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Centri sociali: che impresa! Introduzione

Succede che un evento mancato produca effetti duraturi e superiori ad altri che, realizzati tra strombazzi e pompe magne, risultano poi privi di spessore sia nelle ipotesi che negli esiti. Così va accadendo per un convegno mai avvenuto, che avrebbe dovuto svolgersi ad Arezzo a ottobre del ’95 e i cui materiali sono pubblicati in questo libro. Il lettore avrà modo di conoscere il dibattito aspro, spinoso, fortemente conflittuale e a volte un po’ esoterico che si è svolto tra i collettivi dei Centri sociali (cs) e che pertiene a tematiche cruciali che non interessano solo il futuro e le strategie dei cs stessi, ma il divenire di questo Paese

Nel dibattito su “Lo spazio sociale metropolitano tra rischio del ghetto e progettista imprenditore” – questo il titolo del convegno abortito – si evidenzia, come sovente capita di constatare negli ultimi anni, che nei Centri sociali, intorno a essi, su di essi, e spesso loro malgrado, si snodano questioni cruciali che ineriscono alle profonde modificazioni della società italiana, al micidiale scontro dei suoi apparati di potere, al declino delle forme di rappresentanza, all’uso delle aree urbane, ai diritti negati e ai desideri di trasformazione sociale. Chiunque si sia rapportato solo a una parte di tali questioni avrà incontrato come oggetto d’attenzione o come soggetto d’intenzione i cs.

La rete ramificata, pur differenziata e non coordinata degli oltre cento cs italiani, è stata spesso prima spettatrice di scene altrove preparate e poi protagonista irruenta e dissacrante sul palcoscenico. I cs sono agiti sia come parafulmine di complessi scontri di potere – si badi bene, non soltanto dei poteri forti, istituzionali, ma anche di quelli deboli, neo-sindacali e microrganizzativi che sono vicini prossimi e a volte conviventi dei cs – sia come sensore, sensibile e produttore di senso, che allude a scenari sociali non ancora definiti e nel cui flusso, vorticoso quanto nebuloso, si situa l’occupazione – di spazi, di intelligenza, di creatività – ma anche la preoccupazione dei protagonisti di questo dibattito.

I cs sono un oscuro oggetto del desiderio – questo un altro dei nodi cruciali del dibattito, pertinente la loro identità – non soltanto per chi ha fatto di tutto per inibire la loro esistenza, la loro attività e, in mancanza d’altro, la loro proliferazione, ma spesso anche per i protagonisti. Per esempio, i cs sono molto differenti ma si sentono tali più di quanto non lo siano. In questo hanno un difetto di vista tipico della politica: tra me e il mio vicino, foss’anche dello stesso partito, vedo una differenza abissale, lui e il suo più acerrimo nemico, invece, mi sembrano oggettivamente uguali. Il corpo dei frequentatori dei Centri sociali – che per forza numerica attira l’invidia di ogni forma tradizionale di rappresentanza e di diverse istituzioni culturali – sembra a sua volta agito dal piacere di incidere il territorio urbano e anche i cs con segni che fanno riferimento a un codice proveniente dal Leoncavallo, da Forte Prenestino ecc. Un corpo che tuttavia stenta ­ perché non ne ha il modo o perché non ne ha desiderio? ­– a farsi motore non solo dell’estetica dei cs, ma anche della loro progettualità.

Il corpo dei frequentatori dei cs – la sua composizione sociale e culturale, i variegati diritti di cui è portatore, i desideri che lo innervano – costituisce l’elemento centrale per intraprendere azioni d’innovazione sociale e culturale. A questo corpo in parte fantasmatico, oggetto d’indifferenza, di malcelata tolleranza, di pregiudizio, di controllo, di paure e di insane voglie, è rivolto questo libro, nella speranza che il carattere reciprocamente alieno tra corpo e spazio che esso occupa si riduca. Il materiale prodotto è stato infatti elaborato da singoli soggetti o collettivi che sono protagonisti della gestione dei Centri. Questo è il primo libro che assembla materiali dei Centri da immettere nel circuito editoriale ufficiale. Un libro in parte autogestito, ma non autoprodotto per la scelta inequivoca dei curatori di trovare uno spazio neutro che gli assicurasse rapidità e massima diffusione, spazio garantito dall’editore Castelvecchi che ringraziamo vivamente. La scelta operata è stata quella di pubblicare tutti i documenti nell’ordine in cui sono stati scritti e che fanno riferimento al convegno di Arezzo. Questa documentazione è esaustiva del materiale del convegno, ma non delle tematiche affrontate.

