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Desiderio e spostamento di senso. Luca Guadagnino da Qui a We Are Who We Are

Un viaggio nell’opera di Luca Guadagnino, dal primo cortometraggio a una disamina attenta e complessa della miniserie HBO appena uscita. In mezzo, lungometraggi premi oscar e documentari che scandagliano l’inconscio italiano. Un approfondimento totale su un regista multiforme.

«Voglio provocare continui spostamenti di senso nello sguardo dello spettatore». Così Luca Guadagnino afferma nel luglio del 1997, spiegando il cortometraggio d’esordio, Qui, un uomo una donna un appartamento una doccia un letto due corpi nudi e una fellatio che, come quella di Bellocchio in Diavolo in corpo (1986), si smarca facilmente da ogni fatalismo melodico porno e anche dalla psichedelica sacralità underground dell’atto proibito. Vediamo qualcosa di raro: non solo si agisce bene in questo film, ma si desidera bene. C’è come concordanza tra dentro e fuori. Interno e esterno. Labbra e cuore.

Il cinema inteso qui quasi come sovversiva scatola orgonica reichiana, dallo studio-system minimalista cresce d’ambizione e conquisterà via via l’aria aperta, l’altro da sé, gli spazi vasti di possibili felicità o orrori: Londra, Catania, la Liguria, Lecce, Milano, Parma, le isole dei migranti, Berlino, Crema, il litorale veneto… Questo è l’on the road di un cineasta nomade per eccellenza che ama il cinema, non lo cita ma si immerge senza chiedere permesso anche nelle immagini altrui, vede il prisma della realtà attraverso il cinema e vuole contribuire a potenziarne la capacità trasformatrice. Cinema politico. A luta continua.

In questo nuovo lavoro We Are Who We Are (2020) ambientato vicino alle spiagge venete, ci si confronta con il filone della commedia adolescenziale hollywoodiana esotica che ha una tradizione illustre, da Laguna Blu (Blue Lagoon, Kleiser 1980) a Paradise (Gillard, 1982), coppie di innamorati scaraventati all’altra parte del mondo, che odiano gli adulti e la loro ipocrisia, qui si chiamano Fraser e Caitlin, forzati a scegliere i propri ruoli sessuali. Già Randal Kleiser ci aveva avvertito: «non fatelo!». Insomma il contrario di un romanzo di formazione, notate la poesia che un protagonista, Fraser, brandisce all’inizio come un’arma. È di uno scrittore contemporaneo, vietnamita d’America, Ocean Vuong, 32 anni, ed è la prima lirica della racconta Cielo notturno con fori d’uscita (2017), “Threshold”. Descrive l’abitudine del giovane Ocean di guardare suo padre fare la doccia dal buco della serratura e ascoltarlo cantare. Un giorno il padre sorprende Ocean, con conseguenze sconosciute. Traumatiche? Indisciplinate? È la scena padre del film, non c’è stata la sua «scuola paterna». Fori d’uscita. Guadagnino ha appena dedicato a suo padre il mediometraggio Fiori, fiori, fiori. Ma Fraser il padre non ce l’ha. È la poesia suo padre, e si innamorerà solo di chi ha animo poetico, Jonathan e poi Caitlin.

 

Si può fare cinema professionale e accademico, dal basso, quello con il culto della trama, o da dentro, mossi dalla fede per un copione. È cinema di prosa fast-food come la chiama Guadagnino. Si rischia di utilizzare l’apparecchio per registrare solo i vecchi orrori, ma il mondo cambia. Così, se si riesce, come Guadagnino, regista «ubiquo e divisivo» come ha scritto la critica d’arte Teresa Macrì, meglio fare cinema poetico d’alta gastronomia. Che è quello concepito piuttosto dall’alto, con responsabilità critica che non rinuncia all’umorismo e, danzando da dietro il buco della serratura perfino, perché non sai mai da dove viene davvero quel punto di vista. Si accentuerà così la potenza pulsionale, ritmica e profetica dell’attrezzo-cinema e degli attori che vi volano dentro.

