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Del Boca oltre Del Boca. Di cosa parliamo quando parliamo di rimosso coloniale?

Parlare di colonialismo italiano oggi che non è più solo affare di pochi specialisti vuol dire porre la questione del razzismo al centro dell’identità italiana

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La morte di Angelo Del Boca è stata sentita e ricordata con rispetto, con affetto e con grande stima intellettuale in tutti quegli spazi e ambiti, non esclusivamente accademici,a cui la sua storiografia critica del colonialismo italiano ha in qualche modo parlato. E non poteva essere altrimenti. Non vi sono dubbi che la sua ricerca storiografica, così come il suo pluriennale impegno politico sulla sfera pubblica per un riconoscimento, anche culturale e istituzionale, della storia criminale del colonialismo italiano hanno aperto un margine, una faglia si potrebbe dire, uno spazio ontologicamente perturbante nella coscienza nazionale e nella sua trama linguistica.

Gli studi di Del Boca, plasmati da un antifascismo divenuto rigorosa pratica teorica e politica storica, hanno bucato il linguaggio autoreferenziale e omeostatico della nazione, hanno aperto e proiettato una frattura inguaribile in ogni branca del nazionalismo metodologico.

Si può dire che testi come La guerra d’Abissinia (1965), i diversi volumi di quella vastissima opera che è Gli italiani in Africa orientale (1976-1984), L’Africa nella coscienza degli italiani (1992) o anche Italiani, brava gente? (2005) abbiano generato un’interruzione – per usare qui un concetto proposto da Iain Chambers – che va certamente oltre lo stesso lavoro di Del Boca – così come di quello dei suoi epigoni più noti e anche della storiografia critica “classica” del colonialismo italiano incarnata dai vari Rochat, Procacci, Labanca, ecc. e che, per certi versi, deve essere ulteriormente indagata.

Anzi, oggi siamo in grado di interrogarla a partire da una piega diversa da quella originaria, attraverso nuovi concetti e prospettive. Forse è da qui che conviene partire. Non solo per non soccombere alla monumentalizzazione della sua opera, ovvero a quella tipica, vuota e circolare celebrazione postuma di un autore, che ha spesso l’obiettivo di legittimare, in modo autoreferenziale e acritico, non tanto l’oggettoenunciato quanto il soggetto enunciante. Ma soprattutto è da qui che conviene partire, crediamo, per rendere davvero produttiva, attuale, tanto a livello teorico come politico, questa fondamentale eredità storica.

Del Boca oltre Del Boca: ci pare l’approccio giusto per comprendere meglio non solo ciò che possiamo chiamare la “cifra” del suo lavoro, ovvero il posizionamento teorico-politico da cui ha proposto i suoi testi, da cui ha letto e narrato l’esperienza coloniale moderna, italiana e anche europea, e cioè il reale punto di rottura della sua storia del colonialismo rispetto a quella più tradizionale-nazionale, ma anche le sue ricorsive battute di arresto, le sue (inconsapevoli) aporie e chiusure, i suoi (epocali) limiti discorsivi.

Si tratta dunque di cercare di mettere meglio a fuoco, anche nel caso di Del Boca, le relazioni e affiliazioni tra ciò che Edward Said ha definito, in uno dei suoi testi metodologici più impegnativi, The World, the Text and the Critic (1983) per andare oltre, per pensare con Del Boca, dentro l’immanenza e la conflittualità delle lotte del presente. Proponiamo dunque un approccio all’opera di Del Boca come interruzione, più precisamente, come “interruzione postcoloniale”.

Suonerà strano e sicuramente fuori luogo a una parte importante degli eredi, ai cultori del rigore filologico come finalità essenziale della pratica di ricerca, o anche ai semplici stimatori del suo lavoro. Non si tratta di fare di Del Boca qualcosa che non è, di snaturare il suo lavoro in qualcosa di diverso, ovvero del classico tirare per la maglietta, a cui abbiamo assistito anche in questi giorni: e nemmeno di approntare una sterile critica esterna alla sua prospettiva.