I materiali sono stati raccolti dopo una peculiare spettacolarizzazione del dibattito di cui conviene dar conto. I promotori – vari Comuni amministrati dalla sinistra e il circuito dei Giovani Artisti – hanno affidato a un’associazione di ricerca, I’aaster, l’organizzazione del convegno. L’aaster – a cui collabora uno dei sottoscritti, Primo Moroni, che ha girato in lungo e in largo i cs e che ha fondato la libreria Calusca, oggi nel Centro sociale Coxl8 di Milano – ha redatto un breve documento che è stato diffuso via fax, a partire da marzo, nei Centri sociali di tutt’Italia. Pur essendo noto che al convegno avrebbero partecipato, oltre ai cs, anche amministratori, progettisti imprenditori ecc., in via Conchetta sono pervenute tante adesioni, ma solo due documenti, da Milano e per altro scritti, sia permessa la metafora, da inquilini non amministratori dei Centri. Da quel momento il dibattito è prevalentemente milanese e avviene particolarmente in Conchetta e al Leoncavallo. In quest’ultimo si fanno due seminari tra aprile e maggio, di cui viene pubblicato il dibattito più l’intervento di Bonomi, mentre in Conchetta si tiene il 2 di luglio un preconvegno – qui pubblicato negli interventi di Gomma, di Luca del Brancaleone di Roma e della Cayenna autogestita di Feltre ­ per decidere se fare o meno l’iniziativa di Arezzo. Serpeggia nei Centri, infatti, un’infinita discussione sull’opportunità di andare ad Arezzo, molteplici sono le interpretazioni sul documento di convocazione, ma la gran parte dei Centri direttamente non si esprime. Dopo un lungo sforzo organizzativo e dopo che Conchetta e Leoncavallo avevano diffuso in centinaia di copie il materiale loro pervenuto, si tiene la ricognizione del 2 luglio nella quale si intuisce che ci sono state per il Paese tante reazioni umorali, positive e negative, sull’ipotesi aretina, ma è mancato un interesse e uno sforzo analitico in merito alle questioni poste.

Quando inizia la splendida cena coxara, si è intesi che il convegno avrà luogo.

 

La bagarre si scatena solo dopo il 5 luglio, quando «il manifesto» pubblica due articoli, non particolarmente brillanti e scarsamente analitici, sulla riunione del 2 luglio. Il quotidiano pubblica più lettere e i cs di tutt’Italia entrano in fibrillazione per lo scandalo di Arezzo. Potenza dei media, finalmente molti cs, soprattutto quelli contrari al convegno, prendono posizione. Il dibattito si inasprisce, vengono convocate riunioni e convegni anti-aretini, finché i promotori e gli organizzatori del convegno decidono di bloccare la macchina annunciando che, per ovviare a rotture inattese e indesiderate tra cs, il convegno non avrà luogo. Ma il dibattito ormai è avviato, i temi in agenda ad Arezzo sono ormai metabolizzati dai Centri, anche se, come si nota dal materiale, il dibattito riguarda prevalentemente il Nord Italia. Buona parte dei documenti si esprime con toni fortemente critici o palesemente contrari non solo alle ipotesi teoriche degli organizzatori, ma anche alla possibilità che si abbia un confronto su quei problemi. Ma non è questo che conta: ciò che importa è che in relazione alle dinamiche di trasformazione in atto, con i suoi esiti sociali, economici, culturali, i cs, pur se sollecitati dall’esterno, abbiano iniziato a produrre una riflessione quanto mai complicata ma salutare, dalla quale dipende la loro capacità di essere vettore conflittuale e progettuale, come e più di quanto lo siano stati fino a oggi. Questo libro è frutto di un’intenzione esplicita e inequivocabile: allentare i toni e approfondire i temi della polemica politica.

