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La Lega delle comunità immaginate

Con “La Lega. Una storia” lo storico Paolo Barcella ricostruisce l’epopea del partito di Bossi (e ora di Salvini) dalla militanza territoriale dell’inizio degli anni Ottanta fino al governo gialloverde di Conte e alla crisi del Papeete. E spiega come mai il più famoso partito autonomista della storia repubblicana si è trasformato coerentemente in un movimento nazionalista di estrema destra

Quando il 12 aprile 1984, il notaio Franca Bellorini di Varese registrò l’atto fondativo della Lega autonomista lombarda, il primo nucleo attorno a cui prese forma il partito gravitava tutto attorno alla famiglia Bossi: la moglie Manuela Marrone, il cognato Pierangelo Brivio, la sorella Angela, addirittura l’autista Pino Babbini. Le prime riunioni avvenivano al domicilio di Manuela Marrone e in generale per gran parte degli anni Ottanta (il primo congresso avvenne solo nel 1989) la Lega era sostanzialmente un “partito di attacchini” con un unico leader e un piccolo cerchio magico attorno a lui, e dove Bossi stesso “era animatore, ispiratore, conferenziere in tutte le uscite pubbliche in giro per la Lombardia, dove consegnava ai simpatizzanti volantini e copie del giornale, da diffondere e distribuire nelle cassette delle lettere” (p. 40). In realtà i primi passi del suo attivismo autonomista Bossi li fece già alla fine degli anni Settanta e nel marzo del 1982 era già stato pubblicato il primo numero di “Lombardia autonomista” (all’inizio supplemento di “Rinascita Piemontese”, la rivista dell’Union piemontèisa di Roberto Gremmo). Tuttavia in quegli anni la Lega era ancora uno dei mille partiti famigliari (o quasi) messi insieme alla bell’e meglio che troviamo in tutte le tornate elettorali e che di solito esauriscono la loro esistenza nel giro di un lustro. Com’è che invece la Lega è finita per diventare il partito italiano attualmente più longevo ed è riuscita, superando scissioni interne e inchieste della magistratura, a eleggere ministri, governatori, vice-premier, presidenti di camera e senato e in alcuni momenti quasi a diventare il partito di maggioranza relativa italiano? Che cos’è che di reale questo partito ha intercettato della transizione italiana degli anni 80 e 90? Di che cosa insomma la Lega è il nome o il sintomo? E che cos’è che possiamo comprendere analizzando la sua genesi e il suo sviluppo fino all’attuale leadership di Matteo Salvini? 

È quello che prova a chiedersi lo storico Paolo Barcella ne La Lega. Una storia, pubblicato recentemente da Carocci nella nuova collana “Nodi dell’Italia Repubblicana” curata da Michele Colucci. Si tratta di uno dei pochi studi di taglio autenticamente storiografico e non semplicemente saggistico o giornalistico su un fenomeno politico che nonostante la sua notevole importanza nella storia italiana recente ha avuto scarsa attenzione specialista o scientifica. Barcella divide il suo lavoro in quattro parti, analizzando prima quello che i militanti leghisti chiamano “il periodo eroico” durante la genesi del movimento negli Ottanta, per poi volgere il suo sguardo al successo e alla ribalta nazionale acquisita degli anni Novanta dopo Mani Pulite e il primo governo Berlusconi, e raccontare infine il post-11 settembre dove la Lega abbraccia in modo più esplicito una narrazione xenofoba contro Islam e migranti. Il volume si conclude infine con un capitolo dedicato alla compiuta trasformazione della Lega in un partito nazionalistico di estrema destra operata da Matteo Salvini che la colloca più nella tradizione della destra sociale che in quella dei movimenti autonomisti, e con il ruolo di Luca Morisi, il cui lavoro sui social network cambierà in modo radicale la forma del partito emancipandola dalla centralità delle strutture territoriali e delle sezioni, e mettendo al centro delle strategie politiche la capacità delle provocazioni social di Matteo Salvini di diventare virali. 