Vogliamo interrogare alcune tracce che percorrono il suo lavoro per farlo parlare nel presente, a contropelo del nostro di momento storico: poiché è proprio questo presente, nell’immanenza delle sue lotte, conflittualità e poste in gioco, che ci consente di rendere visibili ragionamenti, connessioni, associazioni non del tutto evidenti, per diverse ragioni, qualche decennio fa. Vediamo dunque di spiegarci.

Luigi D’Alife

2.

Chambers definisce le “interruzioni postcoloniali” come momenti e pratiche di rottura, tanto epistemologica quanto ontologica: l’effetto dell’interruzione, ci ricorda il suo Postcolonial Interruptions. Unauthorised Modernities (2017), è quello di minare alla base (si potrebbe dire di «declodere», per sfruttare qui un termine di Nancy) qualsiasi pulsione o desiderio tendente a chiudere il Reale (si potrebbe intendere benissimo questa parola in senso lacaniano) in un’unica narrazione (coloniale, nazionale) del mondo.

Difficile negare che, in un modo o nell’altro, gli scritti di Del Boca, e al di là del suo discorso specifico, non abbiano aperto uno spazio del genere: anche se questo spazio non è stato percepito in questo modo, se non, e non a caso, soltanto qualche decennio dopo e soprattutto negli ultimi anni. Pur non nominando l’innominabile (la razza), si può certo sostenere oggi che l’opera di Del Boca abbia scoperchiato quello che Achille Mbembe ha chiamato la «necropolitica coloniale-razziale occidentale» moderna non solo nel cuore stesso della nazione, ma proprio come suo «atto fondativo». Una delle parole chiave dell’opera di Del Boca è certamente rimozione.

Si può dire che la denuncia della rimozione del passato coloniale, non solo nella storiografia, ma anche nelle strutture del sentire nazionale del secondo dopoguerra, fosse il suo principale grido di battaglia nel discorso pubblico: le sue ricerche stavano lì a ricordare una parte importante di ciò che la ricostruzione nazionale post-fascista, attraverso le sue diverse tecnologie di produzione e istituzione del sapere e cioè della memoria, cercava di rimuovere.

Molto è stato scritto sulle difficoltà, sugli ostacoli istituzionali, incontrati nello spazio pubblico, almeno fino a metà degli anni ‘90, per affrontare liberamente qualsiasi discorso sull’esperienza coloniale italiana: nel suo Oltremare Nicola Labanca (1992) si è soffermato in modo esaustivo su questo argomento. Sta di fatto che per oltre trenta anni abbiamo sentito questo “frammento del discorso” di Del Boca, proponendo qui questa espressione nel senso che Roland Barthes le diede in uno dei suoi testi più famosi, in modo tanto ricorrente quanto anonimo, soprattutto nel campo accademico, politico e intellettuale, o in alcuni campi specifici del sapere (che in Italia, lo sappiamo, non sono del tutto connessi con il discorso o la sfera pubblica).

Si trattava di un’enunciazione necessaria, dato “Lo stato delle cose” (come recita il noto film di Wim Wenders, che non cito a caso, se qualcuno ricorda la trama), ma che era divenuta un po’ la nostra “pistola” (lo diciamo ironicamente) quando si parlava di cultura, di nazione, e successivamente anche di razzismo, migranti e migrazioni nei contesti pubblici. Dagli anni ’90 in poi, con l’irruzione di un grande soggetto inatteso o imprevisto (per richiamare l’espressione di Carla Lonzi) sullo scenario nazionale, il migrante, la lotta dei migranti e anche le lotte antirazziste, specie dopo l’omicidio di Jerry Maslo nel 1989 (a cui si possono aggiungere lo sgombero della Pantanella e l’arrivo in massa delle migliaia di richiedenti asilo dall’Albania nel 1991, e che furono trattati come furono trattati), questa enunciazione cominciò a prendere una piega più metafisica, per così dire, rispetto a come veniva usata negli studi storici critici dell’esperienza coloniale, nell’archivio storico fin lì esistente.

