EUROPA

«Bosnia, i migranti ostaggio di istituzioni inesistenti». Parla Silvia Maraone dell’Ong Ipsia

«Per abbeverarsi le persone attingono a un pozzo, sciolgono la neve, prendono i rami del bosco bagnati. Insomma, si arrangiano come possono per sopravvivere». Un racconto di quanto sta avvenendo in Bosnia, dove centinaia di migranti si trovano oramai da giorni senza un alloggio in cui potersi riparare

Il 23 dicembre è stata chiusa la tendopoli di Lipa a 30 km da Bihać e centinaia di migranti sono rimasti sotto la neve, senza un riparo, senza acqua né cibo. Silvia Maraone esperta di Balcani e migrazioni, che coordina i progetti a tutela dei rifugiati e richiedenti asilo lungo la rotta balcanica per la Ong Ipsia, in particolare in Serbia e Bosnia Erzegovina, ci ha spiegato quello che sta succedendo.

 

Qual è la situazione?

Sono dieci giorni che i migranti si trovano nelle stesse condizioni, anzi, negli ultimi 2-3 giorni queste stanno peggiorando. Il 23 dicembre si è verificata la chiusura del Lipa, che era un campo di tende sopra l’altopiano gestito dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e ora sono circa 900 le persone che sono ancora accampate nei resti di questo campo.

C’è la polizia che presidia tutta la zona, per cui anche l’accesso non è del tutto immediato. In realtà il compito della polizia è quello di controllare che le persone non provino ad andare verso Bihać. Non è tanto chi accede quanto chi prova ad andarsene, il problema principale è che le persone non hanno luce, né acqua, né letti o tende, non hanno protezione, in pratica non hanno niente.

Aspettano che una volta al giorno porti loro da mangiare la Croce Rossa, che opera sul posto insieme ad alcune organizzazioni di Bihać, (sono gli unici autorizzati a farlo). Ma sono pasti non cucinati, quindi freddi.

 

Come vivono queste persone?

Il termine giusto è l’attesa, queste persone aspettano. Sono stati messi, due giorni fa, su degli autobus perché dovevano spostarli in una ex caserma in Erzegovina. Sono rimasti seduti per più di 24 ore, perché a livello governativo e a livello locale, in questo nuovo posto, ci sono state proteste e non si è raggiunto un accordo, quindi le persone sono state fatte scendere dagli autobus.

Ci arrivano racconti di ragazzi che dicono che a momenti non li facevano scendere nemmeno per andare in bagno, seduti al freddo senza acqua né cibo. Sono ostaggi di diplomazie inesistenti. Oggi era il giorno in cui si sperava che si potesse arrivare a una soluzione concreta.

Tale soluzione, che esiste anche se non si smuove niente affinché si concretizzi, è quella di riaprire il campo Bira, un campo di una vecchia fabbrica in città dove già c’erano prima i migranti, con posti per 1500 persone, ma il governo locale è assolutamente contrario.

 

E le altre istituzioni?

L’Unione Europea ha detto di riaprire il Bira, il Consiglio dei Ministri di Sarajevo ha detto ugualmente di riaprire il Bira, mentre il governo del Cantone dell’Una-Sana, di cui il capoluogo è appunto Bihać, continua a dire di no. Le persone prendono l’acqua in un pozzo, sciolgono la neve, prendono i rami del bosco bagnato e si arrangiano come possono per sopravvivere.

È veramente uno scenario tragico, ma già visto lo scorso anno in un altro accampamento informale sempre vicino a Bihać, che poi è stato smantellato con l’intervento delle autorità. Quest’anno le autorità si sono pronunciate ma, purtroppo, non succede niente lo stesso.

 

Quali sono le ragioni di questo stallo?
Nel 2018 quando è iniziata la migrazione e la rotta balcanica si è spostata verso la Bosnia, sin dall’inizio, si era constatato che la Bosnia Erzegovina non era uno stato in grado di gestire questa situazione, difatti è stata sempre gestita dall’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni.

In tutti questi anni non sono state trovate delle soluzioni, come si fa in altri paesi. Soluzioni che possono piacere o no, sia chiaro: si tratta cioè di aprire più centri, magari più piccoli e non fare i campi da 2000 persone, tutti nella stessa regione, che è quello che è accaduto qui. Non si può mettere una pressione così forte su un territorio piccolo, si è arrivati a una lacerazione, anche perché esistono già delle tensioni tra i governi centrali e locali.

L’assetto politico amministrativo della Bosnia Erzegovina fa sì che tutto sia rallentato e ci sia sempre un braccio di ferro tra le istituzioni. Ci sono scontri e forze politiche in opposizione, ovviamente niente di nuovo, per esempio in una regione che si chiama Krajina è come se da sempre ci fosse una specie di rivalità con il governo centrale, cioè la Krajina si è sempre sentita tagliata fuori dal resto della Bosnia quella che chiamano Bosnia centrale e adesso sono arrivati ai minimi termini con un’ostinazione. Per questo, le indicazioni da parte dell’Unione Europea, anche abbastanza definite, non possiedono alcuna autorevolezza agli occhi di un cittadino della Krajina.

