ROMA

Centro Donna L.I.S.A.: 20 di lotta e liberazione, parlano le protagoniste

Un’intervista alle attiviste del Centro Donna L.I.SA. che festeggia i suoi primi vent’anni. Un percorso di donne contro la violenza di genere e la società patriarcale in una periferia romana, tra le protagonista della marea femminista di Non Una di Meno.

Se passate a Vigne Nuove, alla periferia del III Municipio a Roma, se guardate con attenzione, vedrete su delle finestre al civico 41 di via Rosina Anselmi delle lettere colorate: “Centro Donna L.I.S.A”. Qui da vent’anni, tra il grigio dei caseggiati popolari, è nata un’esperienza di lotta di donne che è diventata un modello importante a Roma e non solo: un centro antiviolenza nato da un collettivo femminista che non ha mai rinunciato alla sua identità antagonista, che ha accumulato saperi ed esperienza di volta in volta configgendo o dialogando con le istituzioni e la società. Per la ventesima candelina di questo posto speciale abbiamo realizzato un’intervista collettiva alle protagoniste.

 

Cominciamo guardandoci indietro, raccontateci il percorso da cui nasce il centro donna L.I.S.A. vent’anni fa, come si è trasformato nel tempo, che tipo di servizi offre e che tipo di interventi fa nel quartiere e non solo.

Siamo nate come un collettivo di donne nel nostro municipio. Uno dei primi obiettivi che ci siamo date è stato quello di trovare sul territorio dove viviamo un posto che desse visibilità alla nostra storia e alle nostre soggettività. L’ambizione è stata e resta quella di riuscire a intrecciare la contraddizione di classe e il conflitto di genere. Le nostre attività sono state caratterizzate dalla scelta dell’autodeterminazione, del contrasto e della denuncia del potere patriarcale, che abbiamo poi praticato con una azione di “disobbedienza civile” occupando nel novembre del 1997 uno spazio abbandonato da tempo nel quartiere. Occupazione pienamente riuscita grazie all’impegno e alla solidarietà di tantissime donne, sia singole che associazioni, disposte a sostenerci e a condividere con noi le notti in terra, la mancanza di acqua e di luce, le visite della polizia, l’entusiasmo e la voglia di farcela nel rispetto delle differenze reciproche, mantenendo e costruendo insieme al movimento femminista iniziative comuni.

Passare da un collettivo femminista a un Centro antiviolenza (Centro Donna L.I.S.A. che sta per Libertà, Autodeterminazione, Soggettività, Internazionalismo) ha richiesto uno sforzo e un impegno notevole: fortunatamente molte di noi avevano già una formazione all’accoglienza di donne che hanno subito violenza che hanno potuto trasmettere alle altre. Ad oggi siamo state formatrici di decine e decine di donne che ci hanno avvicinate con la voglia di condividere e di fare qualcosa di concreto insieme. Importantissimo per noi il lavoro fatto nelle scuole con seminari di educazione e contrasto alla violenza di genere.

Accanto alle attività di contrasto alla violenza di genere, proprio perché, abbiamo l’ambizione di riuscire a intrecciare la contraddizione di classe e il conflitto di genere, il nostro impegno si traduce anche nelle iniziative e nelle battaglie contro ogni forma di oppressione, contro le guerre, in questa direzione si collocano le iniziative sui temi del lavoro, dell’ambiente (partecipazione alla campagna per l’acqua pubblica) i nostri progetti per sostenere l’autodeterminazione delle donne palestinesi, e molto altro.

Per riuscire a mantenerci autonome e indipendenti senza rischiare una metamorfosi e diventare una delle tante “imprese” no profit, stravolgendo così le finalità e i principi originari, abbiamo scelto la strada dell’autofinanziamento, decisione condivisa da tutte che prevede una quota di sottoscrizione mensile da parte di ognuna in base al proprio reddito. Inoltre qualsiasi progetto presentato per un finanziamento pubblico dovrà sempre rispondere alla finalità di prevenzione e contrasto della violenza sulle donne.

In questi 20 anni abbiamo cercato di costruire un luogo non autoreferenziale ma aperto al contributo e al confronto con altre donne animate dagli stessi obiettivi. Come? Riconoscendo pari dignità al pensiero di ognuna, decidendo insieme sul da farsi senza criteri di maggioranza o minoranza ma con la pratica del confronto e della mediazione. La nostra garanzia è la composizione diversificata del gruppo che intreccia storie personali, quindi politiche, che camminano ascoltando e domandando sentendosi parte di una storia comune, quella del movimento delle donne. Nel tempo dell’individualismo più sfrenato resistiamo al sessismo, al fascismo e al razzismo. La nostra ultima parola gridata nelle piazze di tutto il mondo è e resterà la stessa: se toccano una toccano tutte.

