EUROPA

Calais, la vita dopo la Jungle

Sono passati più di tre anni da quando l’insediamento informale è stato stato smantellato. Molte persone migranti sono ancora lì, nonostante il contesto sempre più militarizzato e i continui tentativi di rendere invisibile la loro esistenza

«C’est un bon moment». Yoline aggrotta la fronte mentre scruta la nebbia che circonda prepotente il paesaggio gelido. È un buon momento. La nebbia sarà un’ottima amica per tutte le persone che anche oggi tenteranno di attraversare la frontiera nascondendosi in un camion o salendo su un gommone alla volta del Regno Unito. In un batter d’occhio Behnoosh e Arthur montano il tavolo da campo nello slargo di cemento circondato da basse colline, dove fino a pochi minuti fa aveva luogo un’accesa partita di calcio, Etiopia vs Eritrea. Nonostante la nebbia, poco più in là si può vedere l’alto muro di cemento ai piedi del quale stanotte hanno dormito delle persone.

Montato il tavolo, possono essere distribuiti cibo e bevande calde: è ora di colazione. Si mangia pane e maionese. «Niente cornetti qui, non gli piacciono!», Yoline ammonisce con voce squillante i volontari che tirano fuori le vivande dal furgone. Tutti qui la chiamano “Mami”, e infatti con la sua piccola statura e la corporatura robusta infonde sicurezza e intransigenza, ma anche un profondo affetto. Nei suoi occhi di ghiaccio si possono leggere anni e anni di esperienza: «Calais … è una situazione molto complicata», sospira dietro al tavolo da campo mentre la colazione viene distribuita.

Sono passati più di tre anni dallo smantellamento della cosiddetta “Jungle”, avvenuto nell’ottobre 2016. Il territorio in cui aveva avuto vita la Jungle adesso è ben recintato e sorvegliato da camionette della polizia. La Jungle non si è più ricreata, ma le persone migranti sono ancora lì, seppure in minor numero e raggruppate in accampamenti più piccoli e isolati, in modo da essere invisibili. Salam, associazione presente a Calais dal 2003, si occupa di portare la colazione tutte le mattine. Yoline è volontaria da dodici anni e tutti la considerano un po’ il capo. Era presente anche quando alla fine di dicembre, qualche mese dopo lo smantellamento dell’insediamento informale, 2016 le persone migranti hanno cominciato a tornare nei dintorni di Calais e i volontari di Salam andavano negli accampamenti con gli zaini carichi di pane, the e vestiti: «Era vietato dare da mangiare ai profughi. Ci lanciavano i lacrimogeni, ci interrogavano, ci tenevano in garde à vue». Calais è ormai diventata un simbolo politico: la Jungle non si deve assolutamente ricreare. E allora la polizia, una volta ogni due giorni, irrompe negli accampamenti, spesso utilizzando gas lacrimogeni, e sequestra le tende e i pochi oggetti posseduti dalla gente che dorme lì: una routine che ha lo scopo di scoraggiare le persone a restare nella zona, sfinendole.

Questa settimana è previsto uno sgombero più massiccio, come dicono gli avvisi appesi sulle recinzioni nella zona, poiché alcuni degli appezzamenti di terra dove sono sorti gli accampamenti sono di proprietà privata: «La presenza illegittima di queste persone in un luogo dove non sono state autorizzate a soggiornare costituisce all’evidenza una violazione intollerabile al diritto di proprietà […] e in mancanza di abbandono volontario dei luoghi da parte degli occupanti si potrà procedere alla loro espulsione attraverso ogni mezzo di diritto e se necessario con il ricorso alla forza pubblica». È uno schema ricorrente, che si ripete spesso a distanza di qualche mese: in queste occasioni, oltre a sequestrare le tende, la polizia arresta anche le persone, che vengono portate nei centri di detenzione amministrativa (Cra). Questi centri sono stati oggetto di un rapporto dettagliato pubblicato a giugno 2019 da un coordinamento di sei associazioni francesi, molto preoccupante per quanto riguarda la tutela dei diritti umani e l’ampliamento delle detenzioni, sia rispetto alla loro durata che al numero di persone recluse ogni anno.

@Arthur Gau

Per via del regolamento di Dublino, inoltre, c’è il rischio che chi aveva già fatto la domanda d’asilo in un altro paese, una volta identificato, venga rimandato lì. «C’è un centro del genere a Tolosa. Spesso rimandano lì le persone. Il problema è che poi devono riattraversare tutta la Francia per tornare a Calais – racconta Arthur, 24 anni, fotografo di Tolosa che viene qui ogni mese – Ieri ero al campo e li ho avvertiti che ci sarebbe stata un’operazione di polizia, per dirgli di fare attenzione insomma. Ma mi hanno risposto: “bah non è grave, andiamo in prigione, staremo all’asciutto, al caldo, faremo la doccia e poi dopo tre quattro giorni usciremo e torneremo qui”».

