MONDO

Cosa sta succedendo in Kashmir?

La recente escalation del conflitto tra India e Pakistan per il controllo della regione continua a destare preoccupazione in tutto il mondo. Mentre alcuni ufficiali indiani dicono di voler superare la «politica del non utilizzo di armi nucleari»

Nelle scorse settimane, durante un imponente corteo a Houston, il Primo Ministro indiano Narendra Modi ha detto davanti a uno stadio pieno di sostenitori che l’India ha presentato il suo “addio” alla clausola costituzionale che garantisce autonomia alla regione himalaiana del Kashmir. «L’articolo 370 ha privato di sviluppo le popolazioni del Jammu, del Kashmir e del Ladakh», ha affermato Modi rivolgendosi alla folla. «Terroristi ed elementi separatisti stavano abusando della situazione. Ora, invece, le persone del posto hanno finalmente ottenuto un trattamento equo e uguali diritti». La folla ha risposto con uno scrosciante applauso.

Il rilievo dato dal Primo Ministro agli “uguali diritti” contraddiceva in modo disturbante i vari report e le notizie che arrivano dal Kasmhir, che parlano invece di casi di tortura e morti, migliaia di arresti, nonché di un blocco delle comunicazioni che ha isolato la regione dal resto del mondo. L’annessione de facto dell’area, già contesa da molto tempo, ha reso le relazioni fra India e Pakistan ancora più tese, ravvivando inoltre lo spettro di una vera e propria insurrezione che, se dovesse accadere, vedrebbe contrapporsi il governo indiano e gli abitanti dell’area più disillusi.

Se agli occhi di molti un tale inasprimento del conflitto potrebbe sembrare semplicemente un’escalation fra le tante che avvengono in “zone calde” del mondo, la situazione far suonare un campanello d’allarme: stavolta è diverso.

La decisione di Modi, salutata in modo così “rumorosamente favorevole” dalla folla di Houston, chiuderebbe infatti le porte a ogni ottimistica visione di una risoluzione pacifica del conflitto. Si sono già verificati scontri sul territorio conteso, nonostante il pesante isolamento imposto dal governo. E, non appena le restrizioni attuali sulla libertà di movimento e di comunicazione verranno allentate o tolte, è quasi certo che la violenza sia destinata a crescere.

Tuttavia, l’escalation ha avuto anche l’effetto di catalizzare l’attenzione internazionale sulla regione. Martedì, durante una conferenza stampa, l’assistente segretario del Dipartimento di Stato per gli Affari dell’Asia centro-meridionale Alice Wells ha dichiarato che «gli Stati Uniti sono preoccupati per le detenzioni su larga scala, incluse quelle ai danni di leader politici ed economici, nonché per le restrizioni adottate nei confronti dei residenti del Jammu e del Kashmir». Wells ha poi aggiunto, riferendosi a India e Pakistan, che andrebbero create nella regione condizioni che portino a un «miglioramento delle relazioni fra le due potenze nucleari».

In passato, i due paesi hanno combattuto per lungo tempo a causa del Kashmir. Le tensioni recenti, tuttavia, hanno raggiunto un livello cui non si assisteva da anni. In una sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani del 10 settembre a Ginevra, il Ministro degli Esteri pachistano ha segnalato come la questione del Kasmhir esponesse le due potenze a un rischio di “guerra accidentale”.

Se una simile guerra si concretizzasse, sarebbe resa ancor più tragica dal fatto che si tratta di una circostanza evitabile.

Le radici del conflitto in Kashmir hanno a che fare col fatto che nell’area non si è mai tenuta una votazione per l’autodeterminazione della regione. Nel 1948, poco dopo la divisione del subcontinente indiano nelle nazioni di India e Pakistan, l’Onu ha spinto affinché ci fosse un plebiscito in Kashmir che permettesse alla popolazione locale di decidere il proprio futuro politico: che si trattasse di restare sotto lo stato indiano, unirsi al Pakistan, o diventare un paese indipendente.

Un tale plebiscito però non è mai stato indetto, nonostante molti abitanti della regione continuino a chiederlo. Ciò che è avvenuto, invece, è stata la sollevazione di un movimento armato per l’autodeterminazione che ha iniziato a lottare contro il governo indiano dopo le elezioni “truccate” del 1987 e che ha incontrato una brutale repressione. Decine di migliaia di persone sono state uccise in Kashmir, con intere generazioni cresciute sotto l’occupazione.

«L’ideale sarebbe che un plebiscito si svolgesse in Kashmir con il beneplacito dell’Onu», ha detto Altaf Wani, presidente dell’Istituto di Relazioni Internazionali del Kashmir, un gruppo di attivisti che si batte appunto per l’istituzione del referendum. «Le persone che vivono nella regione, oltre a esprimere la propria prospettiva in quanto minoranza con le elezioni regionali, devono poter votare e decidere sul proprio futuro. Ma il fatto che non si sia mai riusciti ad avere un plebiscito sta alla radice della crisi attuale».

