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EUROPA

Catalogna, radiografia di un nuovo ciclo di lotte

Le mobilitazioni che dal 14 ottobre sono divampate contro la gravissima sentenza ai danni dei leader indipendentisti, segnano una discontinuità con i movimenti che negli ultimi anni hanno attraversato la Spagna e lo stesso fronte indipendentista

Barcellona, 14 ottobre 2019. Sono da poco passate le nove del mattino. Dopo settimane di attesa viene finalmente resa pubblica la sentenza al “procés” indipendentista avuto luogo due anni fa. Un ciclo, scandito prevalentemente dallo storico referendum dell’1 ottobre 2017 e la successiva dichiarazione d’indipendenza, che si caratterizzò dal principio alla fine per un indiscusso e limpido pacifismo.

Tuttavia, l’interpretazione fatta dal tribunale supremo è di segno opposto: grava l’accusa di sedizione, un reato simile a un delitto contro l’ordine pubblico introdotto quando non esisteva il diritto alla protesta. Le pene, a carico di 13 leader indipendentisti, in maggioranza membri del governo catalano in funzione all’epoca, sfiorano i cento anni: un verdetto politicamente gravissimo, giuridicamente infondato, umanamente violento.

La risposta è immediata. Nel corso della mattinata le persone si concentrano a Piazza Catalunya, nodo centrale della città, e nel giro di poco la partecipazione già si misura in unità di decine di migliaia. La sorpresa arriva intorno all’una: nella densità della folla iniziano ad apparire cartelli con su scritto “tothom al aeroport” (tutt@ in aeroporto). Chi convoca è Tsunami Democràtic, una sigla nuova, della quale non si sa nulla, eccetto che ha registrato un dominio a luglio (successivamente oscurato) e che già da allora aveva utilizzato le reti sociali (soprattutto Twitter e canali Telegram) affinché l’emissione della sentenza ottenesse una risposta massiva. L’annuncio diventa subito virale e in meno di un’ora l’aeroporto viene occupato! A nulla serve interrompere le metropolitane ed i collegamenti ferroviari: fiumi di gente vi confluiscono finanche a piedi, bloccando di fatto la rete stradale su una distanza complessiva di oltre 15 chilometri. L’azione è già un successo. La polizia, sia statale che catalana (i mossos), reagisce a colpi di manganello e proiettili di gomma, attualmente proibiti in Catalogna, ma si scontrano con una resistenza epica, bella, che ispira entusiasmo e senso di rivincita. Al termine della giornata i voli cancellati si contano a decine ed Aena, l’azienda che gestisce l’aeroporto di Barcellona, riscontra una caduta in borsa.

Qualcosa è cambiato: l’occupazione dell’aeroporto è di un’intensità inedita, ma non si tratta di una valvola di sfogo dove la mobilitazione si esaurisce. Essa rappresenta al contrario il momento in cui il movimento prende coscienza della propria potenza, inaugurando un nuovo ciclo di lotte.

La giornata seguente è essenziale per comprendere a fondo la fase aperta. Per le sette della sera è stato indetto un concentramento di fronte alla delegazione del governo spagnolo. Il presidio è convocato da ANC e Òmnium, principali pilastri dell’indipendentismo associazionista civico, ma alla fine vi partecipano attori di tutti i tipi, come ad esempio i C.D.R. (Comitati di Difesa della Repubblica), l’ala movimentista del catalanismo.

La manifestazione ufficiale si conclude alle nove, tuttavia la maggioranza delle persone decidono di rimanere. Le forze dell’ordine non esitano ad attaccare, e lo fanno con una violenza mai vista prima, ma le migliaia di manifestanti rimasti non retrocedono: si alzano barricate, bruciano cassonetti e ci si oppone in modo attivo a cariche e caroselli. Un copione che si ripete anche il giorno dopo. E quello dopo ancora. Quello dopo pure.

Sono trascorse due settimane e la situazione continua a mantenersi agitata, non solo a Barcellona bensì sull’intero territorio catalano. Blocchi stradali, scontri di piazza e cortei di massa sono all’ordine del giorno. In particolare segnaliamo il memorabile sciopero generale del 18 ottobre e la manifestazione di sabato 26. Il bilancio è di decine di persone arrestate ed altrettante ferite, di cui molte hanno perso un occhio.

Proviamo dunque a radiografare questa prima fase della mobilitazione cercando di raccogliere quegli elementi che permettono di capire (tentare, almeno) ciò che sta accadendo intorno a noi e cosa è cambiato rispetto a due anni fa.