Luca Guadagnino scandalizza fin da cucciolo il cinéphile light perché in un momento di riaggregazione accademica da immunità di gregge dietro al dogma unico della sceneggiatura embedded ben costruita sulla base di psicologie nette e mai malsane, torna, con détour degno di Maradona, ai fondamentali, a Bresson e a Russ Meyer, costituzione d’oggetto/formulazione d’immagine, al tessuto formale a più strati, prismatico, al finale aperto alla libertà creativa dello spettatore: se anche la musica è un personaggio del film (John Adams non è tappezzeria) come la mettiamo con la “forma sonata” o le regole aristoteliche dell’a, b e c? «La trama la lasciamo agli stolti», dice spesso. È l’amplesso, anche stonato, tra personaggio scritto, attore che lo fa vivo e spettatore che lo guida, e la possibilità di partorire modelli di realtà altra, che spinge Guadagnino al duro lavoro del set. Alla tortura dello shooting. Jack Dylan Glazer dirà che il suo modo di girare è più inclusivo di altri. Insomma «ci lascia un guinzaglio molto più lungo». Guadagnino ricorda che non si è cinefili veri (e lui lo è, allievo di Giovanni Spagnoletti e Jean Renoir, non viene dall’accademia ma dalla critica di ricerca) se non si è cartografi emozionali, se non si riesce, come cineasta e come spettatore, a sentire con gli occhi, a vedere con le orecchie e a toccare con la mente.

Dunque non si costruisce un film senza conoscere le preoccupazioni e le nuove conquiste della musica, della moda, della pittura, del design, della danza, della letteratura, della politica, della cosmetica, della cucina e della scultura radicale. Ma da noi la scuola di cinema è monomaniaca, oltre che “nazionale”. Per ricordare la grandezza perturbante di Gino De Dominicis, per esempio, bisogna bussare ai più colti uffici del mercato musicale con il videoclip (Irene Grandi, Sconvolto così, 2001) o degli atelier di moda per Armani, Fendi, Ferragamo… Se no: censura, perché le avanguardie artistiche si devono sbeffeggiare, questo ordina il cinema di stato doc. Il minimalismo magico del suo primo corto contiene già la sua proverbiale indecifrabile “ecletticità” vorace: la paura di stare sul set quando senti il vuoto sotto i piedi ereditata dal primo Jonathan Demme, il gioco del travestimento pansessuale e avventuroso di Melissa P. (2005); la riscrittura dei classici viscontiani e argentiani e prossimamente di Evelyn Waugh, con l’orrore per ogni imperfezione e inesattezza segnica; il disinteresse rosselliniano per il cinema spettacolo e anche per il cinema-saggio asettico, didattico e privo di emozione; la ossessione del comportamento e dei gesti più che delle psicologie e dei sentimenti codificati, il gesto è un movimento del corpo o di uno strumento collegato a esso per il quale non esiste una spiegazione causale soddisfacente. Il gesto non lo puoi controllare razionalmente, ma del linguaggio non verbale va fatta attenta mappatura. Ricordate Billy Wilder di Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch, 1955), con lo psicologo che coglie Tom Ewell col terremoto nell’animo – certo ha la Monroe in casa – perché la sua mano si compiace di movimenti avulsi? Quei movimenti incontrollati che sfuggono, rielaborati da un sensitivo visionario possono diventare il tic esiziale di un popolo intero (Inconscio italiano, 2011), la spinta nell’abisso di una generazione vittima di sadismo (The Protagonist, 1999; Mundo civilizado, 2003), la soggettività desiderante dello spirito dei tempi (Chiamami col tuo nome, 2017).

28 regie dopo Qui, dopo corti documentari poemetti visuali lunghi apologie necrologi e video, potrebbe ripetere lo stesso desiderio estetico («provocare continui spostamenti nello sguardo dello spettatore») approdando alla serie tv, a proposito di We Are Who We Are, otto episodi girati tra Chioggia, Bagnoli di sopra e Bologna, prodotta da HBO e distribuita in Italia sulla piattaforma Sky. Genere? Primi amori dei teenager al college. Oppure: americani in Italia perplessi, scontro genitori/figli, ricordate La luna (Bertolucci, 1979)? Ostilità biodinamica tra innamorati in crisi, come in Viaggio in Italia (Rossellini, 1954); feste illegalità gelosie di ragazze e primi conflitti di banda come in Aniki Bobo di Manoel de Oliveira (1942); e, in sintonia con cinema palestinese e maghrebino di oggi (la madre di Guadagnino è algerina) l’analisi dell’antitesi islamista che terrorizza ma anche ipnotizza l’occidente: Spence Moore, nel ruolo di Danny, fratello timorato di Dio di Caitlin, ha sentimenti repressi per il suo caro amico Craig (Corey Knight), suggerito mentre si fissano l’un l’altro in un prolungato, estremo avvicinamento. Non tutto è ok nel mondo, non tutto, come direbbe Fraser, è “copacetic”. Eppure è un infedele, Craig, eppure morirà per mano dei soldati di Allah. Eppure lui soffrirà per quella morte. E odierà Fraser. Non c’è contraddizione di copione, c’è intensità emotiva.