Una prima questione che emerge già dalla lettura delle prime pagine è che se è vero che la Lega fu già dagli inizi un movimento autonomista e federalista, lo fu in effetti in un modo affatto originale. La storia dei movimenti autonomisti italiani fu per la gran parte una storia precedente a quella della Lega. Tralasciando alcune esperienze peculiari come l’autonomismo sardo e limitandosi solo all’Italia settentrionale, tra il dopoguerra e gli anni Sessanta nacquero (e in alcuni casi continuano a esistere ancora oggi) diversi movimenti autonomisti come l’Union Valdôtaine, il Südtiroler Volkspartei o il Movimento Friuli le cui istanze rivendicative risiedevano su una reale o presunta specificità etnica, culturale o linguistica e che in alcuni casi ebbero persino un ruolo significativo nel riconoscimento costituzionale di regioni a statuto speciale. Persino la Liga Veneta – spesso definita la “madre di tutte le Leghe” – che pure poi giocò un ruolo fondamentale nell’espansione della Lega Lombarda nel Nord-Est, presentava all’inizio della propria parabola politica pre-bossiana alcune caratteristiche che erano spiccatamente di difesa cultural-linguistica dell’identità veneta. Ma anche per quanto riguarda il settore sociale di riferimento di quel partito, l’esperienza lighista fu all’inizio significativamente diversa da quella della Lega di Bossi. Ancora negli anni Sessanta il Veneto aveva un reddito pro-capite inferiore del 20% rispetto alla media nazionale e in generale la memoria dell’estrema arretratezza di quella regione era ancora forte quando negli anni Ottanta iniziò a fare i primi passi il partito guidato da Achille Tramarin, professore di Storia dell’Arte di Padova che raccolse un insieme di associazioni già attive sul territorio (il Gruppo archeologico di Montello, l’Associazione archeologica Altinum, la Società filolofica veneta) e che si occupavano della difesa dell’identità e della lingua veneta. Nel 1980 uno dei primi manifesti elettorali lighisti parlava di una lotta al razzismo (“non accettiamo le sopraffazioni ai danni del Popolo Veneto, così come quelle ai danni di altri popoli”) in cui al centro stava la presunta (ma a volte anche reale) marginalizzazione economica sofferta dal popolo veneto durante gli anni del boom economico, che aveva interessato soprattutto la grande industria del Nord-Ovest. Insomma, la Liga Veneta fu un movimento più spiccatamente a matrice culturalista e laddove incrociò un soggetto sociale economico di riferimento, questo non fu privo di una certa dimensione popolare.

Bossi non solo si inventò un’identità culturale assolutamente fittizia – al contrario di Veneto, Friuli, Alto-Adige e per certi versi persino Piemonte, la “Lombardia”, come entità politica che tiene insieme le montagne di Sondrio con le pianure già quasi “emiliane” di Mantova e Lodi, la provincie di Bergamo e Brescia che per secoli fecero parte della Repubblica di Venezia con l’Ovest di Milano o della Brianza, è un’invenzione recente e senza antecedenti storici rilevanti – ma riuscì soprattutto a perimetrare un nuovo soggetto sociale di riferimento affatto contemporaneo: quello delle piccole imprese e delle partite Iva all’alba della globalizzazione. Barcella ci ricorda come fu lo stesso giornalista bergamasco e collaboratore di Umberto Bossi Daniele Vimercati, autore nel 1990 de I lombardi alla nuova crociata. Il “fenomeno Lega” dall’esordio al trionfo. Cronaca di un miracolo politico, a dire che Bossi fino al 1979 non si interessò per nulla di temi autonomisti o federalisti, nemmeno dal punto di vista culturale. Fu solo l’incontro con Bruno Salvadori dell’Union Valdôtaine (fino alla sua prematura scomparsa) che lo introdusse per la prima volta al pensiero autonomista. Tuttavia la Lega non fu mai, nemmeno all’inizio, un movimento classicamente autonomista o culturalmente etnico-identitario, semmai – ci dice Barcella – già dai primi anni Ottanta “la preminenza del discorso economico veniva costantemente rimarcata” (p. 38).

