editoriale

Fare i conti con la recessione

La maggior parte delle analisi della crisi politico-istituzionale italiana dimenticano un fattore di decisiva importanza per la sua comprensione: lo spettro della recessione globale

Qualcuno l’ha definita la “crisi più pazza del mondo”. Ora, senza scomodare il concetto di pazzia, evidentemente qualcosa non ha funzionato nei calcoli politici di chi ha tentato la forzatura verso nuove elezioni in autunno. I giochi sono ancora aperti, ci mancherebbe, ma è quasi certo che ci troveremo di fronte a un nuovo assetto politico-istituzionale, qualsiasi sia il suo colore.

Alcuni degli aspetti di questa vicenda politica sono piuttosto noti: il ministro degli Interni che dopo aver aperto la crisi tenta una fallimentare conquista del Sud Italia, per lo più segnato da contestazioni; la furba e repentina apertura dell’ex premier Renzi a un possibile (e suicida) governo istituzionale che, messi in ordine i conti, avrebbe traghettato verso nuove elezioni; la proposta, un po’ più rassicurante, di un governo di legislatura e politico. Le seguenti tattiche parlamentari, insomma, sono più o meno cronaca quotidiana. Vi sono però degli aspetti che i grandi giornali italiani non hanno raccontato, o hanno semplicemente relegato alle sezioni di economia, ma è necessario prendere in considerazione. Senza di loro la crisi è comprensibile solo a metà, la crisi parlamentare rimane relegata nei ristretti e angusti confini nazionali e non mostra, invece, il conflitto che si è aperto o si sta aprendo nella governance europea e mondiale.

La questione che Di Vico si pone sulle colonne del Corriere della Sera del 22 agosto nell’articolo Voto subito? Il partito del Pil ora ha dei dubbi aiuta a focalizzare il problema. Pezzi di padronato del Nord Italia, in particolar modo del Nord lombardo-veneto, hanno inizialmente sostenuto e caldeggiato la forzatura salviniana. Zoppas e Bonometti, rispettivamente presidenti di Confindustria Veneto e Confindustria Lombardia hanno pubblicamente espresso, a cavallo di Ferragosto, l’esigenza di tornare velocemente alle urne.  Il giorno dopo, però, tutto è cambiato: l’opzione salviniana è stata brutalmente scaricata e gli industriali sono diventati tiepidi verso un nuovo voto. L’uomo del Nord, l’uomo delle banche del Nord, Giorgetti non ci ha pensato due volte e ha pubblicamente castigato il suo leader, cosa non così sovente in un partito in cui non esiste democrazia e le decisioni le prende solo il capo. Perché pezzi di padronato capiscono, anche un po’ in ritardo, che i tempi sono sbagliati?

Perché, proprio nei giorni in cui il probabile futuro ex ministro degli Interni ha dichiarato terminata la stagione del governo 5 Stelle-Lega, le notizie sull’economia globale assumevano tinte ulteriormente più fosche. Certo, vi è lo spettro dell’abusato strumento “terroristico” dello spread e della minaccia sempre costante della speculazione finanziaria, ma sono stati altri i segnali, ben più preoccupanti, che hanno imposto un cambio di rotta repentino. Indicazioni che pur provenendo contemporaneamente da diversi luoghi geografici, si muovono sull’asse di una economia globalizzata: tra Stati Uniti e Cina, tra Italia e Germania, tra Argentina e Gran Bretagna. Il brivido che ha circolato intorno a questi assi ha comunque una sola denominazione: recessione. I dati macro-economici profilano all’orizzonte una nuova recessione globale, dopo nemmeno dieci anni dall’inizio dell’ultima.

Proviamo a mettere schematicamente di seguito alcune delle ultime indicazioni:

1) mentre Trump è ancora impegnato nella logorante guerra commerciale contro la Cina (la cui produzione industriale “formalmente” rallenta scendendo ai minimi del 2002), il tasso pagato dai treasuries, i titoli emessi dal Tesoro statunitense, a dieci anni è sceso sotto quello pagato dai titoli biennali. Nulla di immediatamente preoccupante, se non fosse uno dei più importanti campanelli di allarme che anticipano la recessione: questa curva di rendimento, infatti, si è invertita prima di ogni recessione da 50 anni a questa parte. Questa dinamica ha scatenato nella settimana successiva forti ribassi nelle borse, attualmente placati dall’attesa delle decisioni della Federal Reserve, pesantemente messa sotto attacco dalla presidenza Trump, sui nuovi tassi di interesse;