 

 

 

La fine del “civismo”

Il ciclo dell’autunno del 2017 fu contraddistinto da un certo feticismo della non violenza e da un “senso civico ideologico” condensato nel motto “som gent de pau” (siamo gente pacifica). Se tale atteggiamento servì da un lato a preservare l’alta partecipazione e la sua trasversalità, dall’altro finì per bloccare il movimento su strategie immobiliste. Soprattutto, la paranoia generalizzata per atti fuori dalla legalità veniva utilizzata per congelare la capacità di eccedere l’organizzazione precostituita, che rimaneva orchestrata dall’alto, per esempio da ANC, Òmnium e talvolta i partiti stessi.

Il nuovo ciclo archivia definitivamente questo scenario. L’occupazione dell’aeroporto sancisce la legittimità a praticare azioni illegali e a resistere con la forza per difenderle. Qualcosa di molto importante che viene confermato, e in parte superato, con la radicalità emersa nei giorni dopo.

A saltare per sempre è l’idea che le manifestazioni debbano svolgersi in modo prestabilito, senza la possibilità di essere condizionate dal basso. Ora si scende in strada senza sapere come e quando finirà la giornata. Esiste una disponibilità al conflitto diffusa che nasce non solo come reazione alla sentenza, ma anche come reazione alla reazione che ci si aspettava sulla sentenza.

 

Contro la politica della paura

Tutto ciò non l’aveva previsto nessuno. Non l’aveva previsto lo stato, né buona parte dell’indipendentismo. La risposta delle istituzioni, statali e catalane, è stata una repressione senza precedenti, finalizzata ad inculcare la paura, a generare una semantica della guerra, ad imporre il ricatto “ordine o catastrofe”.

La disponibilità al conflitto delle ultime settimana va quindi letta, al netto di mille sfumature, come opposizione alla politica della paura. La volontà di non retrocedere di fronte alla violenza dei governanti sui governati. Si tratta di un processo di maturazione che passa per il rifiuto ad accettare la catastrofe come unica alternativa all’esistente immaginabile. Un processo di emancipazione prima di tutto mentale ed emotivo, che si costruisce nelle strade, rigorosamente in comune. La difesa dell’amica, la compagna, è il criterio intorno al quale prendono corpo certi rituali, si materializzano certe pratiche. La barricata cessa di essere mera rappresentazione della rabbia, per convertirsi in mezzo di autodifesa, di cura per l’altra.

 

Le istituzioni catalane come bersaglio

La complicità delle istituzioni catalane con quelle statali nell’esercitare la repressione ha un prezzo. Ora la controparte è data indistintamente dalle prime come dalle seconde. Non a caso tra i claim principali del movimento ci sono le dimissioni del consigliere degli interni Miquel Buch, responsabile dei mossos. Ad ogni modo, non è l’unica ragione alla base dello scollamento emotivo tra indipendentismo istituzionale e di movimento: esiste un’insofferenza verso un modo di far politica interamente confinato nei limiti del simbolico e del burocratico (il cosiddetto “indipendentismo magico”), che procede a colpi di risoluzioni istituzionali prive di effetto concreto, e che con il tempo si è rivelato inutile.

Quello corrente è un panorama lontano anni luce da quello di due anni fa, in cui l’indipendentismo catalano si presentava come il primo movimento del periodo post-crisi che non metteva in discussione la logica della rappresentanza. Le manifestazioni moltitudinarie dell’autunno 2017 erano costellate da applausi ai mossos e, piuttosto che spazi di democrazia reale, si riducevano a luoghi di autorappresentazione a sostegno della rappresentanza. Il fideismo verso i leader fu un aspetto peculiare di quel ciclo: caso emblematico è la grande manifestazione a Bruxelles a sostegno del presidente Puigdemont.

 

 

L’aspetto ricompositivo

Il nuovo movimento non ha volti, né portavoce. Le giornate non hanno una struttura prestabilita ed il loro epilogo si costruisce collettivamente, dal basso. In questo quadro chiunque può trovare il proprio posto e ciò rende la mobilitazione permeabile e inclusiva, anche nei confronti di soggetti non dichiaratamente indipendentisti. Già due anni fa il movimento era sempre stato capace di attrarre coloro che pur non condividendo la causa del procés solidarizzavano contro la repressione. Ora però assistiamo a qualcosa che va oltre la semplice dimostrazione di solidarietà: il movimento è diventato attraversabile anche da soggettività che si distinguono per altri modi di manifestare, diversi da quelli finora egemoni. È in questo senso che parliamo di aspetto ricompositivo.

L’esempio più importante è certamente dato dai movimenti per la casa e il diritto alla città. Questi sono parte attiva nel movimento e lo arricchiscono con i propri contenuti e la loro maniera di agire. Un elemento quest’ultimo che ci aiuta a inquadrare meglio il senso di un certo tipo di conflittualità di piazza: il blocco, la barricata, il fuoco sono mezzi di riappropriazione e risignificazione dello spazio urbano.