Dico qui metafisica perché tale enunciazione cominciò ad acquisire – nell’uso, non tanto nella riflessione teorica cosciente – un significato diverso da quello originario: la rimozione del passato del coloniale venne sempre più invocata come contro-discorso per spiegare il razzismo e le “strutture del sentire” visceralmente anti-migrazioni che l’Italia cominciava a scoprire apertamente in quegli anni. E tuttavia il legame tra il significato dell’enunciazione e il razzismo del presente veniva dato più o meno per scontato, all’interno di una prospettiva meramente “educativa” o “pedagogica”: come se una semplice non resa dei conti col proprio passato coloniale e criminale, col proprio razzismo fosse la causa (logico-matematica) del razzismo del presente, o viceversa, come se un suo riconoscimento (la sua mera conoscenza storica) fosse la garanzia primaria di una sua non-ripetizione.

Nella filigrana dei discorsi e dei dibattiti, questo ragionamento veniva posto come un teorema educativo di tipo pitagorico: rimozione, mancata resa dei conti con il proprio passato coloniale: razzismo e intolleranza.

Oltremare di Labanca può essere considerato come un punto di inflessione nell’importante passaggio dalla questione della rimozione – come enunciata e costruita da Del Boca – a questa significazione diciamo più “metafisica” e meno letterale, o anche, per così dire, più “genealogica” (nel senso foucaultiano dell’espressione). Si può aggiungere che il passaggio dalla questione della rimozione da Del Boca a Labanca è rimasto, per così dire, all’interno delle regole discorsive (eurocentriche) più o meno tradizionali che organizzavano l’archivio storico-disciplinare.

È forse importante ricordare qui un testo altrettanto sintomatico, e sicuramente più di rottura rispetto a quello di Labanca per quanto riguarda i nostri argomenti, ma meno citato: Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di Alberto Burgio (2000). Come si può desumere dal titolo, qui si aggiunge una piccola piega – la centralità costitutiva della questione coloniale-razziale nella questione nazionale – al discorso di Del Boca-Labanca. Nel complesso, non si può negare che è stato un importante, e necessario, passo avanti. Si trattava ancora di aggiungere una pagina, di chiedere un riconoscimento, di barrare con un nome un oblio che abitava le «strutture del sentire nazionale» sin dal loro emergere, di elaborare un lutto, come era avvenuto in Germania qualche decennio prima (si veda Germania senza lutto. Psicoanalisi del postnazismo, di A. ed M. Mitscherlich, 1970), ma il rischio latente (come d’altronde nella Germania di quegli anni) era che questo passo avanti finisse, dopo una sua ipotetica assunzione-ammissione, semplicemente per salvare il resto, per lavare il voto dello stato-nazione repubblicano, anziché per mettere in discussione proprio quelle sue regole storiche di produzione del discorso.

Come se l’esperienza coloniale-razziale fosse stata parte di una “brutta storia”, ma non della storia della nazione o della formazione sociale nazionale in quanto nazione moderna; non della traduzione locale, lo diciamo in qui modo un po’ semplificatorio, di ciò che Anibal Quijano ha chiamato «colonialità del potere capitalistico globale», o Cedric Robinson, insieme alla tradizione radicale nera, «capitalismo razziale europeo», ma di una (diabolica e imprecisata) parentesi.

Sia chiaro: la conoscenza di questo passato, la lotta per la sua memoria, è un aspetto fondamentale non solo della lotta antirazzista, ma anche di uno dei suoi indispensabili complementi, la lotta più generale per la decolonizzazione dell’educazione, della cultura e del sapere (e sia detto di passaggio che da noi solo da poco si parla nei termini di decolonizzazione in rapporto a tali questioni). Ma non del passato in quanto passato, ma in quanto genealogia (e costituzione materiale) del presente.

Luigi D’Alife

3.

Restiamo però sul teorema: ciò che qui vogliamo dire è che una maggiore consapevolezza, una rimozione della rimozione, per così dire, nel discorso pubblico è necessaria ma non sufficiente, non elimina meccanicamente gli effetti del colonialismo, o del razzismo coloniale, sul presente. Ma la cosa più importante è che posto soltanto in questi termini, come programma meramente educativo, il teorema resta non solo un teorema, ma un teorema anche fallace. Soprattutto se cominciamo a porci domande fuori dalle sue stesse regole di costruzione.