Alla luce del discorso di Modi a Houston, teso ad “annullare” completamente la sovranità del Kashmir, e delle eclatanti reazioni che ha suscitato nella folla, l’orizzonte di uno scontro violento con gli stessi abitanti della regione o con i loro sostenitori del Pakistan diventa sempre meno remoto.

Nonostante l’approccio di Modi e dell’India si stia facendo sempre più duro, rimane comunque aperta una via per evitare di cadere nel baratro di un conflitto armato. Un documento-guida di recente uscita, realizzata da un gruppo di accademici specializzati sul Kashmir, indica alcuni passi da compiere per attenuare la gravità della situazione, sia nel breve che nel lungo periodo. Fra questi, c’è il rilascio di migliaia di prigionieri politici attualmente detenuti, la demilitarizzazione tanto delle aree del Kashmir sotto controllo indiano quanto di quelle sotto controllo pachistano, il riconoscimento della libertà di movimento attraverso i confini che separano le due zone e la creazione di una delegazione speciale che indaghi sulle violazioni dei diritti umani.

Il documento spinge affinché ci sia una mediazione internazionale non solo per assicurare che cessi la violazione dei diritti umani, ma anche che venga portato a termine un accordo attraverso il quale si affrontino le cause propriamente politiche del conflitto in corso. Si dice infatti che «un qualsiasi accordo dev’essere mediato entro l’assoluta garanzia per tutti i cittadini del Kashmir del diritto di decidere il loro stesso futuro politico».

Il nocciolo del conflitto, in sostanza, non fa che girare attorno al futuro politico degli stessi abitanti del Kashmir, ovvero la possibilità di votare per la propria autodeterminazione. In passato sono state avanzate varie proposte affinché una simile votazione possa funzionare. Il Kashmir è diviso in numerose aree, incluse la valle delle Kashmir a maggioranza musulmana e il Jammu che è oggi a maggioranza indù. In una tale situazione, un plebiscito che presenti le opzioni di unirsi a una delle due potenze vicine oppure di proclamare l’indipendenza della regione preverrebbe la possibilità che vengano imposte soluzione dall’alto a danno delle minoranze. Inoltre, se si votasse anche l’India e il Pakistan avrebbero un certo interesse per il risultato finale, eliminando la principale fonte di irritazione della loro travagliata relazione di sette decadi

Il desiderio di votare per la propria indipendenza tra l’altro è cresciuto anche nella parte del Kashmir sotto controllo del Pakistan, il cui governo è stato accusato da alcuni locali di “inquinare” la causa dell’autonomia della regione, collegandola a gruppi fondamentalisti islamici. «Eravamo combattenti per la libertà, nati dal popolo del Kashmir», ha detto un ex-militante di recente. Ma poi il Pakistan ha spinto gruppi come Lashkar-e-Taiba verso il nostro movimento. Le persone hanno così iniziato a confondere la nostra lotta per la libertà con spinte terroristiche».

Oltre al voto per l’autodeterminazione, nel corso degli anni sono state avanzate altre proposte per attenuare il conflitto, inclusa l’implementazione di confini con meno controlli e di un regime di libero commercio fra le zone del Kashmir a controllo indiano e a controllo pachistano.

Ad ogni modo, un accordo finale in cui venga riconosciuto agli abitanti dell’area il diritto di movimento, auto-governo e in cui si preveda la demilitarizzazione della regione dovrebbe essere una misura sufficiente a bloccare l’escalation di un conflitto che sembrerebbe altrimenti inevitabile.

India e Pakistan, di loro stessa volontà, sono state molto vicine a negoziare una risoluzione bilaterale sul conflitto del Kashmir. Nei primi anni 2000, si è tenuto per esempio un summit fra leader indiani e pachistani nella città di Agra in India. Lo scopo dell’incontro di due giorni era appunto quello di risolvere le maggiori dispute territoriali fra le due nazioni.

Furono disposti quattro principali passi per la risoluzione del conflitto, inclusi la demilitarizzazione, l’accordo di libertà di movimento per la popolazione del Kashmir lungo la Linea di Controllo fra India e Pakistan nonché la fine del sostegno da parte di Islamabad ai militanti armati. L’accordo prevedeva inoltre il diritto all’auto-governo da parte dei residenti nella regione. Il dialogo è però naufragato a causa delle divergenze interne fra leader del Kashmir e indiani, proprio mentre pare si fosse a un passo dall’andare verso una cerimonia delle firme.

Fino a qualche mese fa, c’erano segnali per cui l’India e il Pakistan potessero ancora provare a trovare una soluzione pacifica e congiunta delle loro controversie sul Kashmir senza alcun intervento esterno. Tuttavia, dato l’attuale deterioramento dei rapporti, una tale evoluzione sembra altamente improbabile.