I cs sono i luoghi, per quanto miseri e parziali, che rendono ancora possibile – nonostante il deserto degli anni Ottanta e lo stagno degli anni Novanta – desideri e progetti per una trasformazione radicale della società. La chiusura dell’ultima frase, alquanto retorica e volutamente enfatica, ci permette di entrare pacatamente nel merito della discussione non per segnalare soluzioni, che ciascuno di noi può pensare differenti, ma per sottolineare alcuni vizi linguistici che accomunano i protagonisti del dibattito – noi compresi – e i diversi registri che producono continui corto nei circuiti dei cs ma non solo. Trasformazione radicale della società, dunque. Nel milieu dei cs concordano tutti con una simile affermazione. Ma alla domanda: «cosa vuol dire?» le risposte diventano vaghe e la certezza reiterata dell’affermazione si accompagna alla vaghezza del suo valore semantico. Certo è che dalle diverse risposte, che nel libro qui e lì affiorano, si possono dedurre due diverse concezioni della trasformazione. Una predilige il tempo lungo, l’altra invece il tempo corto. È bene segnalare che questa diversa concezione del tempo ha accompagnato tutte le rivoluzioni e le lotte politiche del Novecento, comprese quelle degli anni Settanta. Ora, i primi Centri sociali nascono negli anni Settanta, appunto, e questa primogenitura ha comportato la trasmissione di alcuni geni ereditari. Ciò che preoccupa, e si evidenzia dai materiali qui presentati, è che in superficie emerge spesso il volto peggiore di quegli anni, quello incrostato di gruppismo, di sloganismo, di retorica che sfugge ai più elementari criteri non solo pragmatici, ma anche logici. Il linguaggio si rifugia spesso in un labirinto di aporie, di contraddizioni, di non sense, di traslazioni del discorso per cui solo chi crede si convince.

È nostra convinzione che i Centri sociali, come qualsiasi altro fenomeno interessante, abbiano la loro pregnanza e debbano essere valorizzati per la loro profonda discontinuità con gli anni Settanta. Gli elementi di continuità, che pur esistono, sono meno interessanti come lo è, in generale, il già detto e il già fatto. I Centri sociali hanno conseguito una tale potenza simbolica da poter essere incubatori, qui la scommessa, di un immaginario sociale non solo diverso, naturalmente, dall’esistente, ma anche profondamente differente da quello degli anni Settanta. Differenza che non è nostro compito, in questa sede, indagare, ma che va segnalata in modo definitivo.

Tempo lungo e tempo corto, si affermava. Per quel che riguarda il nostro problema, segnaliamo che le due concezioni si guardano reciprocamente con sospetto: i fautori del tempo lungo della trasformazione tacciano gli altri di riformismo, mentre i fautori del tempo breve pensano ai “lunghisti” come a un insieme di sette religiose che predicano, dall’alto del proprio verbo, l’«avvento». Eppure non di questo si tratta: in questo campo discorsivo, la diatriba tra riformisti e rivoluzionari è forse meglio gettarla alle ortiche, non foss’altro che tutti si credono, a torto o a ragione, rivoluzionari e tutti si trovano a operare non su problemi teologici, ma su terreni concreti tipo: che attività deve svolgere il cs, quali referenti deve avere?

Discutere di questo, dunque, lasciando a ciascuno il libero arbitrio. Per fare una cosa non c’è bisogno di condividere il tutto, basta condividere quella cosa che comunemente si decide di fare. Il tutto è meglio discuterlo, se non si vuole perder tempo e produrre bile, solo con chi è interessato.

Un altro vizio linguistico è quello relativo al problema spontaneità-organizzazione che in gergo può significare: dobbiamo prediligere i rapporti con i frequentatori o dare priorità alla costruzione della soggettività politica interna? Girando per i Centri si assiste non di rado a un simpatico paradosso: i più irriducibili organizzativisti sono a volte approssimativi, caotici e fanfaroni nell’organizzare le loro iniziative, mentre capita invece che spontaneisti incalliti le curino fino alla pedante minuzia. Questo paradosso dimostra come a volte il dibattito sia quasi esclusivamente ideologico o, per essere più chiari, avulso da ricadute nella prassi. Caso tipico è il seguente: i cs devono produrre socialità o soggettività politica? Oppure, variante strumentalistica: la socialità in funzione della soggettività? 0 ancora, variante esistenzialistica: la soggettività in funzione della socialità?

