ROMA

Cronache romane d’occupazione

In viaggio tra gli occupanti di via del Caravaggio, nel quartiere romano di Tor Marancia. Le voci e le storie di chi lotta per la casa

Cinque metri di listelli, sedie e pannelli di legno premuti contro la cancellata d’ingresso. Oggi gli uomini stanno ricostruendo le barricate. Le donne puliscono le scale e i corridoi dei palazzi, due grandi uffici di vetro e acciaio. Questa è l’occupazione abitativa di viale del Caravaggio, a Tor Marancia: ci abitano circa 350 persone. All’entrata, un signore sudamericano fa il “picchetto”. Accanto a lui, un manifesto raffigura lo Scudo con la testa di medusa del Caravaggio e riporta la scritta “Caravaggio non si sgombera”. Si può entrare solo in compagnia di un occupante.

È un sabato pomeriggio e fra sei giorni − si dice − l’edificio verrà sgomberato. Doveva già succedere quest’estate, dopo lo sgombero della ex-scuola occupata di via Cardinal Capranica. «Ad agosto eravamo assediati. Abbiamo sistemato le lavatrici sul tetto, pronte a essere lanciate, e abbiamo avvertito la prefettura di Roma che avremmo resistito a ogni costo». Anna è una donna minuta con i capelli rossi, parla scandendo le parole. «Il Comune non ci offriva nessuna soluzione. Gli occupanti di via Cardinal Capranica sono andati nei centri d’accoglienza: ma lì non si può stare, quasi meglio la strada». Alla fine, la prefettura ha rinunciato allo sgombero. «Abbiamo legato le lavatrici, ma restano sul tetto». 

Le barricate che proteggono l’edificio. Roma, 29/02/2020 © Simone Pranno

Anna trascorre tutta la vita a Brescia, dove con il marito ha tre negozi e vive in una grande casa. Con la crisi economica devono venderli. Si separa dal marito e viene a Roma per fare la badante, ma è troppo faticoso e dopo due anni lascia il lavoro. Senza casa, senza legami e senza stipendio, si avvicina ai movimenti di lotta per la casa. «Nel 2013 sono entrata nell’occupazione di viale del Caravaggio. Ora ho quasi 70 anni e faccio le pulizie 9 ore a settimana in un ufficio». Anna vive con la figlia che ha un piccolo laboratorio d’arte al Pigneto. «Per tre anni non ho avuto la residenza. Quindi non potevo far richiesta per una casa popolare, per il medico di base o per una pensione». Nel 2014 entra in vigore il decreto Renzi-Lupi, che nega la residenza a chi occupa una casa. Ora molti occupanti hanno ottenuto una residenza fittizia, ma gli stranieri hanno ancora problemi per i permessi di soggiorno. «Lotto perché non saprei dove andare».

Anna abita al primo piano di uno dei due edifici. Un salone lungo e stretto, con una grande libreria e una camera da letto. «Ogni occupante ha a disposizione una camera di 17 metri quadri, le famiglie hanno una camera per ciascun membro». Le camere sono gli uffici dell’ex assessorato alle Politiche abitative della Regione. Gli appartamenti sono senza riscaldamento e acqua. Per ogni piano, bagni e lavatoi comuni. La luce c’è ma gli abitanti temono che l’Acea possa venire a staccarla. «Per questo fuori c’è il picchetto. L’Acea non vuole regolarizzare le utenze: così loro non guadagnano e noi rischiamo di restare al buio».

Anna con due tubi sparacoriandoli a Carnevale. Roma, 29/02/2020 © Simone Pranno

Nel giorno in cui aspettano lo sgombero, la figlia di Anna, Alice, tiene un laboratorio per i bambini. Oggi il “picchetto” lascia entrare tutti. Qui abitano soprattutto famiglie − dei 350 occupanti, 70 sono minori – e c’è una bella stanza per i bambini: sulle pareti ci sono Peter Pan, la sirenetta e il re leone. «La notte non dormi tranquillo. Perché dici: questo posto non è mio. Oggi viene la polizia, domani viene. Chi ha i bambini, pure, è una cosa brutta. Se arriva la polizia, coi caschi, è una cosa brutta». Così racconta Jamal, un uomo di 42 anni con gli occhi azzurro ghiaccio. Jamal è marocchino e lavora in nero al mercato di piazza Irnerio. Vive con la moglie, che da anni non lavora, e due bambini piccoli. «La grande lo sa dello sgombero. Però lei ha paura e dice “speriamo che non vengono”. Speriamo che, se vengono, non li trovano qua dentro: perché a una bambina lo sgombero rimane proprio dentro il cervello». Per oggi, lo sgombero non c’è stato.

La figlia di Jamal ha 10 anni ed è brava a scuola, da grande vuole fare l’avvocatessa. «Mia figlia dice “papà, a me non piace questo posto”. Perché lei adesso, quando vede gli altri amici, che hanno casa, hanno il bagno, hanno la doccia, quando torna mi dice “se io chiamo qualcuno qui, noi non abbiamo la casa bella”». Jamal si ferma a riflettere. «Mia figlia si vergogna, lei si vergogna, si vergogna, sì. Perché quando va a casa degli altri, e guarda le cose che ci stanno − tutte giuste − e da lei no. Però io dico: meglio che stiamo qui, c’è un tetto, c’è un posto dove dormire».

Jamal e un amico mascherati, il giorno di Carnevale. Roma, 29/02/2020 © Simone Pranno

L’immobile di viale del Caravaggio è di Angiola Armellini. Suo padre è stato un importante “palazzinaro”: ha costruito 3.600 appartamenti in tutta Roma. Per il mancato sgombero, l’immobiliare di Armellini – la Oriental Finance – ha fatto causa al ministero dell’Interno, che ora deve risarcirla per 266.000 euro al mese a partire da settembre 2014. Domenico, romano di 52 anni, ha imparato questo cognome da bambino. «Con mia madre vivevamo nelle “case di sabbia”, le case popolari costruite a Ostia da Renato Armellini. Mio papà lavorava nei suoi cantieri». Domenico faceva il magazziniere e viveva con moglie e figli in una casa popolare. Poi si è separato. «Ho vissuto per un po’ in affitto, poi sono stato licenziato». Così, si è iscritto alla lista del Coordinamento cittadino di lotta per la casa. Tra il 2012 e il 2013, i movimenti per la casa organizzano gli “Tsunami tour”: in un solo giorno, migliaia di persone occupano alcuni stabili abbandonati di Roma. «Il 6 aprile 2013 siamo entrati a viale del Caravaggio. Siamo venuti tutti insieme: ci siamo radunati a Termini e abbiamo preso l’autobus. Siamo entrati solo con uno zaino, perché non sapevamo se sarebbe durata. È arrivata la polizia, ma dopo un po’ se ne sono andati».

Il Comitato dell’occupazione, composto da un rappresentante per ognuno dei 130 nuclei familiari, si riunisce ogni martedì. Il Comitato decide i lavori da fare, le iniziative politiche e le espulsioni. Chi non partecipa all’attività politica, chi ruba o picchia le donne deve lasciare l’edificio. I lavori comuni, a partire dalle pulizie dei corridoi e dei bagni, sono svolti a turno dagli occupanti. «È come se fossimo tutta una famiglia. Cerchiamo di darci una mano un po’ tutti. Oggi ho io, domani hai tu. Oggi serve a me, domani a te», dice Domenico.

Lo stenditoio comune. Roma, 29/02/2020 © Simone Pranno

Nell’edificio abitano soprattutto cittadini stranieri. Sono l’80%. Provengono per la maggior parte dall’Europa dell’Est, dal Marocco e dall’America Latina. Quasi tutti gli occupanti lavorano ma non guadagnano abbastanza per pagare un affitto. Miriam ha 29 anni ed è nata in Marocco. Fa la cameriera ai piani in un lussuoso hotel a piazza di Spagna. Invece di pagarla per le ore che lavora, la pagano a stanza. Due euro e cinquanta per ogni suite che pulisce, 25 euro per dieci ore di lavoro.