Cosa intendiamo per colonialismo? Che luogo ha nell’ascesa e nello sviluppo della modernità capitalistica occidentale? Che ha rapporto ha con le storie nazionali? Che rapporto c’è tra colonialismo, razza, e razzismo? Oppure tra modernità, capitalismo, razza e razzismo? La chiave della questione, e qui torniamo al titolo, è di cosa parliamo quando parliamo di rimozione?

Mi pare che stia qui il problema, anche quando pur non parlando di rimozione, si assume, per così dire, nei propri ragionamenti, un suo significato più letterale o genealogico che non psicoanalitico. Con una metafora, potremmo dire che il problema insorge quando immettiamo il fenomeno della “rimozione” nel vicolo delle psicologie cognitive (facendone della cura un problema di mera consapevolezza) che non sulla strada lunga e complessa della psicoanalisi (e cioè del sintomo).

Andiamo finalmente al sodo. Com’è stato anticipato, una genealogia dell’enunciazione – «in Italia c’è una rimozione del passato coloniale dalla propria memoria storica» – porta come prima cosa agli studi di Del Boca. Forse in L’Africa nella coscienza degli italiani (1992) viene enunciata la tesi nella sua forma più compiuta, ma è chiaro che era presente anche nei suoi lavori precedenti. Ebbene Del Boca, intende rimozione nel suo significato letterale, semplicemente come espunzione, espulsione, asportazione. Si può dire che egli intenda rimozione proprio nel senso medico-clinico: asportazione della parte malata di un organo o di un corpo estraneo mediante tecnica chirurgica manuale o strumentale.

La rimozione del passato coloniale obbedisce a un non voler assumere una patologia della propria storia. Del Boca, chiaramente vede il legame, fra l’asportazione-rimozione e il presente, molti dei suoi studi hanno riguardato proprio la continuità del comportamento coloniale (neo-coloniale) dell’Italia nelle sue ex colonie, ma anche altrove.

Si è anche occupato di apartheid (Apartheid, affanno e colore, 1962) quindi di razza e razzismo, anche se, stranamente, il razzismo, come fenomeno e come concetto, compare solo di rado nei suoi testi. Ed è importante andare a questo testo sull’apartheid per capire che in modo intende questi fenomeni.

Ma è sicuramente Italiani brava gente? (2005) uno dei suoi testi più importanti per una lettura genealogica, si può dire postcoloniale o decoloniale, del presente. E tuttavia chi cercasse un qualche approfondimento sul rapporto storico tra colonialismo, imperialismo, razzismo e anche fascismo resterà deluso.

Il razzismo resta il grande assente dei suoi testi: evocato, ma quasi nominato o teorizzato. Non che non metta in connessione questi fenomeni, ma il razzismo come parte della “struttura profonda”, per così dire, della modernità occidentale e anche degli stati-nazione moderni non affiora come discorso.

Ma non poteva affiorare, poiché la prospettiva di Del Boca, agiva, dentro quello si può chiamare, rifacendoci a Deleuze-Guattari, un «altro piano d’immanenza», non il nostro. Il suo modo di intendere il colonialismo, e il ruolo del colonialismo, nella storia non è quello che noi possiamo avere oggi.

Noi agiamo in un piano d’immanenza diverso: un piano d’immanenza di cui gli studi postcoloniali e decoloniali sono causa e conseguenza (nel senso che hanno chiaramente aperto spazi di pensiero di diversi rispetto al passato, ma sono anch’essi un prodotto, una conseguenza di lotte e movimenti politici globali), e che ci hanno consegnato un altro modo di pensare il colonialismo. Lo si intuisce già dai loro nomi: un nome sta a significare, come insegnavano Deleuze e Guattari, imprimere un certo piano d’immanenza sul reale, imprimere un certo senso o taglio sul reale.