Qual è il percorso che una donna che vuole liberarsi dalla violenza segue con il centro antiviolenza? Come avviene il contatto e come viene seguita?

È un percorso che parte dal riconoscimento della violenza subita come espressione del potere che gli uomini esercitano, da millenni, sulle donne in tutti gli ambiti, tra cui quello delle relazioni intime.

Riconoscere che la violenza maschile sulle donne non è espressione di un disagio sociale o mentale del singolo che l’agisce, ma un fenomeno sistemico e strutturale volto a mantenere dei rapporti di forza – di cui il sessismo ne è una delle espressioni – consente di svelare la violenza, di rendere politico quello che si vorrebbe far passare come “fatto privato”. Consente di dare il giusto nome alle cose, ad esempio distinguere tra conflitto e violenza, di superare il senso di colpa e di vergogna che spesso le donne esprimono per non essere state in grado di tutelare sé stesse e i figli/figlie.

Un percorso attraverso cui si spezza l’isolamento di cui la violenza si nutre, è un tempo e uno spazio in cui la donna attraversa e rielabora il proprio vissuto di violenza insieme ad altre donne; in cui vengono valorizzati i punti di forza, le risorse che la donna già possiede e si attivano strategie per riprendere in mano la propria vita. Come ci dicono spesso le donne che accogliamo: “voglio riprendermi la mia libertà, la mia dignità”.

Fondamentaleevidenziare che non esiste un percorso standardizzato, ogni storia è diversa, ogni donna porta vissuti, bisogni, desideri, che vengono esplorati insieme, non ci sono soluzioni predeterminate. La donna in questo percorso è “soggetto” protagonista e non “oggetto” di assistenza.

Chi accoglie sono altre donne che le stanno accanto. Noi siamo in questo percorso “da donna a donna”, senza quella distanza che in genere si mette in atto nel rapporto tra professionista da una parte e utente dall’altra, e siamo “di parte”, ossia prendiamo posizione a favore delle donne e contro la violenza, e lo esplicitiamo.

L’essere “testimoni emotive” del vissuto che viene condiviso dalla donna, il sentirsi creduta e riconosciuta attraverso l’ascolto empatico, non giudicante, oltre alla centralità della relazione tra donne e l’essere sempre dalla parte delle donne, caratterizza il nostro intervento. E’ per questo che non accettiamo che i Centri antiviolenza femministi siano considerati “erogatori di servizi”, che rifuggiamo dall’uso di parole quali “presa in carico”.

Il primo contatto di solito avviene tramite telefono. Abbiamo un telefono H24 reperibile attraverso il nostro sito internet, o tramite il 1522 (numero gratuito istituito dal Dipartimento Pari Opportunità) o l’indirizzario dei Centri Antiviolenza dell’associazione nazionale Di.Re., di cui siamo socie fondatrici, o anche il passa parola.

Il primo ascolto è molto importante perché ci permette di raccogliere i bisogni e le richieste della donna e di fornirle prime indicazioni sulle risorse che possono essere attivate; viene fatta anche una prima valutazione dei rischi che la donna corre. Si fissa quindi un appuntamento per un colloquio personale, nel corso del quale si analizza insieme alla donna la situazione, si valutano i bisogni e le possibili strategie, si forniscono informazioni sui servizi presenti nel territorio; se la donna lo richiede, si fissa l’appuntamento per un colloquio con l’avvocata.

Tutte le attività sono gratuite e sono svolte garantendo alla donna riservatezza, segretezza e anonimato, il rispetto delle sue decisioni e dei suoi tempi.

Lo sportello legale attivo nel CAV che tipo di supporto offre? Che tipo di formazione hanno le operatrici?

Le avvocate del Centro offrono, gratuitamente, informazioni e indicazioni riguardo le possibili iniziative legali che la donna può intraprendere nel percorso di uscita dalla violenza; sono iscritte al gratuito patrocinio e questo consente alle donne di poter essere gratuitamente assistite, qualora decidano di avviare un procedimento giudiziario.

