La soluzione proposta da Schmitt è notoriamente paradossale. Il pirata è buono solo se legato alla terra, unico elemento planetario nel quale è possibile garantire stabilità di confini, certezza normativa e sovranità. Il pirata è lodevole, insomma, solo se non è propriamente un pirata poiché questa sarebbe una figura caratterizzata dal volto impolitico di chi mira all’«arricchimento privato».

Una parte consistente de Il nemico delle nazioni è dedicata alla demolizione, garbata quanto inesorabile, di questa ipotesi. Da una parte, sono proprio i secoli XX e XXI a mostrare quanto il pirata non sia legato solo alla superficie marina. Ad esempio, gli attacchi sottomarini, che già nel 1869 Jules Verne definisce «pirateschi», si svolgono sotto le acque, non sopra. Appena possibili, pure le traversate aeree diventano subito materia di chi si fregia di benda sull’occhio e pappagallo sulla spalla: «dal 1948 al 1960», ricorda il libro, «ci sono stati, secondo le stime, ventinove dirottamenti riusciti». L’odierna pirateria informatica, si potrebbe aggiungere, fa surf su onde digitali la cui diffusione avviene via satellite o tramite fibre sotterranee.

Pure il presunto carattere impolitico del pirata è discutibile. I casi di pirateria apertamente politica sono frequenti: nel 1984 l’assalto alla nave Achille Lauro è funzionale al rilascio di cinquanta prigionieri politici palestinesi; uno dei primi dirottamenti dei cieli, risalente addirittura al 1931, è messo in atto da un manipolo di rivoluzionari peruviani. Il Novecento non è il secolo, dunque, che segna la scomparsa della pirateria. È piuttosto il periodo storico nel quale si realizza la sua «rinascita tecnica» e, con essa, la necessità di un rovesciamento teorico. Se si vuole comprendere la portata antropologica ed etico-politica di questa figura occorre invertire i termini: «non è più il pirata a esser definito dalla regione in cui si muove; ora è la regione della pirateria ad esser desunta dalla presenza del pirata».

Il rigore della ricostruzione offerta da Heller-Roazen offre al lettore gli strumenti necessari per confrontarsi con una questione che rimane aperta. Qual è la relazione tra il pirata e il mercante? A volte il pirata sembra l’antagonista in grado di mettere in crisi la logica capitalista. La sua storia mostra capacità sorprendenti nell’erigere istituzioni non tradizionali come l’autodivorzio femminile o forme egalitarie di governo navale. Da un altro punto di vista, il pirata rappresenta il vertice individualista dell’economia di scambio, l’intelligenza adattiva di chi, nel dubbio, prende quel che può per spendere lontano da occhi indiscreti.

Il pirata è uno e bino: minaccia permanente all’ordine costituito; un «agente della soglia» simile al mercante, imprevedibile outsider in grado di «far circolare una proprietà da una persona all’altra».

 

Giovedì 23 maggio, a ESC-Atelier (Roma, Via dei Volsci 159, ore 18), ci sarà la presentazione-dibattito del libro di Heller-Roazen «Il nemico di tutti. Il pirata contro le nazioni». Ne discuteranno con l’autore Paolo Virno, Massimo De Carolis e Marco Mazzeo. Moderatore Francesco Raparelli.