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Coppia aperta?

Daniele Lucchetti con “Anni Felici” ci parla di un bambino che vuole capire cosa sta succedendo ai suoi genitori e a…. chi gli sta intorno.

Non deve essere stato certo facile essere genitori di un adolescente nel 1974. Neppure essere stato adolescente in quel periodo. Ancora più complicato quando, poi, i due genitori sono tra loro molto diversi e i figli in questione una coppia di fratelli. Divisi tra loro da pochi anni di differenza,uniti nel cercare di capire chi gli era capitato in sorte di avere come padre e madre e soprattutto perché si comportassero così. Daniele Lucchetti fa irruzione con Anni Felici (2013) all’interno della macchina della famiglia proprio negli anni in cui, questa, veniva messa in discussione come istituzione autoritaria. Nell’anno, il 1974 appunto, che, finalmente anche in Italia, grazie alla vittoria referendaria, questa riuscì a smarcarsi dall’essere considerata vincolo, patto indissolubile tra due individui.

Dario il più grande dei fratelli ha 10 anni. Non si da pace del fatto che Serena e Guido (così chiama il padre e la madre) sembrino concentrati solo su loro stessi. La battaglia per l’introduzione del divorzio è solo sullo sfondo. Guido e Serena non ne parlano. Sappiamo che è in atto da un brandello di un manifesto e dal grande No del titolo tipografico con cui Paese Sera “strillò” quella vittoria, ripreso discretamente, con l’obiettivo di sguincio, su un tavolino di un bar.

Guido, cresciuto in una famiglia dove l’arte non è assente , vuole essere artista. Serena, cresciuta all’interno di una famiglia di commercianti, solida economicamente, riunita da una madre super organizzatrice in una di quelle ville con cui il “generone” romano ha inzeppato la pineta di Fregene, vorrebbe solo Guido. Guido è scontento del proprio lavoro di artista e intorno all’arte. Di quello che produce, del dover spiegare l’arte alle ragazzine dell’Accademia, delle scontate risposte di Dario che non capisce le riproduzioni artistiche che lui gli mette davanti come se stessero giocando a “rubamazzo”. Cerca la grande occasione per esprimersi. La convenzione gli fa schifo, ma come il padre che pure è stato un (modesto) pittore convenzionale non vende e, come il padre, proprio per questo, non è considerato dalla madre Lui dice che non intende vendersi e resta in attesa della grande occasione. Arriva.

Si presenta così alla Triennale di Milano con una performance “tutta finta” come crudelmente gli dice il potente critico napoletano (Achille Bonito Oliva?). Con una classica ansia prestazionale vuole dire tutto, tenere tutto insieme. Così come fa con la “famiglia”, essere lui al centro della scena. Il problema è che Guido sembra non capire i tempi né i luoghi. Così a Milano presenta un lavoro sul corpo,“naif”distante anni luce da quanto fatto, proprio in quella città, da Piero Manzoni più dieci anni prima. Guido non guarda ai lavori dei suoi colleghi coetanei romani, ai “ paesaggi anemici “ di Mario Schifano, ai monocromi del “quotidiano” di Tano Festa . Si fa sedurre dal Palazzo delle Arti, dal suo abbacinante bianco, dal pavimento riflettente in resina.

Guido guarda ai corpi come oggetti. Da possedere con un segno. Attendendoli. Così come, attende le ore di insegnamento, attende la sua vita con i figli, attende che qualcuno lo “scopra” . Non va incontro alle cose, la sua vita come la sua pittura è convenzionale, corre stancamente. Così come, altrettanto stancamente, “scopa” convenzionalmente con le proprie modelle. Guido non riesce (non vuole) vedere e capire che intanto, fuori dal suo (magnifico) studio ai piedi del Gianicolo, stava accadendo che proprio quei corpi, che lui voleva firmare con il suo segno di artista, stavano cambiando la grammatica e il modo di vivere, di parlarsi, di trovarsi nel mondo.

Guido non avverte tutto questo. Crede che usare un culo come una “cassaforma” per farne una lampada colorata sia un’opera. Guido non capisce, ancora una volta, i tempi, non si accorge che quella lampada, ospitata nello stesso spazio del bellissimo negozio di via del Seminario ( tutt’ora esistente) da una accondiscendente amica gallerista, è circondata dagli elementi della migliore stagione del design italiano che vedendo quello che stava succedendo, proprio agli inizi degli anni 70, riuscirono a far tornare i conti (anche economici) tra espressione artistica e la sua riproducibilità tecnica. La Valentine di Sotsass, il tavolo di Zanotta, il design democratico del Superstudio, sono tutti lì in mostra in quelle luminose vetrine romane.

Guido non riesce a far si che la sua opera riesca a “guardare”. E’ il quadro, così come il libro, una musica, a “guardarti”; l’opera si costruisce dagli insieme di questi “sguardi”. Dario, che nel film, ripercorre da adulto questi anni, a differenza di suo padre, sembra aver capito che per cogliere gli sguardi “altri” non basta guardare, bisogna saper mettere insieme le cose che si vedono. Così, una volta avuta in regalo l’agognata cinepresa super 8, anche se non ci sono pellicole, “ girerà” lo stesso scene su scene di quello che lo circonda; per cercare un nesso per capire quello che sta succedendo a lui e intorno a lui.

Saranno quelle scene girate con e senza pellicole (ma che importa?) a seguire e tenere insieme il lento, ma inesorabile terremoto che ha messo in discussione la pretesa secolare che ci fosse qualcuno autorizzato a determinare la vita di chi gli stava accanto. Ad accorgersi che il mondo degli affetti usciva fuori dalle mura delle case; che si poteva progettare e intendere la vita in un altro modo. Che parlare, dirsi la verità, non vergognarsi del giudizio altrui, avrebbe liberato quei muri. Che le automobili, anche sottoforma di un furgone rosso, potevano portarci lontanissimo invece che essere, come accadeva a sua madre e suo padre (ma anche a lui e suo fratello) la scatoletta dove rinchiudersi per non affrontare la realtà di quello che stava accadendo, l’astio reciproco di chi, magari facendo leva sulla debolezza dell’altro,voleva riciclare il proprio ruolo.

Dario filma immagini liberatorie, nel senso che il suo montaggio familiare accompagna tutto quello che accade e che doveva accadere: la scoperta di Serena, sua mamma, di poter vivere e avere propri desideri anche lontana da Guido, il costruire nuovi affetti, il ritrovarsi insieme a tanti, il discutere e il festeggiare, la propria scoperta dell’universo femminile, la capacità di innamorarsi, la possibilità di cercare di “capire” perché, suo padre non riesca a sopportare tutto questo, perché si lasci andare, il fatto che l’artista non si vende, ma può essere comprato. Cosa che capiterà proprio a lui che sarà pagato, ed anche molto, per cedere alla Kodak quelle immagini traballanti del suo super 8 come base di un inserto televisivo pubblicitario.

Separandosi Serena e Guido riusciranno ad amarsi e ci sarebbero riusciti anche senza il successo di Guido, che sigillerà lo spazio del proprio studio stendendo a terra l’ “assenza” di Serena sotto le spoglie di un telamone femminile.

Anni felici non è un film autobiografico è una delicata intrusione negli anni 70, verso cui gli sceneggiatori hanno calcato un po’ la penna come a volerli prendere in giro. Qualcuno, forse, non si è accorto della bellezza di quel periodo. Io non ho mai avuto dubbi e continuo a non averli.