Tutte le attiviste (preferiamo questo al termine operatrici) del Centro, qualunque sia la loro professionalità e competenza, sono donne che integrano i loro saperi con una formazione specifica sulla violenza di genere. Una formazione che si basa su una lettura femminista della violenza maschile sulle donne e dunque fornisce strumenti per rispondere a questo problema non in termini individualistici e psicologici, ma politici, economici e sociali; che assume la relazione tra donne quale elemento centrale dell’accoglienza, riconoscendo alle donne di essere le “esperte” della propria vita.

 Veniamo al movimento NON UNA DI MENO: la grande marea del 25 novembre è esondata, portando centinaia di migliaia di persone in piazza. Possiamo affermare che il grande risultato è sicuramente quello di aver fatto luce in maniera esplosiva sulla violenza di genere, permettendo a tante donne, anche giovani e giovanissime, di utilizzare il femminismo come chiave di lettura delle proprie dinamiche quotidiane. In che modo i centri antiviolenza, che così come i consultori nascono dalle lotte delle donne e sono ben lontani da essere un semplice servizio, hanno preso parte al movimento?

L’associazione Nazionale D.i.Re (Donne in rete contro la violenza), di cui facciamo parte insieme ad altri 80 Centri antiviolenza sparsi sul territorio nazionale, è stata una delle promotrici insieme alla Rete Io decido e UDI della manifestazione del 26 novembre dell’anno scorso da cui è poi è nato il movimento non una di meno. I Centri, nati dall’esperienza del movimento femminista, partecipano attivamente alle assemblee locali così come hanno partecipato alla elaborazione dei tavoli tematici, da cui è nato il piano femminista contro la violenza maschile sulle donne.

Il nostro Centro in questi venti anni e più ha sempre cercato di tessere relazioni e attivare reti di collettivi di donne e ha partecipato ai movimenti che in questi anni sono nati, perché convinte che una condizione necessaria per combattere la violenza maschile sulle donne sia la partecipazione e il protagonismo delle donne.

Non una di Meno ha presentato il suo manifesto politico programmatico, il “Piano Femminista contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere”, frutto di un lavoro di intelligenza, elaborazione e scrittura collettive, a pochi giorni di distanza dalla presentazione del piano dell’Osservatorio Nazionale sulla violenza, che invece è stato scritto nelle segrete stanze del Ministero delle Pari Opportunità, senza coinvolgere le associazioni e le tante realtà di donne che operano tutti i giorni in questo contesto. Al di là del processo, quali sono le principali differenze?

Proprio per il processo con cui è stato costruito e la modalità molto “discreta” con cui il piano è andato in discussione alla conferenza unificata Stato-Regioni, non abbiamo chiaro come, aldilà dell’enunciazione di principi ineccepibili, il governo intenda dare seguito agli impegni dichiarati nel piano. Nei dettagli, che rimangono fumosi, solitamente si determinano scelte di carattere politico e finanziario importanti. Non abbiamo avuto ancora modo di leggerlo in maniera approfondita, ma già da una prima lettura emergono comunque sostanziali differenze.

Il Piano Femminista definisce la violenza sulle donne e la violenza di genere come sistemica, poiché attraversa tutti gli ambiti della vita, dalle relazioni personali alla sfera economica, politica, sociale e strutturale; relazioni legate al sistema di oppressione patriarcale (disparità di potere fra gli uomini e le donne) che s’intreccia in maniera funzionale al sistema economico capitalista. Il Piano Nazionale del Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, richiamandosi alla convenzione di Istanbul, pur riconoscendo le radici culturali della violenza sulle donne, fondata sulla disparità di potere fra uomini e donne riconducibile all’organizzazione patriarcale della società, non interroga le strutture di sistema che la sostengono e la riproducono.

Come hai detto, la scrittura del nostro piano è stato frutto di un lavoro collettivo, di condivisione di vissuti e di esperienze, di messa in rete di pratiche e relazioni femministe. Il piano governativo invece è stato il frutto, come loro stesso scrivono, di un dialogo partecipato fra vari, alcuni precisiamo noi, soggetti. Quindi da una parte c’è la scrittura di un piano fatta direttamente da chi vive in prima persona e opera fattivamente nella lotta alle molteplici forme di violenza maschile e di genere, dall’altra un piano costruito consultando alcune delle associazioni coinvolte in questo ambito. Questo approccio permea tutto il piano governativo. Infatti, nonostante nel piano vengano nominati i Centri antiviolenza, come snodo centrale territoriale nell’ambito dell’accoglienza alle donne vittime di violenza, il loro ruolo è non è affatto centrale nell’insieme degli interventi che questo piano si pone.