Grazie agli studi post e decoloniali, oggi assumiamo che il colonialismo è una formazione discorsiva al centro della modernità e non un semplice passaggio storico-cronologico.

Il termine colonialità dei decoloniali, come sappiamo, questo vuole sottolineare: la permanenza degli effetti del colonialismo (tra cui le sue maggiori creature, razza e razzismo) non solo nel presente, ma anche in ogni sua dimensione (economia, sapere, rapporti di genere, ecc.). All’interno di questi approcci, quello che oggi intendiamo per rimozione del passato coloniale viene interrogato in altri modi.

Per Del Boca, come per la maggior parte della storiografia di sinistra o anche marxista di inizio Novecento, il colonialismo stava a significare un sistema di dominio eminentemente economico, politico e militare, forse anche culturale. Tutto questo non ci interessa tanto come critica. Vogliamo soltanto fissare però l’idea che in Del Boca la parola-concetto rimozione viene posta secondo i suoi sensi più letterali. E se di rimozione oggi occorre parlare, quest’idea della rimozione, per tutto ciò che abbiamo detto, non può non presentarsi come limitata.

Dato il piano d’immanenza aperto dagli studi postcoloniali e decoloniali, o più semplicemente il nostro piano d’immanenza politica. Basta pensare a quanto si è mosso qui, per esempio, nell’estate del 2020 sulla scia dell’omicidio di George Floyd negli Stati Unitie delle straordinarie mobilitazioni di Black LivesMatter.

Foto di Ginevra Abeti

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Se ai tempi di Del Boca, e fino a qualche anno fa, non a caso fino all’exploit anche in Italia degli studi post e decoloniali, si poteva certamente parlare di rimozione del passato coloniale anche in senso letterale, oggi una simile enunciazione sarebbe ai limiti di ciò che nel marxismo classico si denominava “falsa coscienza”.

Negli ultimi vent’anni, infatti, è emersa una quantità molto importante, e sempre crescente, di ricerche (testi, dibattiti, discussioni) sul colonialismo italiano. È vero che la sfera pubblica, il discorso pubblico, l’arco istituzionale – quello che Althusser chiamava gli apparati ideologici dello stato o Gramsci le “casematte” del potere borghese – continuano a manifestare resilienza o aperta resistenza a una rilettura del luogo del colonialismo (e quindi del razzismo) nella storia nazionale, ma oramai è difficile parlare di rimozione del passato coloniale. Riprendendo la metafora iniziale, oggi la pistola è scarica.

Dal nostro punto di vista, il problema – l’anello mancante – sta nell’’assenza di una o diverse contro-narrazioni della storia europea e nazionale che siano in grado di disputare alle nostre latitudini l’egemonia delle meta-narrazioni istituzionali dominanti. Manca una narrazione in grado di mettere insieme tutti i tasselli rappresentati dalle tante ricerche e riflessioni emerse negli ultimi anni, e che, se si vuole, interpellano quella idea di rimozione da un altro punto di vista.

Manca una contro-narrazione che sappia leggere la storia nazionale dentro – e non fuori – la storia della modernità capitalistica occidentale. Che sappia collocarla dentro il colonialismo come formazione discorsiva al centro stesso della modernità capitalistica. Solo così riusciremo ad avere un approccio al colonialismo come dispositivo di produzione e di governo delle popolazioni operante anche nel presente.

Non solo, cambierebbe anche l’approccio dominante al fascismo (nei nostri contesti, a differenza della tradizione radicale nera, per esempio, si fatica molto a considerarlo come parte di un dispositivo di supremazia razziale bianca al centro della modernità). Su questi aspetti, non siamo dunque ancora nella situazione della Francia, della Gran Bretagna o degli Stati Uniti, e per ovvi motivi.

Ma la cosa importante da tenere presente è che in queste realtà l’emergere di una contro-narrazione antagonista a quella istituzionale, europea, coloniale, occidentale, bianca e moderna è stata da sempre legata a una radicalizzazione delle lotte antirazziste, non è stato, ovviamente, un prodotto meramente intellettuale o accademico. Sono le contraddizioni materiali e simboliche del presente che hanno riaperto la questione della storia.