Sono i giochi linguistici della priorità che a furia di predicare aut-aut inibiscono et- et. Eppure – senza risalire al drammatico dibattito sulla cultura e la politica tra intellettuali comunisti e apparato di partito degli anni Cinquanta – se c’è una cosa che ha comportato l’esperienza dei decenni che ci lasciamo alle spalle, e la stessa esperienza dei cs, è l’assoluto intreccio tra politica e cultura, tra politica ed esistenza, il loro campo di assoluta indiscernibilità.

Un altro paradosso dei cs è quello per il quale, spesso malgrado i collettivi protagonisti, essi hanno diffuso montagne di politica culturale e topolini di cultura politica. I cs sono identificati cioè più come luoghi di forte innovazione culturale che di trasformazione dell’agire politico, cosa questa alla quale sicuramente alludono senza però riuscire chiaramente a renderla esplicita. L’aut-aut tra socialità e soggettività inibisce entrambe, mentre l’et-et garantisce il loro sviluppo, magari non omogeneo, ma reciproco.

Occupiamoci adesso di alcune operazioni di riduzione semantica. Il titolo del convegno recitava: Lo spazio sociale metropolitano tra rischio del ghetto e progettista imprenditore. Dalla lettura dei documenti si evidenzia che velocemente scompare, pressocché unanimemente, lo spazio sociale metropolitano e al suo posto compare Centro sociale. Da questa riduzione semantica si può intuire perché l’aut aut possa e debba fare scandalo. Il ghetto e il progettista imprenditore sono cose da cui ovviamente rifuggire. Rompere il ghetto è stato urlato in ogni dove dai cs, tant’è che in questo caso i cs hanno semmai espanso il valore semantico della parola. Il rifiuto del ghetto non ha significato volontà d’inclusione, come per chi pensa il ghetto soltanto come luogo d’esclusione, ma distruzione continua dei muri perimetrati che impediscono il libero flusso nello spazio urbano. Flusso di reddito, di saperi ecc. Il ghetto non è solo il cs, il postribolo o il Centro d’accoglienza, ma anche l’Università, il Teatro alla Scala. Il ghetto non vive solo negli spazi recintati, ma anche e soprattutto negli spazi autoreclusi, non solo negli spazi della costrizione, ma soprattutto in quelli della paura.

Quanto al progettista imprenditore, la diffidenza, scontata, è stata foriera di grande confusione prima ancora che di grande divisione. La nuova organizzazione del lavoro – non il modo di produzione – scorpora velocemente lavoro dipendente, sia pubblico che privato, e altrettanto velocemente immette lavoratori autonomi nel ciclo produttivo. Costoro hanno condizioni di lavoro e di reddito proporzionali ai loro saperi e particolarmente ai loro saperi relazionali e comunicativi. Si può discutere su come definire questo processo; se è strategico o relativo a questa fase di sviluppo, se comporta maggiore sfruttamento o prossima liberazione dal lavoro. Non si può però non concordare sul fatto che sia un processo in atto nella società italiana. E che questo processo renderà magari sacrosanti ma via via meno importanti, se non altro per un mero dato numerico, i conflitti da lavoro dipendente. Ora, particolarmente nel Nord Italia – è forse questo un elemento per capire come mai il dibattito è avvenuto particolarmente lì – questa massa crescente e variegata di forza lavoro ha concorso nel dilagare prima del fenomeno della Lega, poi di Forza Italia e quindi di Alleanza Nazionale. Essendo per buona parte lavoratori con alto livello di formazione, ma non corrispondenti parametri di funzioni e reddito, ci si deve domandare: fanno parte di una modificata composizione di classe sulla quale riflettere attentamente o bisogna globalizzarli nello stereotipo dell’evasore come fa tutta la sinistra cialtrona? E dunque, se la capacità conflittuale di questa forza lavoro è dissimile per forza e per caratteristiche a quella dell’operaio di fabbrica o del lavoratore dipendente in generale, come fare per non abbandonarli alla destra?