Per analizzare l’enorme successo della Lega – che andò ben al di là di qualunque movimento localista o autonomista – bisogna comprendere che l’intuizione fondamentale di Bossi fu quella di rivestire di un linguaggio autonomista un problema che era viceversa affatto economico e sociale. Quando nella metà degli anni Settanta inizia il processo di ristrutturazione anti-operaio delle imprese italiane in risposta alla conflittualità operaia e sindacale degli anni Sessanta e Settanta, quello che avviene è un processo non solo di delocalizzazione ma anche di apertura ai mercati internazionali e di valorizzazione dei distretti industriali più efficienti e a più alto valore aggiunto. Questo fa sì che molte piccole e medie imprese del lombardo-veneto, ma anche quelle che hanno subito processi di outsourcing nel nord-ovest, inizino a essere competitive sui mercati internazionali dei prodotti industriali e a conquistare fette di mercato anche estere. Naturalmente questo boom non è figlio solo dell’innovazione del prodotto o dell’efficienza produttiva, ma è anche trainato da una leva monetaria: negli anni Settanta infatti l’Italia è fuori dallo SME, e inizia ad adoperare la svalutazione competitiva per aiutare le proprie esportazioni. Quando arrivano gli anni Ottanta e, dopo i 35 giorni dalla Fiat, si fa più evidente la sconfitta operaia e i tassi di interesse si alzano, l’Italia entra nello SME e smette di svalutare in modo competitivo. I distretti hanno una battuta d’arresto che non si riprenderà più fino a quando nel 1992 per via della concomitante fine della scala mobile, ri-uscita dallo SME e ritorno della svalutazione competitiva, darà una nuova linfa vitale all’economia dei distretti.

Nonostante gli indubbi elementi di dinamicità, il capitalismo dei distretti che costituisce il soggetto sociale di riferimento della Lega è anche caratterizzato da una profonda e strutturale fragilità e da un andamento strutturalmente ciclotimico. Per via delle ridotte dimensioni d’impresa ma anche a causa di una collocazione per lo più subalterna all’interno delle catene del valore (gran parte delle imprese metalmeccaniche del bresciano e del bergamasco sono ad esempio committenti di imprese tedesche) il rapporto con i mercati internazionali segue ondate euforiche a cui inevitabilmente si alternano momenti depressivi durante la fase sfavorevole del ciclo economico. La Lega si è dimostrata in grado più di ogni altro soggetto politico di capitalizzare negli anni Novanta e Zero questa condizione economica particolare che è insieme di potenzialità e di estrema fragilità. Barcella riporta ad esempio una lunga (e piuttosto delirante) citazione di Gianfranco Miglio del 1989 dove si decantano le sorti di “un mercato europeo omogeneo” privo di ostacoli e discriminazioni che avrebbe dovuto costituire “una condizione intimamente congeniale per il lombardo” che “pur affezionato alla sua terra, è politicamente un ‘senza patria’” al contrario di “quella parte preponderante degli italiani che è abituata a vivere sotto lo scudo del protezionismo economico nazionale o regionale”. Una prospettiva che ha poi convissuto in tempi più recenti con la richiesta da parte della Lega di misure protezionistiche in chiave anti-cinese, se non addirittura di una fuoriuscita dall’Unione Europea stessa.