C’è poi il vasto arcipelago di collettivi femministi attivi sul territorio, e l’ecologismo degli ultimi anni che ha visto nella sentenza una minaccia alla disobbedienza civile, sua pratica abituale. Questa molteplicità è irriducibile a qualsiasi “sintesi dall’alto”, soprattutto in chiave nazionale: il movimento del nuovo ciclo non è un puzzle in attesa di essere montato, ma un flusso che si nutre in continuazione.

 

La questione generazionale

In questa molteplicità torna ad esplodere la questione generazionale. I giovani e le giovani sono un segmento decisivo della mobilitazione. Lo sono in piazza, quando mostrano la loro indisponibilità di fronte alla ragione di stato, ma soprattutto nei contenuti. Ritorna infatti in primo piano quel discorso sull’impossibilità di accedere a una vita dignitosa che abbraccia l’intero ventaglio di temi sociali, dalla casa alla sanità, dall’istruzione al futuro in generale. Argomenti che erano stati un marchio importante delle lotte contro il processo di Bologna e del “clima 15M”. C’è tuttavia una grande differenza con quel periodo: se il 15M fu la rivolta di coloro che vedevano le proprie aspettative sotto minaccia, questa lo è di chi non ha conosciuto altra aspettativa che la precarietà e il malessere.

La questione generazionale è cruciale per capire come evolverà il movimento e in particolare l’indipendentismo: ora che i temi sociali ritornano ad appartenere al senso comune sarà più complicato utilizzare “la causa nazionale” per ecclissarli, come fatto per anni dal catalanismo neoliberale.

 

 

La risposta nel resto dello stato

L’allargamento del discorso e la solidarietà contro la violenza poliziesca hanno contribuito a generare focolai di mobilitazione anche nel resto dello stato spagnolo. Già dal primo giorno, durante l’occupazione dell’aeroporto di Barcellona, oltre mille macchine provano a far collassare il traffico intorno a quello di Madrid. Mai c’era stata una risposta del genere fuori dalla Catalogna. Una risposta che continua anche nei giorni successivi, non solo a Madrid, ma anche a Saragozza, Valencia, Euskadi, Andalusia etc. portando ad arresti, feriti e scontri con gruppi di estrema destra. È un fenomeno che punta il dito direttamente contro il regime del 78, ovvero quell’ordine giuridico-statale che ha permesso di rimodulare il capitalismo autarchico franchista sull’espansione neoliberale, e che a partire dal 15M assiste a uno sgretolamento del consenso su cui si regge.

 

Cosa accadrà ora? Come evolverà la situazione?

È davvero complicato dirlo. Sicuramente una data importante è rappresentata dalle elezioni spagnole del prossimo 10 novembre, alle quali concorrono i due principali partiti catalani, ERC (Esquerra Republicana Catalana) e Junts Per Catalunya, e per la prima volta anche la CUP (Candidatura d’Unitat Popular) di matrice schiettamente anticapitalista.

Al momento in testa ai sondaggi c’è il PSOE (Partito Socialista Obrero Español) che però non si sta pronunciando chiaramente sull’alleanze di governo. La creazione di una maggioranza, piuttosto che di un’altra, dimostrerà se la politica dei patti perseguita da ERC e (una parte di) Junts per Catalunya risulta verosimile o meno.

Ad ogni modo, non crediamo che sia il terreno elettorale, e in generale istituzionale, quello cruciale per provare a mappare il corso del fenomeno. Al contrario, gli avvenimenti delle ultime settimane suggeriscono che mentre finora la partita si era giocata dentro le istituzioni, il nuovo ciclo lo farà in strada. Mentre scriviamo le università hanno inaugurato uno sciopero indefinito e Tsunami Democràtic ha annunciato le prossime date di mobilitazione (che coordinerà con un app censurata proprio poco fa, a testimonianza di come la repressione stia avvenendo anche sul fronte tecnopolitico), insistendo in quella via de la confrontaciò che molti auspicano da tanto.

Tale passaggio è il frutto di un lungo periodo di gestazione, a cui hanno contribuito elementi di vario tipo: certamente c’è il lavoro meticoloso da parte dei C.D.R. e degli altri soggetti dell’indipendentismo radicale, ma non crediamo che si possa prescindere dalla crescita dei movimenti di quartiere e della casa, né dall’influenza emotiva e di immaginario esercitata a distanza dai Gilet Gialli e dalle mobilitazioni di Hong Kong.
Le tensioni esplose sono assolutamente variegate ma si sono sincronizzate in un’unica forza collettiva. Questa segna un prima e un dopo, non solo in Catalogna ma anche nel resto dello stato. È una forza che non accenna a spegnersi, con cui i poteri dovranno misurarsi, non solo in caso di altre sentenze, ma anche sfratti o tagli in occasione della recessione in arrivo.

 

Foto di Paula Riaza