Nel frattempo, sgomberi o meno, ci sono all’incirca settecento persone migranti che in questi giorni vivono negli accampamenti nei dintorni di Calais. Hanno bisogno di pasti caldi, vestiti e coperte. Una rete di associazioni prova a garantire tutte queste cose ogni giorno, come illustra Yoline: «Con le altre associazioni c’è una riunione tutti i martedì e noi, oltre a fare la colazione, distribuiamo i vestiti il mercoledì pomeriggio. C’è un’associazione inglese (Rck) che fa un pasto la sera, poi ce n’è una francese che porta i profughi dal medico (Utopia56). La Vie Active, un’associazione dello stato francese, dà un pasto al giorno e porta l’acqua corrente per lavarsi. La maggior parte del cibo e delle sovvenzioni vengono dall’Inghilterra. Noi, Salam, non abbiamo nessuna sovvenzione, non abbiamo niente, solo donazioni. È per questo che è difficile.»

Ora ciascuno ha avuto il suo bicchiere di the e la sua fetta di pane e maionese e, mentre il freddo aspro di questa mattina di gennaio punge fin dentro le ossa, la partita di calcio ricomincia e chi non ha voglia di giocare si riunisce a chiacchierare in piccoli gruppi o a scherzare con i volontari. «Hambof … hambof, hambof … Non la conosci? È una canzone etiope! Senti che ritmo – Malik è entusiasta e ripete in loop le parole tutte uguali della sua canzone preferita – bella l’Italia, ci sono passato, ma solo per una settimana. Qui nella Jungle è dura la vita, ma la prossima volta vieni a trovarmi in Inghilterra, okey?»

Non c’è molto tempo per le chiacchiere, però, perché bisogna andare anche in tutti gli altri accampamenti, rimontare il tavolo da campo, tirare fuori un’altra volta i thermos e le casse di pane e cornetti per ricominciare la distribuzione. «Sono cinque o sei gli accampamenti nella zona, alla fine la gente si è riunita in piccole comunità a seconda della nazionalità: si parla la stessa lingua, ci sono le stesse abitudini, è più semplice. Nel gruppo in cui stavamo prima sono etiopi ed eritrei, adesso andiamo in un gruppo di afghani, più in là ci sono anche gli iraniani», spiega Behnoosh mentre il furgoncino sfreccia lungo la strada costeggiata da un alto muro di cemento, sovrastato dal filo spinato arrotolato in grandi cerchi.

«Lo hanno costruito nel 2016 per proteggere il parcheggio dei camion che partono per l’Inghilterra, per impedire alla gente di nascondersi dentro – Behnoosh prosegue mentre la sua voce a poco a poco si accende di rabbia – c’è lo stesso muro anche vicino alla costa, per coprire il porto. È una zona altamente militarizzata. È la doppia faccia dello Stato: da un lato, tramite associazioni come La Vie Active, fa vedere che dà una mano, che ha la coscienza pulita; dall’altro, con i muri e gli sgomberi, reprime». Behnoosh è un uomo di mezz’età, dall’altezza imponente e lo spirito energico. Viene dall’Iran e ormai sono più di dieci anni che vive in Francia, quindi spesso durante le distribuzioni fa anche da traduttore, dal francese al farsi e viceversa. Quando va negli accampamenti se incontra delle persone particolarmente vulnerabili le ospita a casa sua. Negli ultimi anni ha ospitato persone ammalate, donne incinte, minori non accompagnati … che venivano da ogni parte del mondo. In questi giorni sta ospitando una famiglia iraniana con un bambino piccolo.

@Arthur Gau

Sono preoccupati perché hanno dato i soldi a un trafficante per attraversare la Manica in gommone, ma da qualche giorno è sparito senza farsi più sentire. Quando ci sono donne e bambini è più difficile che un trafficante sia disposto a portarli. Forse dovranno trovarne un altro. E dovranno trovare altri soldi. Arrivare in Inghilterra tramite un trafficante può costare dai 3 ai 20 mila euro, dipende da molti fattori. Nelle ultime settimane, con l’avvicinarsi della Brexit, molte più persone hanno provato ad attraversare la frontiera, per paura che in futuro diventi ancora più complicato. «Ma già adesso è difficilissimo, con tutto questo dispositivo di polizia – continua Behnoosh –  e poi il Regno Unito collabora con la Francia da molti anni per controllare le frontiere». Si riferisce al trattato di Le Touquet, firmato tra i due paesi nel 2003 con l’obiettivo di aumentare i controlli alle frontiere francesi, anche grazie al finanziamento del Regno Unito, che tenta così di esternalizzare le sue frontiere. In base a questo trattato, solo dal 2015 la Francia ha ricevuto più di 120 milioni di sterline inglesi per intensificare i controlli sulle coste francesi e per costruire i muri di cemento e filo spinato che ora sono parte del paesaggio di Calais.