Ma Barcella ricorda anche che la Lega è stata in grado di intercettare e di sfruttare a proprio favore un altro elemento caratteristico della disgregazione delle grandi fabbriche e della composizione sociale dell’economia del Nord Italia: la strutturale prossimità e tendenziale indistinzione sociologica di padroni e operai. In un panorama economico dove le dimensioni d’impresa sono ridotte, dove i padroncini sono spesso ex-operai ancora attivi all’interno delle attività produttive dell’azienda e dove la proprietà famigliare è la norma, emergono ambienti di lavoro “caratterizzati dall’alta intensità dei rapporti amicali, parentali, familistici, dove il titolare della microimpresa è anche lavoratore e la frattura di classe tende a evaporare in favore di una visione nella quale appare la ‘comunità dei produttori’, nel ruolo fondamentale di nucleo da difendere” (p. 21). Sarebbe troppo semplice dire che il significante autonomista, sia nella sua variante federalista che in quella secessionista a seconda delle fasi storiche del partito, sia stato un dispositivo ideologico funzionale al nascondimento delle conflittualità di classe. Le conflittualità di classe nel lombardo-veneto degli anni Ottanta e Novanta erano già state tolte nella realtà stessa, nella forma di una specifica organizzazione delle imprese che ha fatto seguito ai processi di ristrutturazione degli anni Settanta e poi Ottanta. In questo senso la Lega ha espresso un elemento di verità nient’affatto ideologico o discorsivo, ma che esisteva già nella realtà. Prova ne è che – oltre all’enorme successo elettorale decennale e non solo episodico – a fronte della suddetta composizione di classe, il sindacato ha dimostrato da subito di non avere le risorse organizzative per riuscire a mettere in forma politicamente un soggetto sociale così intrinsecamente spurio e ibrido.

In questo senso la Lega si è dimostrata un sintomo del successo dell’offensiva padronale degli anni Settanta e Ottanta (e poi Novanta e Duemila…), nel senso letterale per cui i sintomi non sono altro che espressioni patologiche di una verità denegata. Il suo successo è quindi anche una sfida implicita lanciata alle forme di organizzazione dei conflitti sociali e di classe della sinistra, che deve fare i conti con un’organizzazione della produzione, frammentata e che strutturalmente (cioè nella realtà) dissimula se stessa, fenomenologicamente dispersa anche se dal punto di vista della proprietà sempre più centralizzata. Un processo che per altro non ha fatto altro che intensificarsi negli ultimi due decenni laddove il capitalismo delle piattaforme ha rappresentato un ulteriore salto di scala nell’integrazione automatica e impersonale di unità produttive disperse e che vivono la propria filiera del valore come una seconda natura astratta e incontrollabile. Nel momento in cui la divisione asimmetrica e strutturale che sta alla base dei conflitti di classe si eclissa in un’indistinta “comunità dei produttori” non può che esserci un ritorno di una finta unità, o forse di tante “finte unità” a seconda delle contingenze e necessità politiche. È così che secondo Barcella deve essere letto il progressivo mutare nella Lega della propria comunità di riferimento: prima la Lombardia, poi il Nord, poi la nazione stessa, quando dopo l’11 settembre l’Altro contro cui la comunità deve farsi Uno (secondo il più classico dei meccanismi di creazione del caprio espiatorio) diventa il migrante (che sostituisce il meridionale). In un certo senso la mutazione salviniana degli ultimi anni, che è stata in grado di rilanciare il partito dopo gli scandali che hanno investito il cerchio magico di Bossi e di far diventare la Lega un partito nazionalista di estrema destra, non ha fatto altro che svelare ciò che implicitamente era già sotto gli occhi di tutti. La Lega è stato solo opportunisticamente un partito autonomista: la realtà è quella di un movimento politico che ha rilanciato nell’epoca della politica postmoderna l’idea della comunità organica, dove i conflitti e le asimmetrie interne alla società vengono dissimulati e proiettati all’esterno. Forse era solo questione di tempo che questo movimento spianasse la strada a chi storicamente questo lavoro l’ha sempre fatto meglio. Ed è quello che temiamo stia per accadere il prossimo 25 settembre.

Le immagini in copertina e nel testo sono prese da Wikimedia Commons