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Cannes 8/ Dogman di Matteo Garrone

Presentato in concorso a Cannes e da ieri nei cinema italiani, “Dogman” di Matteo Garrone vede il ritorno del regista romano alle atmosfere noir dei suoi primi film dove attraverso una vicenda di criminalità di provincia prende corpo l’inafferrabilità dell’angoscia del presente

C’è una suggestione visiva – dice Matteo Garrone – all’origine del progetto di Dogman: un’immagine inventata e che pure è possibile figurarsi sulla base della vicenda di Pietro De Negri, il cosiddetto “canaro della Magliana”, che nel 1988 si rese responsabile del sanguinoso omicidio dell’ex pugile Giancarlo Ricci da cui è molto liberamente tratto il film. È l’immagine di un uomo che tortura un altro uomo nella maniera più brutale possibile di fronte a dei cani che impassibili e attoniti lo guardano dalle loro gabbie. È un’immagine potentissima, di quelle che Garrone è spesso stato in grado di creare nella sua carriera, che rovescia umanità e animalità e tende a mostrare la brutalizzazione dell’umano (Lacan lo chiamerebbe godimento) nel suo scarto o nel suo rapporto con un cane. Ma è davvero la violenza, l’angoscia, la dipendenza, l’ossessione (tutti i grandi temi del suo cinema) una questione di brutalizzazione e di animalizzazione? Che cosa ci vuole comunicare quest’immagine che sta al cuore del film?

Facciamo un passo indietro. Dogman è un progetto vecchio di 12 anni al quale Garrone è ritornato solo di recente a seguito dell’allungamento dei tempi di pre-produzione di Pinocchio, il suo prossimo film (che, stando a quanto dice Variety, proprio qui al marché di Cannes sembra essersi definitivamente sbloccato, e le riprese dovrebbero partire il prossimo autunno). Ha ragione quindi chi ci ha visto un ritorno alle atmosfere noir dei suoi film di qualche anno fa, come L’imbalsamatore, Primo amore o anche alcune cose di Gomorra. E Dogman ritorna anche negli stessi luoghi di alcuni di questi film, quel litorale tra Roma e Caserta che il regista romano è capace di guardare come pochi altri, col disincanto dei toni del grigio, con il cielo coperto, i casermoni fatiscenti e un senso di violenza e di pericolo che sembrano essere incombenti. Le immagini vengono da Castelvolturno anche se i contorni geografici non vengono specificati così come la parlata dei protagonisti che spazia dall’accento romano a toni più partenopei.

Uno degli elementi più originali del cinema di Garrone è sempre stato quello di costruire delle figure della continuità. Uno degli esempi più riusciti è Reality: un film che parla dello scatenamento di una psicosi ma che invece di farcela vedere con un evento singolare (come spesso accade per poter meglio marcare il confine e la separazione tra normalità e follia), decide di mostrarcene la sua stretta in modo lento e inesorabile, quasi impercettibile. Il risultato è che, anche come spettatori, ci ritroviamo dentro a una condizione patologica accorgendocene sempre troppo tardi, quando questa ormai è già impossibile da sfuggire. E la stessa cosa avveniva anche in Primo amore e L’imbalsamatore. Tuttavia in tutti questi esempi non si trattava mai soltanto di violenza, anzi la continuità era anche quella che faceva passare l’erotismo nella sopraffazione (Peppino Profeta e Valerio de L’imbalsamatore), l’amore nella dipendenza (Vittorio e Sonia in Primo amore) rendendoli di fatto indistinguibili l’uno dall’altro. Il cinema di Garrone è infatti un cinema della pulsione, con tutto il carico di ambivalenza che questo termine porta con sé.

In Dogman invece sembra che la violenza sia unica, assoluta, monocolore, che rende il film più diretto e più crudo anche se vengono un po’ sacrificate le sfumature che hanno sempre caratterizzato il suo cinema. La vicenda è quella di Marcello, figura marginale di una provincia violenta e desolata dove la legge criminale dà forma al legame sociale, che possiede una piccola toelettatura per cani. Interpretato da Marcello Fonte, di origine calabrese e di casa al Cinema Palazzo a Roma, è piccolo, mingherlino, tratta i cani affettuosamente chiamandoli “amore” e mangiando dal loro stesso piatto per cena. Insegna l’amore per gli animali a sua figlia Alida, interpretata dalla sorprendente e giovanissima Alida Baldari Calabria. Ma Marcello è anche parte, ancorché marginale, del sottobosco criminale del luogo (ma chi non lo è in una provincia così?), fatto di piccoli commerci di droga, furti in appartamenti e sale da videopoker. Il centro del film però è Simoncino (che ha la fisicità di Edoardo Pesce che si contrappone perfettamente all’esile corpo di Marcello Fonte, entrambi straordinari nella loro interpretazione), un ex-pugile appena uscito di galera che parla praticamente solo con dei mugugni ma soprattutto con le mani: distrugge a testate un videopoker, ammazza di botte uno spacciatore a cui deve 5mila euro, costringe Marcello a fare tutto quello che vuole senza dargli nulla in cambio. Simoncino è quello che si direbbe un cane sciolto: non è affiliato a nessun gruppo criminale, è assolutamente fuori controllo ed è opinione comune nel quartiere che la cosa migliore sia farlo fuori nel più breve tempo possibile prima che crei troppi problemi.

 

Simoncino – con i suoi atti fuori controllo – è insomma l’elemento nel quale si catalizza tutta l’angoscia della comunità, e quando costringerà Marcello ad acconsentire a un colpo nel quale la comunità stessa del quartiere verrà colpita, anche lui inizierà a venire considerato come suo corresponsabile. Tuttavia per la psicoanalisi l’angoscia è l’unico affetto del quale non è possibile liberarsi: gli si può dare forma, la si può soggettivare in molti modi diversi, ma non si può spegnerla una volta per tutte e farla scomparire. Il tentativo di cancellazione definitiva dell’angoscia si chiama tecnicamente “passaggio all’atto”: un atto – solitamente violento – che tenta di eliminare l’elemento d’angoscia ma che, proprio per via della sua forma eclatante, finisce in realtà per lasciarlo inalterato. Il passaggio all’atto è insomma un atto eclatante che prova a cambiare tutto, ma che in realtà non è in grado di cambiare un bel nulla.

E allora Dogman ci mostrerà che quella violenza che è stata covata per tutte le angherie subite durante il film e che sembrava poter essere catartica e liberatoria, finisce in realtà per non cambiare alcunché. Non è una posizione contro la violenza, irenica o moralistica quella del film, tutto il contrario: il problema è che anche quando la violenza più estrema e più sadica è stata messa in atto – con un grado di brutalità che supera ogni possibile animalità – c’è sempre un’angoscia che la sopravvive e che deprivata di un oggetto che la catalizza la rende ancora più spettrale. È come se alla fine quell’angoscia che sembrava confinata in un punto diventasse pervasiva per diventare parte di tutto l’ambiente circostante e impossibile da localizzare.