Ma questa città non vuole avere solo l’aspetto di una zona di frontiera, anzi, negli ultimi anni il comune di Calais si è visto particolarmente impegnato nel ripulire l’immagine della città: da un lato rendendo invisibile e reprimendo ove possibile la popolazione migrante presente sul territorio, dall’altro investendo nel turismo. Ad esempio da novembre scorso passeggiando per Calais ci si può imbattere nel Dragone: una grossa creatura di ferro e metallo che si inscrive nell’ambito di un’installazione artistica itinerante realizzata a Calais e dintorni che ha attirato negli ultimi mesi numerosi turisti, sia francesi sia britannici. Risale al 2017 invece l’inizio dei lavori di trasformazione del territorio in cui prima aveva vita la Jungle, adesso un’area naturale dove i turisti possono passeggiare e andare a osservare gli uccelli migratori. Così racconta Arthur mentre si accarezza la folta barba, con un’aria seria e allo stesso tempo divertita: «Sentivo alla radio che la vecchia Jungle era diventata un rifugio per gli uccelli migratori, l’ho trovato paradossale e ironico. Quindi ho deciso di iniziare il mio progetto fotografico».

È dalla scorsa estate che Arthur una volta al mese da Tolosa prende il treno e attraversa tutta la Francia per venire qui a Calais. La mattina partecipa alla distribuzione della colazione con i volontari di Salam e il pomeriggio ritorna agli accampamenti per scambiare due chiacchiere con chi ne ha voglia. Poi, se trova dei soggetti interessanti, scatta delle foto: «Alcune persone non parlano proprio, altri ti raccontano un po’. Ci sono quelli più positivi, che dicono che bisogna comunque sorridere, ma la cosa più dura è vedere le persone più motivate che iniziano a cambiare faccia, a deprimersi. Perché davvero alcuni all’inizio li vedi che stanno bene e poi a poco a poco sono sempre più tristi – continua Arthur – alla fine quello che è interessante non è solo parlare della loro situazione, ma anche della musica, ascoltare canzoni insieme, discutere della cultura e delle differenze culturali, se i cliché sono veri o no. Ad esempio, ieri ero con un ragazzo iraniano e siamo rimasti seduti attorno al fuoco, una cosa molto semplice, lui non parla inglese, quindi non parlavamo, ma abbiamo iniziato ad avere delle interazioni, come dividerci un mandarino, del the e poi ne sono arrivati altri che parlavano inglese e abbiamo un po’ chiacchierato».

Arthur, nelle foto che scatta, prova a osservare la suddivisione e l’interazione degli spazi della città di Calais e dintorni, dalle innovazioni turistiche agli accampamenti, e spiega: «In fondo ci sono degli spazi privilegiati per delle persone privilegiate, che hanno il passaporto europeo o comunque occidentale. E quindi è interessante vedere come il territorio che i rifugiati, nonostante tutto, riescono a ottenere, sia sempre più ridotto e diventi l’oggetto di una specie di lotta orizzontale. Viste le manovre politiche, visto che il territorio si riduce, vista questa strategia dell’esasperazione nei loro confronti, poi impazziscono: a volte lottano tra loro e possono avere dei comportamenti a rischio, sia per loro sia per i residenti, e così alla fine hai più motivi per mandarli via».

Quando terminerà il progetto, si intitolerà “Godot”: è infatti la condizione dell’attesa il tratto principale della vita qui, secondo Arthur: «Venendo a Calais mi sono reso conto che qui c’è come un circolo continuo in cui si ripete sempre la stessa giornata, sempre con le stesse dinamiche. Sono sette mesi che vengo qui e alla fine l’unica cosa che è cambiata è il meteo. Anche io quando ritorno rifaccio quasi ogni giorno la stessa cosa: la mattina la distribuzione, il pomeriggio cammino, vado alla Jungle, ritorno, resto un po’ lì. Ed è sempre così, un loop aspettando che accada qualcosa, che vengano aperte finalmente le frontiere o che si verifichi il prossimo sgombero. È così per i rifugiati come anche per me, che aspetto qualche cosa da fotografare, o un’opportunità, un’idea. Non so quando finirò il mio progetto, devo ancora lavorare sugli uccelli migratori. Ci sono molti eritrei che hanno degli uccelli tatuati sulle braccia. A un ragazzo glie l’ho chiesto, come mai proprio gli uccelli? Non mi ha risposto, mi ha guardato con l‘aria di dire beh, secondo te? È un simbolo di libertà».

Le foto che accompagnano questo articolo fanno parte di “Godot”, un progetto fotografico ancora in corso sviluppato da Arthur Gau sul territorio di Calais. In quella di copertina Qui il sito del progetto.