WAWWA è dunque nello stesso tempo sia un film lungo 8 ore, appassionante come un mediometraggio di Lav Diaz o un romanzo messo in scena da Todd Haynes, pagina su pagina, prendiamo Mildred Pierce (2011). Ma anche una mini-serie con ogni episodio completo in sé («a me piace il primo perché mi ricorda De Robertis di La vita semplice; io il terzo episodio, per me da venerare è l’ultimo, la fuga, il rock…») e tutti pronti al seguito. Film e serie insieme, insomma. Non sono ben tre i direttori della fotografia? Fredrik Wenzel di The Square (Östlund, 2017), è tutta sua la villa russa del quarto episodio, inaciditi quei grigi no party per il matrimonio di Craig e Valentina; Yorick Le Saux di Piccole donne (Gerwig, 2019) e Massimiliano Kuveiller di Suspiria (2018). Con la continuity affidata al duo ritmico elettrico: il montaggio diversamente free rispetto a Walter Fasano di Marco Costa e i «costumi che urlano di rabbia» di Giulia Piersanti (stilista di moda, in realtà, ma non dice mai no a Guadagnino). I cinque che l’hanno scritta hanno suonato all’unisono ma si sono permessi assoli virtuosistici, dell’inglese Sean Conway è la scelta del titolo, di Paolo Giordano e Francesca Manieri non la trama ma il flusso formale, le armonie principali. Non ci sono stati aiuti né logistici né psicologici dalle basi americane italiane, dopo un primo interessamento di Ederle, Vicenza, il che ha provocato sia difficoltà pratiche che minore stress psicologico perché vai a spiegare ai generali che l’amore patrio, l’inno con la mano sul cuore e l’adorazione dei propri caduti in missione, non è tutto. Il figlio di un nostro alto ufficiale che diventa forse un talebano? Volete forse insinuare che Osama Bin Laden sia stato un agente segreto della CIA, corpi separati, fino alla fine?

Fuori standard dunque già per questa bifrontalità, We Are Who We Are. Inoltre l’ambiente liceale per figli di militari all’estero e dunque quell’atmosfera di passaggio dall’adolescenza alla maturità di Fraser e Caitlin/Harper, di cui si racconta l’amore assoluto, ma senza organi coinvolti né baci, complicata dalla struttura fortemente disciplinare delle loro famiglie graduate, permette variazioni eccentriche sul motorino di avviamento di ogni serie televisiva mainstream. Dopo le aperture sessuali di Clinton a proposito di esercito, si possono infatti tentare variazioni barocche e transculturali (per l’Italia davvero esageratamente conturbanti, ecco perché HBO) su un testo chiave del cinema «prima della rivoluzione», dove di sesso, perversioni e tradimenti si trattava con angoscia e che era Riflessi in un occhio d’oro (Reflections in a Golden Eye) di John Huston (1967), regista che come Fassbinder e Guadagnino preferisce fare cinema hollywoodiano, ma fuori da Hollywood. Non è la trama che aizza a continui – ma in questo senso prevedibili – rovesciamenti di fronte. Qui si inseguono i sentimenti sessuali contraddittori e irrequieti e transeunti e ci si confronta con l’entropia della ribellione giovanile (quella musica, quel Whitman, quel Thoreau…) che porta alla confusione irreversibile e sull’orlo dell’abisso. Ed è presa in contropiede, neanche troppo sottilmente, e sotto fredda satira, la sceneggiatura professionale delle serie, estasiata dalla possibilità di giocare coi personaggi a piacere, col solo obiettivo di sorprendere e di incuriosire ogni tre secondi, perché la lunghezza eccita e spinge a combinazioni infinite nei singoli segmenti narrativi, entro un disegno prefissato e sempre uguale, dove è la morale cristiana conservativamente intesa a prevalere e così il buono può diventare cattivo e il cattivo ancora più cattivo e così via, fino al trionfo alla moda del maligno, e tutti gli eterosessuali possono mettersi con chiunque, e anche qualche omosessuale, ma che sia ben definito, visto che è tollerato anche in Iran. È il trans impreciso che inquieta. Piatto rispecchiamento di un mondo che vota per Trump, Orbán, Bolsonaro, Narendra Modi, Erdogan, Janet Jansa, Mateusz Morawiecki. La serie è infatti ambientata attorno alle elezioni Usa del 2016.