 

 

Ci saranno ripercussioni a livello “geopolitico”?

La maggior parte dei cittadini di Bihać sono in allerta, non vogliono migranti di nuovo in città. Purtroppo credo che a livello geopolitico più macro, tutto questo possa avere pesanti conseguenze, perché la Bosnia è in pre-adesione verso l’Unione Europea e il fatto che si metta di traverso di fronte a quanto viene decretato da quest’ultima è particolare. La cittadina di Bihać e il Cantone dell’Una-Sana che si oppongono all’Unione Europea e a Sarajevo, come scenario politico, ci consegnano un’idea e un quadro di un qualcosa che è fallito. Sicuramente sulla questione migrazione Sarajevo, intendo come governo centrale, credo abbia un certo imbarazzo, insomma si tratta di un problema grosso da gestire. Immagino ci siano una serie di rimostranze rispetto all’atteggiamento che sta assumendo la Bosnia Erzegovina, che avranno probabilmente delle conseguenze.

 

Era una situazione prevedibile?

Non solo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni dice che Lipa non andasse bene, sono mesi che noi diciamo che un modello che prevede tutti i campi in un’unica regione non va bene. 2000 persone tutte insieme rappresentano un rischio e il fatto che le situazioni siano sempre molto precarie e poco dignitose per chi ci abita non va bene.

Al di là di tutto arrivo a pensare che, da una parte sarei contenta se riaprisse il Bira ma solo perché le 900 persone che ora sono in mezzo alla neve potrebbero avere un riparo. Ma se penso a com’era quando Bira era aperto, un campo inumano con condizioni di vita per nulla decenti, mi verrebbe da piangere al pensiero che dovessero riaprire un campo del genere.

Tuttavia ora non ci sono altre soluzioni. Sono anni che si dice che questa situazione così non è sostenibile.

 

Come sta reagendo la popolazione?

Sembra quasi che tutta Bihać sia contraria ai migranti, in realtà il problema principale della Bosnia Erzegovina è che la maggior parte della popolazione non si schiera e non si pronuncia, tanti dicono di vergognarsi della situazione che si è creata, ma tanti altri sono contrari al fatto che quei poveracci stiano vivendo in quelle condizioni. Così sembra che quasi tutta Bihać sia contraria alle decisioni di Sarajevo e che voglia far morire i migranti in mezzo al gelo, ma non è così. C’è sicuramente una parte solidale, che probabilmente non è tanto rumorosa quanto la parte avversa.

Posso dire che ci sono tante persone che si stanno attivando in varie cittadine del Cantone dell’Una-Sana per portare aiuti, ci sono arrivati furgoni pieni di aiuti. Le comunità islamiche hanno raccolto fondi, cibo, vestiti. Anche le persone che vivono in Germania e Austria stanno raccogliendo aiuti per i migranti, assistiamo a una vera dicotomia, una spaccatura abbastanza forte.

 

Come si dovrebbe intervenire?

La prima cosa da fare è sicuramente trarre in salvo queste persone. Successivamente bisognerebbe ragionare in termini più ampi, cioè su quelle che sono le condizioni di accoglienza, una cosa che vale per tutte le città in cui i migranti si trovano a transitare. Bisognerebbe trovare delle soluzioni alternative, che non siano solo grandi campi ma anche progetti di accoglienza diffusa, maggiore possibilità di integrazione o quanto meno permettere di far passare il tempo necessario per transitare da una parte all’altra dell’Europa, comprendendo il luogo e il contesto nel quale si sono mosse queste persone.

C’è bisogno di corridoi umanitari per i casi più gravi, come le persone vulnerabili e malate, che avrebbero diritto a essere ricollocate. Quindi, creare un piano di ricollocamento a livello europeo, è essenziale, un piano che parta dai più vulnerabili ma che vada visto in senso più ampio per tutti i richiedenti asilo.
Infine, bisognerebbe fare un chiarimento a livello delle politiche europee sulle violenze dei confini. Non si tratta solo del confine croato e della polizia croata, ma anche dei respingimenti che ci sono tra l’Italia e la Slovenia, per esempio.

Com’è possibile che ci siano degli accordi e delle modalità da parte della polizia italiana, ma poi praticamente infrangono il diritto internazionale per i richiedenti asilo o com’è possibile che anche dall’altra parte la polizia croata, pagata dall’Unione Europea per gestire la migrazione, massacri la gente? È necessaria una maggiore chiarezza a livello di stati dell’Unione Europea rispetto a quelli che sono i loro atteggiamenti sui confini, dove la gente non vede davvero quello succede.

Con Rete “Rivolti ai Balcani”, l’Ipsia insieme a altre organizzazioni e reti ha lanciato un appello, in cui si chiede l’immediato e urgente intervento di istituzioni europee, internazionali e locali nell’area di Bihać e una soluzione di sistema a lungo termine che assicuri a migranti, richiedenti asilo e rifugiati il rispetto dei diritti umani fondamentali.

 

Qui è possibile firmare l’appello della Rete “Rivolti ai Balcani”

Immagine di copertina dall’archivio del sito dell’Ong Ipsia

Video dal think tank Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa