ITALIA

Cosenza, il presidio medico che cura i sopravvissuti alle torture libiche

Fuggiti dalle peggiori atrocità, molti migranti hanno trovato nella città di Cosenza un’Equipe Multidisciplinare dedicata alle vittime di torture. Un video-reportage ne racconta l’esperienza

Nonostante le varie denunce giornalistiche – e non solo – forse non ci è ancora del tutto chiaro, ma l’inferno in terra esiste. Oltre il mar Mediterraneo, tra Libia e Algeria ci sono luoghi in cui la disumanità specula sulla disperazione. Migliaia di persone in fuga – prevalentemente dall’Africa subsahariana, Mali, Senegal, Congo, Sierra Leone, Gambia, Guinea Bissau, Mauritania – e bande di terroristi in giro come cani aggressivi senza guinzaglio, che si nutrono di carne viva umana. Non come cannibali, sia chiaro, ma da trafficanti.

Rapiscono, sequestrano per sei mesi o più nelle carceri di Tamanrasset, Sabha, Talanda (nel 2007 gli attivisti della campagna Fortress Europe le avevano mappate  ).

Sono gli Asma Boys o «i Tuareg, che a mio avviso sono di gran lunga peggio dei libici, perché ti sequestrano per mesi, ti picchiano e ti abbandonano nel deserto». Ce lo racconta Ibrahim, nome di fantasia per questo giovane gambiano che ha accettato di raccontare la sua storia a patto di tutelarne la vera identità. Arrivato in Italia nel 2016, ma ancora terrorizzato da quei trafficanti da cui teme di essere in qualche modo rintracciato.

Guardandolo sulla cartina geografica il Gambia sembra un piccolo serpente, schiacciato all’interno del Senegal, quasi al confine con la Guinea Bissau. Ibrahim è scappato da lì nel 2014, ha visto suo cugino morire davanti ai suoi occhi in un incidente e temeva ripercussioni per sé stesso.

Quindi fugge e passa un anno tra Mali, Mauritania, Algeria e Libia, nel tentativo di raggiungere l’Europa.

Una traversata con pochissimi soldi in tasca, racimolando brevi lavoretti per pagarsi ogni volta la tappa successiva, finché non è stato fatto prigioniero dai Tuareg. Che hanno trattato lui e gli altri migranti come animali, «mi sono reso conto per loro è normale fare così».

Da quando è arrivato in Italia, prima a Lampedusa, poi in Calabria in provincia di Cosenza tra Camigliatello Silano e Dipignano, alla fine del 2017 Ibrahim è stato preso in carico dall’Equipe Multidisciplinare per l’emersione, la diagnosi e la presa in carico dei richiedenti e titolari di protezione internazionale vittime di tortura. Un team messo su nel 2012 tramite un protocollo siglato dall’A.S.P. di Cosenza, Auser, La Kasbah (che gestisce lo Sprar cittadino) e la Provincia di Cosenza, composto da medici specialisti, affiancati da operatori dell’accoglienza e mediatori culturali che, dalla sua nascita a oggi, ha seguito e curato oltre 600 migranti.

Un presidio medico che è un unicum al sud Italia, simile ad altri hub presenti a Bari, Roma, Milano, Torino nati grazie al progetto Salut-are, finanziato tramite il Fondo Europeo Rifugiati 2008-2013.

Tutto inizia con la presa in carico del paziente cercando, anzitutto, incontro dopo incontro, di instaurare un rapporto di fiducia reciproca: «Si inizia dalla raccolta della biografia della fuga, della quale mi occupo io – racconta Emilia Corea, responsabile della Kasbah – in cui il nemico principale, però, è il silenzio. Questi ragazzi hanno molta difficoltà ad aprirsi perché provano tanta vergogna per tutto ciò che hanno subito». Ma non appena iniziano a raccontare vengono fuori violenze e torture di ogni tipo e condizioni carcerarie atroci.

I medici non hanno alcun dubbio circa la veridicità delle storie riportate: «i loro ricordi si somigliano molto da paziente a paziente. Sia i luoghi dove sono stati detenuti, sia le violenze subite, che corrispondono sempre a segni sui loro corpi o a dolori cronicizzati che si portano dietro», racconta Gianfranca Gentile, medico dell’Azienda Sanitaria Provinciale.

Ai fini di estorcere loro un riscatto gli aguzzini li bastonano con oggetti contundenti come tirapugni, «li appendono a testa in giù, per ore o per giorni. Li bastonano ripetutamente sulle piante dei piedi con la tecnica della “Falaka” per impedirgli di deambulare correttamente» – spiega il medico ortopedico Francesco Scarnati – o gli provocano scariche elettriche sui genitali.

Ai traumi fisici si aggiunge la tortura psichica. Molti, infatti, assicura Gaetano Marchese, il medico psicologo dell’Equipe, «non riescono a dormire da mesi, perché la loro mente è abitata da fantasmi persecutori».

Eppure, incredibile ma vero, le ingiustizie non sono finite qui.

In cauda venenum, nonostante il referto medico riporti e certifichi tutto questo orrore, a molti di loro la Commissione territoriale per i Rifugiati ha negato la protezione internazionale o il suo rinnovo. Specialmente negli ultimi due anni, dopo l’approvazione del Memorandum Italia-Libia.

Lo conferma Francesco Cirino, operatore dello sportello legale “G. Commisso”, secondo cui le torture in Libia non sono state più ritenute valide ai fini del conferimento del diritto d’asilo. Veniva chiesto loro solo il Paese di origine. «Naturalmente la Commissione sono espressione del ministero dell’Interno – spiega Cirino – per cui dopo gli accordi stipulati dall’ex ministro Minniti sarebbe stato quasi imbarazzante per i componenti delle Commissioni non tenerne conto. Quindi i colloqui sono cambiati e ai migranti non è stato più chiesto se fossero passati dalla Libia e cosa era successo lì. La Libia non è stata più presa in considerazione».

Asilo o non asilo, nonostante il passato recente continui a tormentarli, almeno per questi ragazzi l’inferno libico è lontano. Anche alla presenza di questi angeli in camice bianco che provano a scacciare via i demoni della Libia. Qualcuno di loro dopo tanto lavoro riesce a rifarsi una vita. Come racconta col cuore in gola lo stesso Ibrahim: «Qui la mia vita è cambiata completamente. Completamente. Soprattutto lo psicologo mi sta aiutando molto, neanche a casa mia in Gambia qualcuno si interessava ai miei problemi. Per quest ringrazio Dio di avermi fatto arrivare qui».

 

Una parte del video è apparsa su Euronews.

 

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