Miriam prepara un caffè marocchino. È delizioso, sa di zenzero e cannella. È venuta in Italia con il marito Jamal. Quando Jamal perde il lavoro, lei torna in Marocco dai genitori. Jamal si iscrive alle liste del Coordinamento cittadino di lotta per la casa. «Nel 2017 dal Coordinamento chiamano Jamal e gli dicono “qui c’è posto se vuoi venire.” Jamal mi chiama “Miriam, io lo trovo un pochino strano, però mi trovo bene”». Miriam torna in Italia e va a vivere nell’edificio occupato. «Forse la vita che abbiamo avuto più bella, più serena, più carina è qui in occupazione. Perché non pensiamo “oddio alla fine del mese non ci riusciamo. Oddio non c’è lavoro. Oddio lo stipendio non basta”. Siamo usciti alla vita: siamo riusciti a vivere tranquilli e sereni senza pensare a questi problemi».

La vita di Miriam è cambiata molto. Dopo qualche mese Jamal ha un infarto. «Jamal è rimasto in ospedale 5 mesi, in coma. Qui mi hanno aiutato tutti. Io da lì mi sono innamorata di questa occupazione. Quando mio marito è morto, sono arrivati tutti in ospedale. Questa per me è una cosa grande». Miriam ha gli occhi velati di lacrime, ma si interrompe solo un attimo. «Quando mio marito è morto, sono tornata in Marocco per il funerale. Mio padre mi ha detto “Miriam, che dici, tu rimani?”. Io gli ho detto “se io rimango qua, che faccio?”». Così Miriam è tornata in Italia, senza aver mai lavorato e parlando pochissimo italiano. Oggi vorrebbe un bambino. «Non riesco a pensare a un’altra famiglia. Quella storia è morta con mio marito. Ma vorrei adottare un bambino. Se riesco ad avere una casa, un lavoro».

Il 19 febbraio 2020 i movimenti per la casa hanno organizzato una manifestazione al Consiglio regionale del Lazio. Da anni chiedono che il Comune assegni una casa popolare a tutti coloro che ne hanno bisogno. «A Roma non c’è nessuna emergenza abitativa», dice Enrico Puccini. Architetto, Puccini ha lavorato per l’assessorato alla Casa del Comune e gestisce il blog Osservatoriocasaroma.com. «In emergenza abitativa a Roma ci sono le 13.000 famiglie in attesa per la casa popolare. Questo numero può raddoppiare, includendo chi avrebbe bisogno di una casa ma, per varie ragioni, non è in graduatoria». Nelle 42 occupazioni di Roma vivono 5.000 famiglie e molte sono in lista per la casa popolare. «Il problema è l’approccio inadeguato delle istituzioni. In Italia non esiste un osservatorio casa, che pure sarebbe previsto per legge. I numeri dell’emergenza abitativa sono sempre gli stessi da anni: ma le istituzioni non hanno mai voluto risolvere il problema. A Roma si assegnano solo 500 case popolari l’anno».

Manifestazione al Consiglio regionale del Lazio. Uno striscione contro lo sgombero. Roma, 29/02/2020 © Simone Pranno

Gli occupanti chiedono case popolari ma per ora vivono qui, nei due edifici di viale del Caravaggio. Vilau ha 62 anni ed è di nazionalità romena. Ha girato tutta Europa facendo ogni lavoro. Arrivato in Italia nel 2003, lavora in nero nei cantieri. «Ho costruito più di venti baracche, in cinque o sei posti diversi. Ogni volta sono state sgomberate e io le rifacevo». Nel 2007 viene assunto da una cooperativa. Quattro anni dopo viene ricoverato per una grave malattia, ma non può richiedere la disoccupazione perché la cooperativa ha falsificato le buste paga. «Qui mi sento a mio agio: in tutti i Paesi in cui sono stato non mi sono mai sentito un uomo, ma uno schiavo. Mi sono sentito senza dignità. “Fai quello, fai questo” e io obbedivo. “Devi dormire qui, devi dormire lì” e io obbedivo». Vilau indossa una camicia perfettamente stirata e un berretto nero. «Quando sono entrato in occupazione, mi sono sentito un uomo, un uomo con la dignità. Adesso faccio qualcosa se lo posso fare, non devo fare un lavoro troppo pesante. Pure che mi sento amato qui, mi sento rispettato».

26 marzo 2020