Anche in WAWWA, a proposito di cristianesimo, l’amore scatta follemente ed è più filologicamente corretto. Come suggeriva San Paolo va amare non tanto il prossimo tuo (troppo facile), ma l’altro, il diverso, l’ostile, il nemico, il profugo, l’indeterminato. Assumi l’alterità senza perdere l’identità.

Così ci appassioniamo all’incontro d’amore postumano tra piccola forse lesbica e un piccolo forse gay («non è detto perché mia madre è lesbica che io debba essere gay»), due “nemici” irriducibili, parrebbe: lei fragile African American di provincia sconvolta dalle prime mestruazioni e dal primo tampax che vuole essere butch, una lesbica molto maschile e lui bianco nevrotico nervoso newyorkese quasi saccente nell’esibire il disturbo schizoide della personalità. Questo l’high concept, ma la commozione è che entrambi, invece di giocare giocondamente con la propria identità, ne stanno cercando, non senza difficoltà e seriamente, anche altre. E anche no. Si può essere uomo e anche no. Donna e anche no. «Adepti del cinema e anche no» (Guadagnino ama molto citare questa frase di un mangiatore di cinema e di ozio, Marco Melani).

Sono gli attori che rendono sempre unici i film di Guadagnino, senza sovrapporre la propria icona, anche perché sono colti un momento prima di conquistarla, come fiori sul punto di aprirsi alla bellezza assoluta (Jack Dylan Grazer, fisico asciutto, viene da It e Shazam!; e Jordan Kristine Seamòn che viene da Atlanta ed è esordiente, incanta fin dalla prima apparizione con i capelli da antico Egitto). Entrambi sessualmente inesperti sono però dotati di tecnoimmaginazione seducente. «Ho baciato finora solo uno specchio», confessa lui, ma quando Vittoria Bottin gliene stampa uno in bocca, Caitlin intimerà «non farlo mai più”. Fraser è come Jean-Pierre Léaud che interpreta River Phoenix con gli auricolari incollati alle orecchie e più eloquenza verbale in un film lussurioso di Lionel Soukaz. E lei, che vuol diventare Harper the Butch, sembra uscita da un manga giapponese sulle bambine che si travestono da vecchietti con tanto di barbetta e baffetti finti e con gli occhi radianti trapiantati da tutte le bad girls della storia. A cominciare da Lizzie Borden, che uccise sul serio papà e mamma, fino a Jean Satterfield di Born in flames, diretto da un’altra Lizzie Borden (1983). E a proposito di Lizzie Borden di fine Ottocento (l’ha interpretata nel 2018 in Lizzie) non si può non ricordare che, se non c’è Tilda Swinton, c’è Chloe Sevigny al suo posto. E questa volta finalmente viene sbalzata da comprimaria a protagonista, almeno di qualche episodio, come comandante della base Sarah Wilson, mamma di Fraser (che non sa chi è suo papà), poi rinata lesbica, ma che quasi cede al fascino maschio di Jonathan, l’attore Tom Mercier (il disinibito di Synonymes di Nadav Lapid), che è anche oggetto del desiderio, ormonicamente corretto, ma legalmente meno, di Fraser. Mentre la compagna di Sarah, Maggie (una luminosa Alice Braga), sentendosi abbandonata conquista le braccia di Jenny (una radiosa Faith Alabi, mammy per eccellenza, la donna che si prende cura di tutti, al di là della ristretta area familiare), proprio la moglie musulmana del nemico numero uno di Sarah, Richard (Tom Cudi), l’ufficiale che incolperà il suo superiore donna, e strana, di aver mandato a morte in Afghanistan ragazzi non ancora addestrati allo scontro. Lui è maschio macho, ha perfino il super SUV Jeep.