2) l’altro fronte è nel cuore dell’Europa, la Germania, o meglio ancora il modello di produzione capitalistico ordoliberale. Il governo Merkel, sostenuto anche dai socialdemocratici in rovinosa discesa nei sondaggi, dopo anni di contrazione della domanda interna sostenuta da una compressione dei salari e una forte esportazione coadiuvata dalla moneta comune europea si trova ora con un Pil in contrazione da due trimestri e, stando alle previsioni della Bundesbank, l’ultimo trimestre segnerà ufficialmente la recessione tecnica. La novità agostana, però, sta nell’ingente intervento che il governo sarà costretto a mettere in campo nonostante le resistenze del ministro socialdemocratico Scholz, profondamente contrario fino a pochi giorni fa. Un intervento da 50 miliardi di euro che, seppur non è un’apertura netta verso politiche di indebitamento, rappresenta sicuramente un cambio di passo anche in vista delle elezioni federali in Sassonia e Brandeburgo dove l’AFD è, stando ai sondaggi, il primo partito;

3) Boris Johnson, primo ministro del Regno Unito, continua a confermare che il 31 ottobre la Brexit diverrà effettiva. La minaccia di una possibilità di uscita senza accordo sembra sempre più probabile agitando ulteriormente lo spettro di una catastrofe economica;

4) l’ultimo dato riguarda il piano interno. L’economia italiana viaggia da anni in una torbida stagnazione, con vette di crescita di pochissimi decimi percentuali: la mancanza di investimenti da parte delle imprese e il massacro del mondo del lavoro riportano il “sistema Italia” a rivedere la recessione. Sicuramente la congiuntura non è tra le più favorevoli: gran parte delle imprese del nord-est sono dentro la catena del valore della locomotiva tedesca, cosa che ha ben capito Renzi quando in coda al suo intervento al Senato il 20 agosto, citando la crisi della produzione tedesca e riferendosi proprio alla Lega, ha apertamente detto che nel “vostro” nord-est ci saranno guai seri. Ma ci sono altri dati che allarmano profondamente: in Italia i tassi di interesse sui mutui sono in continua discesa e aggiornano sempre nuovi record ma, nonostante ciò, le richieste di mutui e surroghe sono in calo. Neanche i micro-tassi sono sufficienti. Qual è la ragione, oltre all’incertezza politica? Quella ancora più ovvia: i salari in Italia sono troppo bassi.

Probabilmente è stato questo l’errore fatale commesso da Salvini: non aver visto la tempesta che viene. Gioco facile hanno avuto gli avversari a sbarrargli la strada, dopo – va sempre ricordato – avergli aperto una prateria. Se da una parte permette un sospiro di sollievo, dall’altra va messo in luce la fragilità della governance europea e quella mondiale, di nuovo sul baratro del caos. I punti di stabilità risultano estremamente fragili, continuamente incapaci di chiudere il governo della crisi. Bloccare l’avanzata della Lega è un segnale che risuona in Francia come in Germania: ma il punto in cui Salvini inciampa non è necessariamente il segnale che determina la fine dell’estrema destra in Europa. Senza misure di intervento radicali, che mettano fine alla stagione dell’austerità in Europa, siano in grado di far riprendere le domande interne stagnanti dovute a salari bassi, dove non inesistenti, con una nuova crisi che si staglia all’orizzonte, la campana a morto potrebbe suonare per l’esperimento politico europeo.

Dentro questa fase – che si muove tra un neoliberalismo predatorio e populismi con tratti autoritari, con i due piani che spesso si intersecano – costruire movimenti sociali significa prendere sul serio questi due fuochi. Significa, quindi, costruire alternative a chi ha governato con manovre lacrime e sangue durante gli ultimi decenni. C’è bisogno di movimenti sociali ampi e radicali, europei e globali, capaci di costruire e rilanciare pratiche di redistribuzione. Spazi di convergenza, in grado di farsi attraversare e contaminare dai movimenti femministi, migranti e ambientalisti che hanno trasformato la scena politica negli ultimi anni. Mai necessari come oggi, quando il polmone del mondo arde e muore. Capaci di ritessere un tessuto di solidarietà nel mondo atomizzato e precarizzato del lavoro attraverso pratiche di sindacalismo sociale. Movimenti di poveri e impoveriti, precarie e precari capaci di reclamare e riconquistare reddito, spazi di autonomia e di libertà.