Il primo ministro pakistano Imran Khan, che in precedenza aveva suggerito che una rielezione di Modi avrebbe reso il paese confinante un buon partner per far avanzare il processo di pace, si è ritrovato messo all’angolo dall’improvvisa dichiarazione di annessione del Kashmir da parte del leader indiano e il suo messaggio è cambiato radicalmente. Ora, infatti, Khan dichiara che il Pakistan è pronto a “lottare fino alla fine” per il territorio conteso. In una raccolta di articoli del New York Times, ha descritto Modi come un leader ispirato a livello ideologico dalla Germania nazista. Anche l’opinione pubblica pachistana viene preparata al conflitto. L’ultimo venerdì di agosto le principali città del Pakistan si sono fermate come gesto di solidarietà con la popolazione del Kashmir che vive in uno stato di isolamento securitario e di blocco delle comunicazioni.

Ma i segnali che arrivano dall’India sono ancora più preoccupanti. Alcuni ufficiali hanno pubblicamente dichiarato che non sono più intenzionati a rispettare la politica del “non utilizzo di armi nucleari” in qualsiasi futuro conflitto. Oltretutto, danno l’impressione di essere pronti a entrare in guerra con la stessa popolazione del Kashmir. Il graduale inasprimento governativo ha efficacemente “decapitato” la società civile della regione, attraverso l’incarcerazione di migliaia di intellettuali, attivisti per i diritti civili e politici locali. Milioni di cittadini comuni vivono in uno stato d’assedio. Per chi si trova fuori dall’area del Kashmir è pressoché impossibile comunicare con chi si trova dentro. Il normale svolgimento della vita è stato a tutti gli effetti paralizzato, e ci sono accuse di torture e abusi che si stanno compiendo nell’ombra.

Non appena le restrizioni si allenteranno, è molto probabile che ci saranno proteste su larga scala. Durante le proteste passate, le forze militari indiane hanno dato prova di non esitare molto prima di fare fuoco sulla folla dei manifestanti. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Michrlle Bachelet ha da poco rilasciato una dichiarazione in cui esprime preoccupazione per il rapido deterioramento della situazione dei diritti umani nella regione. E tutto sembra indicare che ci siano le condizioni perché avvenga qualcosa di terribile in Kashmir.

Per la popolazione della regione contesa l’unico risvolto positivo dell’operato di Modi risiede nell’aver dato, involontariamente, risonanza internazionale alla questione. Dopo anni in cui la zona è stata relativamente ignorata il Kashmir è ora sulle prime pagine di tutto il mondo. E c’è stato tra l’altro un crescente riscontro da parte dei politici statunitensi. La scorsa settimana, quattro senatori hanno pubblicato una lettera in cui esprimevano grave preoccupazione riguardo la “crisi umanitaria” che sta avendo luogo in Kashmir. Il candidato alla presidenza democratica Bernie Sanders ha recentemente definito la situazione “inaccettabile” e ha espresso sostegno per «una soluzione pacifica del conflitto, appoggiata dall’Onu, che rispetti la volontà della popolazione del Kashmir».

Se le drastiche decisioni del governo Modi hanno impresso una piega tragica alla situazione nella regione, allo stesso tempo hanno riportato la questione sotto i riflettori internazionali, rendendo chiaro quanto sia sempre più urgente risolvere questo confitto di lunga data che, tra l’altro, coinvolge due potenze nucleari. Il discorso di Houston, in cui Modi ha trionfalmente annunciato l’annullamento dell’autonomia del Kashmir come uno dei maggiori risultati del suo mandato, dimostra che, in assenza di una qualche pressione internazionale, gli eventi tendono facilmente a degenere in uno scontro ancora più pericoloso di quello esistente. Il Primo Ministro pachistano Khan all’Onu ha messo in guardia rispetto alla possibilità di un “massacro” nella parte del Kashmir a controllo indiano, nel caso dovessero iniziare delle proteste in seguito alla cessazione delle restrizioni.

«L’India sta attraversando la sua fase più autoritaria e draconiana, ma le misure che sta compiendo contro la popolazione del Kashmir stanno avvenendo sotto gli occhi della comunità internazionale», ha detto Mona Bhan, professoressa associata di antropologia all’Università DePauw. «Dobbiamo concentrarci su come far cessare le violazioni dei diritti umani che stanno accadendo ora, ma occorre anche affrontare la questione da una prospettiva più ampia: ripristinare i diritti politici, in particolare quello all’autodeterminazione per i cittadini del Kashmir, che se lo sono visto negato per decenni».

 

Articolo originale pubblicato su theintercept

Traduzione in italiano di Francesco Brusa per dinamopress