Insomma non mancano certo gli intrighi sentimentali e avventurosi che fanno una serie appassionante, ma la novità è che qui si svolge una festa gloriosa per i sensi e si prepara un cocktail tonico per l’anima e che non sai mai che sorpresa ti riserva ogni elemento del puzzle perché va contro corrente e rompe qualunque algoritmo statistico. Prendiamo la musica, che a volte prende il posto del narratore e anticipa situazioni emotive o avverte del pericolo o aizza alla iconoclastia morale. O il personaggio di Britney, Francesca Scorsese (quasi Amanda Bynes rediviva), uno sguardo tagliente dentro un corpo esuberantemente civettuolo che chiede ai ragazzi di “camminare” per lei, così può determinare se sono ben dotati o meno. Strappa Britney la scena del terzo episodio, trionfo della direttrice del casting Carmen Cuba, che scodella una straordinaria gamma di talenti. O Jenny, che dopo aver sposato il militare di carriera Richard, confessa mesta: «ho smesso di essere un sacco di cose», proprio come Emma in Io sono l’amore (2009). E non si deve fare. Ma continuerà a farlo dopo l’ultimo bagliore del crepuscolo. O quando Fraser e Caitlin cercano informazione sull’identità transgender nel loro smartphone e scoprono che «È una fottuta rivoluzione che si svolge dentro di te!».

Questo cinema del discernimento morale ricuce la coscienza scissa, l’opposizione tra il cuore (l’interiorità) e le labbra (l’esternità), che non è quella tra anima e corpo. Non bisogna limitarsi ad agire bene, ma bisogna cercare di apprendere a desiderare bene. Con il cinema che sa vedere, osservare, fissare lo sguardo. Dentro e fuori Hollywood.

 

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SCHEDA: Le basi statunitensi in Italia e il cinema

 

«In America non esiste un partito della pace, che vinca Biden o Trump, nessuno abbasserà di un dollaro le spese militari. E pure voi, italiani, dovreste far sentire la vostra voce su questo, perché in Italia mi pare ci siano il più alto numero di basi militari Usa, dopo la Germania».

(Oliver Stone, intervista a Fulvia Caprara, “La Stampa”, 25 agosto 2020)

 

Pur essendoci una sessantina di basi e istallazioni nordamericane ufficiali nel nostro paese, al nord come al sud, con oltre 17mila tra militari e civili statunitensi ospiti (più che in Afghanistan) e siamo secondi solo alla Germania come ci ricorda Stone, il cinema italiano, anche quello documentaristico e militante, ma perfino quello europeo, non si è avvicinato che con la massima cautela all’argomento Nato e all’antimilitarismo.

Solamente in Francia, grazie all’ostilità di De Gaulle per l’Alleanza Atlantica (rientrata solo con Sarkozy), sono stati realizzati film critici come, nel 1954, il cortometraggio di René Vautier Un général revient, girato in occasione della nomina del generale tedesco Hans Speidel ad alti incarichi Nato (Speidel, amico di Rommel, uno dei pochi ufficiali sopravvissuti all’attentato a Hitler, era stato Capo di stato maggiore del comando tedesco in Francia nel 1940 ma poi perseguitato dalla Gestapo). In quegli anni bastava essere anticomunisti drastici come Waldheim per farsi sdoganare da un passato abominevole e tornare a primeggiare nel gran mondo del potere. Oltretutto Vautrier è stato l’enfant terrible del cinema transalpino, pensiamo ai suoi solitari film super censurati contro gli eccidi dei soldati francesi in Algeria.

Sono tre i cineasti militanti italiani che, in anni più ruggenti di questi, hanno osato affrontare idee forza come la chiusura delle basi militari o il disarmo di polizia in film impossibili da vedere oggi come L’io in divisa del regista e fotografo milanese del movimento Aldo Bonasia (1949-1995). Nel 1978 il film è diventato un libro fotografico e oggi, su internet si trova, ma a proposito di inaccessibilità, costa…500 euro. Bonasia è uno dei fotografi che meglio hanno saputo documentare manifestazioni e scontri di piazza di una Milano in bianco e nero. L’Io in Divisa – il cui titolo è un gioco di parole sull’opera più famosa dello psichiatra Ronald Laing – presenta una settantina di foto, molte quelle drammatiche, che mettono a fuoco poliziotti in assetto di guerra o in borghese. Quelli che una recente proposta di legge di Macron vuole siano infotografabili, salvo denuncia. Ricordo ancora di Giorgio Bernagozzi Tanto che vogliono dire? e di Giuseppe Ferrigno Col bianco dei capelli di una madre. Se vorrete sapere di più su questi film dovrete chiedere a chi bazzica l’underground, non si trova nulla in rete. La fonte è il numero di “Cinema d’aujourd’hui” dedicato al Cinema Militant, aprile 1976.