Una quota di questi lavoratori sceglie, un’altra è costretta a fare impresa. E tra chi sceglie, è il caso di ricordarlo, c’è chi rifiuta il lavoro dipendente. Nessuno propone di non fare le lotte negli ospedali, nelle scuole o in fabbrica, non si propone l’aut- aut, ma di avere un’attenzione a questa quota di forza lavoro che, a parte il dato numerico, allude ­– e qui le differenze possono iniziare a svilupparsi – non solo a una diversa organizzazione del lavoro, ma anche a nuove forme di conflitto e di agire politico. Quali queste possano essere non è dato sapere; l’analisi a volte è tanto presuntuosa quanto schematica. Certo è che i cs potranno avere un ruolo di grande importanza poiché, impossibilitati a confliggere secondo forme tradizionali – contro il capetto, la multinazionale, l’impresa pubblica – è possibile che questi lavoratori esprimano non tanto e non più nel tempo, ma nello spazio la loro carica trasformativa.

La prima lotta che inerisce lo spazio l’hanno fatta contro lo Stato centrale, a favore delle autonomie. Adesso comincia a diventar chiaro che le autonomie per funzionare devono far pagar tasse quanto o ancor di più di quante ne facesse pagare lo Stato. In più, dai tanti lavoratori che frequentano i Centri sociali, si può evidenziare un elemento a prima vista schizo. Battaglieri e rivoluzionari nelle lotte dei Centri, muti, come se fossero pensionati, nelle lotte da lavoro. È un dato più volte sottolineato, ma che attiene o a una condizione sociale poco indagata o a replicanti di Dottor Jekyll e Mister Hyde.

 

Dopo questo schematico discorso, forse fa meno scandalo che si parli di impresa, visto che molta della forza lavoro in atto o in formazione è imprenditrice di se stessa. Ma questo cosa c’entra con i cs in quanto imprese? Anche qui notiamo un riduzionismo semantico. Impresa può voler dire attività difficile e importante, di esito incerto. Da questa definizione tutti potranno condividere che i Centri sociali sono un’impresa, e che impresa, come sottolinea il titolo di questo libro! Ma nel dibattito, alla parola viene dato il significato di attività economica e via via di azienda, ergo di azienda capitalistica. Un monismo semantico che non aiuta a discutere, tanto più che i cs sono impresa in tutti i sensi tranne l’ultimo. I cs fanno impresa, cioè svolgono delle attività economiche legate alla loro attività di spettacolo, di autoproduzione musicale, editoriale, di gadget. In più, a latere si sono formate una serie di cooperative che interagiscono con l’attività dei Centri. Il potere conosce queste cose, tant’è che gli presta un’attenzione via via maniacale. I cs, domanda fondamentale, svolgono attività economiche solo per incamerare i mezzi atti a sopravvivere – e, forse, poniamo la questione che può far scandalo anche a chi scrive, in questo non voler pagare le tasse o gli affitti sono simili a tanti lavoratori autonomi che se pagassero tutte le tasse perirebbero – e a  svolgere attività politica, conflitti, oppure anche perché ritengono possibile, fors’anche auspicabile, che si formi un circuito, magari marginale e parallelo a quello ufficiale in cui si possano riconoscere  e creare proliferazione quote di quella forza lavoro che, costretta o per scelta, fa lavoro autonomo? La risposta a questa domanda è ardua, trascende l’impresa di questo libro e comporterebbe, fors’anche tra i sottoscritti, opzioni differenti. Tale risposta ha bisogno che si sciolga preliminarmente il nodo tempo lungo-tempo breve. Solo dopo quell’opzione ciascuno può ritenere possibile il mutamento rivoluzionario dentro i processi o dopo il processo. In questi ultimi trent’anni la dialettica, in proposito, non ha funzionato. A noi non resta che chiudere il cerchio, che non è nostra intenzione far quadrare come spesso fanno i rivoluzionari, in questo simili a quel teologo tedesco che nel secolo scorso, dovendo spiegare la presenza dei fossili – i quali testimoniavano della malvagità di Dio che aveva fatto per sempre perire creature pur sue – intuì argutamente che il buon Dio aveva creato i fossili come fossili per verificare se uomini malvagi avessero osato dubitare un giorno della bontà sua.

 

Primo Moroni, Daniele Farina, Pino Tripodi, “Introduzione”, in
“Centri sociali: che impresa! Oltre il ghetto: un dibattito cruciale”, a
cura di Primo Moroni, Daniele Farina, Pino Tripodi, Castelvecchi,
Roma, 1995

 

 

Si ringraziano Vandalo! e Bruna Orlandi per alcune delle immagini