Quelle contro-narrazioni, infatti, sono l’espressione di soggetti politici (lotte antirazziste) più o meno reali dal punto di vista sociale, fatemi passare questo empirismo un po’ banale. Non che qui non vi siano, ma forse ciò che fatica a emergere nel campo della lotta politica è un movimento antirazzista davvero trasversale.

Un buon segno, da questo punto di vista, è il crescente protagonismo delle cosiddette seconde generazioni a livello sociale, così come la presa di parola di soggettività e collettivi neri “autoctoni”: la loro presenza, spesso conflittuale, è sempre più visibile in ogni sfera della società. In sintesi, come sottolinea Sven Lindqvist nel suo formidabile Sterminate quelle bestie (1992), e come Raoul Peck non smette di ribadire nel suo documentario sull’esperienza coloniale-razziale occidentale tratto in buona parte da questo testo (Exterminate all the Brutes, 2021), oramai sappiamo tutto: la questione è cosa farcene.

Peter Zullo

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Diciamo qualcosa in più del concetto di rimozione per finire il nostro discorso. Non si tratta qui di proiettare in modo semplicistico concetti psicoanalitici nati per spiegare comportamenti individuali su fenomeni sociali. Vale la pena ricordare una delle premesse di Freud in Psicologia delle masse (1921), un testo di cui si sono celebrati i cento anni: «Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in quest’accezione più ampia ma indiscutibilmente legittima, la psicologia individuale è anche fin dall’inizio, psicologia sociale.

La contrapposizione tra atti psichici sociali e atti narcisistici, rientra quindi per intero nell’ambito della psicologia individuale e non consente di separare questa dalla psicologia sociale o delle masse». Si tratta, come si sa, di un’enunciazione fondamentale per la psicoanalisi lacaniana. Per Jacques-Alain Miller è l’affermazione più importante di Freud, poiché sarà alla base della concezione lacaniana di soggetto: l’altro (il linguaggio) precede e determina i soggetti, il collettivo precede l’individuale, il collettivo è il soggetto dell’individuale.

Si tratta di una premessa importante anche nel momento di considerare il luogo del colonialismo e del razzismo nelle storie nazionali. Lo ripetiamo: lo scopo di queste righe non era semplicemente quello di riabilitare un approccio psicoanalitico alla questione coloniale.

Volevamo invece insistere sul fatto che la questione della rimozione del passato coloniale dovrebbe ripartire da qui e aprire un diverso orizzonte di senso: la rimozione è il primo processo nella formazione di un soggetto, la cui finalità è proprio quella di difendere, come una sorta di apparato immunitario, quello che Freud chiamava l’ideale dell’io in cui esso si rispecchia.

Un ottimo spunto in questo senso potrebbero essere, oltre che gli innumerevoli suggerimenti dell’opera nell’opera di Fanon (dei cui scritti psichiatricic’è peraltro oggi un gran ritorno), testi come White Innocence di Gloria Wekker e Dark Continents. Psychoanalisis and Colonialism di Ranjanna Khanna.

Se accettiamo la sfida psicoanalitica, e passiamo a una concezione non-letterale e più metafisica del termine, per così dire, saremo anche in grado di cogliere meglio la colonialità del presente, ovvero il colonialismo come dispositivo storico razziale all’opera nella produzione e riproduzione attuale di popolazioni e territori. La rimozione intesa in questo senso ci dice che colonialismo, razza e razzismo stanno dentro e non fuori la cultura nazionale moderna, dentro e non fuori il nazionalismo metodologico, dentro e non fuori l’ontologia produttiva del capitalismo contemporaneo.

Introduzione e indice con tutti gli articoli dello speciale su Del Boca.

Immagine di copertina: Luigi D’Alife, Torino, 6 giugno 2020

Immagini nell’articolo: Luigi D’Alife, Torino 6 giugno 2020, Ginevra Abeti e Peter Zullo, Bologna 6 giugno 2020