Negli assi principali in cui il piano è articolato, la partecipazione dei Centri può essere prevista nella formazione obbligatoria dei/delle docenti, può esserci una collaborazione tra soggetti istituzionali e con l’associazionismo femminile di riferimento e i Centri antiviolenza nella formazione e sensibilizzazione rivolta a operatori e operatrici del settore della comunicazione.

Per il piano femminista invece la formazione dei media e delle industrie culturali deve essere tenuta da esperte femministe, competenti in materia, così come deve essere dato pieno riconoscimento alla competenza specifica delle donne che lavorano nei CAV, al pari delle altre figure professionali coinvolte nel percorso di fuoriuscita dalla violenza delle donne.

Infine, pur affidando ai Centri antiviolenza un ruolo di coordinamento a livello territoriale, essi sono a livello di sistema di governace di questo piano esclusi dalla cosiddetta cabina di regia, ossia dal luogo in cui si decidono politicamente le azioni e soprattutto le modalità con cui queste devono concretizzarsi, restando così il potere di determinare le scelte delle politiche e degli interventi tutto a livello istituzionale.

Il piano femminista definisce gli elementi distintivi dei Centri Antiviolenza, delle operatrici di accoglienza/antiviolenza e la pratica e la metodologia dell’accoglienza. Una metodologia basata sulla relazione fra donne, che mette al centro il progetto della donna, accoglie i suoi desideri e rispetta la sua autonomia. Nel piano governativo invece si fa riferimento alla “presa in carico” della donna, evidenziando la logica tipica dei servizi che guarda solo al bisogno immediato tralasciando la riprogettazione complessiva della vita della donna nel percorso di fuoriuscita; la donna è vista non come soggetto attivo di questo percorso, ma come soggetto, problema di cui appunto farsi carico.

Per quanto riguarda la definizione dei Centri Antiviolenza, sebbene si scriva che sarà soggetta a revisione, il Piano rimanda a quanto stabilito dall’intesa del 27 novembre 2014. Intesa che nel Piano Femminista viene fortemente contrastata perché lascia ampi spazi nella definizione di CAV e di chi può candidarsi a gestirlo, consentendo l’attivazione di servizi neutri, assistenzialistici e privi di competenze specifiche che non sono in grado di accogliere le donne e accompagnarle in un percorso di autonomia e autodeterminazione.

Da ultimo, il piano strategico nazionale nelle sue articolazioni per assi d’intervento pone una serie di impegni, la cui attuazione viene rinviata in futuro e che verrà realizzata con “un percorso di lavoro teso a definire in maniera chiara gli impegni e le azioni concrete attraverso la compilazione di schede obiettivo “. Il piano femminista avanza proposte e pone da subito obiettivi, individuando azioni concrete da intraprendere.

Ultima domanda: obiettivi dei prossimi vent’anni?

Possiamo riassumerlo in un unico: continuare la nostra azione fino a quando non avremo liberato le nostre vite e costruito una società libera dalla violenza maschile e di genere in tutte le sue forme e libera dalle strutture di potere economico e culturale che la sostengono. Forse, però, per questo obiettivo ci vogliono più dei prossimi venti anni.

Nel frattempo, un nostro obiettivo immediato è quello di Re/esistere. Anche noi, come altri luoghi di donne in questa città, siamo a rischio chiusura. I locali dove svolgiamo le nostre attività sono di proprietà ATER e quando stipulammo il contratto di affitto fu applicato un canone commerciale. Un canone per noi insostenibile e illegittimo: siamo un centro autofinanziato non siamo un ente commerciale, non facciamo profitto, la nostra attività ha una forte rilevanza sociale. Per questo da anni lottiamo perché venga riconosciuto il valore sociale e culturale di quello facciamo.

Abbiamo cercato di risolvere la nostra situazione ma a fine 2011 ci siamo ritrovate che non solo il contratto di affitto non è stato rinnovato dall’ATER, ma ci è stato richiesto una somma a titolo di debito per affitti regressi che ammontava a più di 40.000. euro, ed oggi ci ritroviamo senza contratto e un debito che via via è andato aumentando, vista la richiesta mensile da parte dell’ Ater a titolo di indennità di occupazione dell’importo del canone commerciale.