E per quando riguarda il cinema commerciale?

Qualcuno ricorderà certamente qualche sfumatissima unghiata comica nell’esordio semicomico di Enzo De Caro Prima che sia troppo presto (1981), con Dalila Di Lazzaro nella parte dell’ufficiale dell’esercito americano Janet, che trasforma Bagnoli in un pezzo d’America, scodellandovi tecnologia domestica avveniristica. Ma questo forse solo perché in quegli anni Napoli era un po’ diventata, tra il teatro di Martone, le lezioni di Abruzzese e le mostre di Lucio Amelio, la «nostra New York». La commedia fu girata nel 1981, quando le Brigate Rosse rapirono a Verona il generale statunitense Dozier, poi liberato.

Ma non c’è molto altro. Si può dire che Luca Guadagnino squarci obliquamente «sistemi omertosi» anche su questo argomento tabù, dell’antimilitarismo, dopo averlo fatto, più direttamente, con il documentario Inconscio italiano, a proposito del rimosso passato colonial-criminale nazionale e col videoclip del 2001 Sconvolto così (con Irene Grandi e un giovane Claudio Santamaria che cita un controverso happening del 1972 di Gino De Dominicis, «Seconda soluzione d’immortalità») ricollegandosi al clima «vitalità del negativo» delle neoavanguardie artistiche italiane anni ’60 e ’70, colpevolmente dimenticate se non sbeffeggiate (da Paolo Sorrentino, per esempio, in La grande bellezza, 2013).    

Eppure altri fatti e misfatti di cronaca sconcertanti sono avvenuti attorno a quelle basi militari, da Ustica 1980 al no di Craxi agli Usa di Sigonella 1985, fino alla tragedia del Cermis del 3 febbraio 1998 (20 morti), quando il comandante Joseph Schweitzer, per immortalare con un video l’ultimo giorno in Italia del pilota Richard Ashby, fece abbassare un po’ troppo l’aereo militare Grumman EA-6B Prowler (il “predatore”), fino ai 110 metri dei cavi di una funivia tranciati di netto.

Lo confesserà lui stesso in un documentario per National Geographic, andato in onda il 31 gennaio 2018 su Sky. Decollati ad Aviano, avevano sorvolato il lago di Garda, ripreso le Alpi «filmando il comandante Ashby, poi ho rivolto la telecamera portatile verso di me e ho sorriso», dichiarò l’ex capitano Joseph Schweitzer.

Quel filmato, una volta atterrati in emergenza alla base di Aviano, in Friuli, mentre l’aereo perdeva carburante a fiotti, fu tolto dal registratore di bordo e sostituito con un nastro vergine.

«Non volevo che alla CNN si vedesse il mio sorriso e poi il sangue dei morti».

In base alla convenzione di Londra del 1951 i due militari Nato verranno processati negli Stati Uniti e, riconosciuti colpevoli, degradati e rimossi dal servizio. Il pilota viene condannato a sei mesi di detenzione,e dopo quattro mesi torna in libertà per buona condotta. Lo stato italiano che anticipa i quattro miliardi per le vittime verrà rimborsato da Washington per il 75%.

Tutto questo per ricordare che siamo un paese sconfitto sotto tutela, ancora impossibilitato a esercitare interamente la propria autonomia nazionale e che in base all’art.11 della Costituzione che vieta al nostro paese la guerra di aggressione si riconosce che la Nato ha funzioni esclusivamente difensive e ammette l’uso della forza unicamente per legittima difesa.

Il cineasta indipendente padovano Alessandro Rossetto, l’anno dopo la tragedia del Cermis, girò in severo bianco e nero Bibione bye bye one (1999), su quella spiaggia veneta e sulle paludi limitrofe, diventata quasi una Atlantic City, perché le vicine basi militari americane di Aviano, Vicenza e Chioggia ne hanno modificato profondamente paesaggio e antropologia. E Luca Guadagnino lo deve aver studiato molto bene per ricreare una geografia emozionale come al solito, perché soprattutto le suggestioni del suo lavoro hanno assorbito le atmosfere che Rossetto aveva saputo così bene ripescare da palude, fiume e mare delle sue zone.